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Noi che fingevamo di snobbare Dylan e Beverly Hills 90210…

Quando trovavo mia sorella piazzata davanti al televisore a colori a 8 canali, c’era Beverly Hills 90210. Nel ’90 mi illudevo di essere fuori dal tunnel dell’adolescenza e allo stesso tempo non disdegnavo le prime stagioni della serie tv che diedero a Luke Perry e al personaggio di Dylan una fama planetaria. Era la prima volta che vedevo riflessi come in uno specchio i teenager e il loro mondo complicato, anche se i personaggi di Beverly Hills erano lontani anni luce da noi ragazzi di periferia.

Quando Dylan McKay e i suoi amici entrarono nella vita della mia generazione, compresi noi che facevamo finta di snobbare Beverly Hills 90210, Bush padre non aveva ancora trafitto l’Iraq di Saddam Hussein con l’operazione Desert Storm.
Quella serie tv fu per me una finestrella sugli USA che sognavo di raggiungere: accadde due anni dopo il mio primo sbarco intercontinentale, a New York, ma  l’America che trovai era tutt’altro rispetto ai filtri del tubo catodico, nonostante le Torri Gemelle fossero ancora in piedi.

Nelle edicole di Manahattan impazzava il volto di Luke Perry sulle copertine delle riviste per teenager così come in Italia il settimanale Cioè dedicava al piccolo clan di adolescenti californiani copertine e servizi.
Se ripenso alle mie compagne di liceo, quante avrebbero fatto follie per uscire a cena con Dylan, senza sapere quale fosse il taglio del confine tra il personaggio della sceneggiatura e la persona della realtà.

Nell’aprile del 2005 ero a Beverly Hills alla ricerca di una delle ultime case di Marilyn Monroe. Si avvicinarono due ragazze sulla trentina e mi chiesero: “Sai dove si trova la casa di Dylan?”. All’inizio pensavo si riferissero a Dylan Thomas o Bob Dylan, ma più tardi su un autobus locale verso la spiaggia di Santa Monica mi resi conto che facevano riferimento al personaggio del telefilm.
Questo ritaglio di viaggio oggi mi torna alla mente, oltre lo steccato dei pregiudizi e delle fasi d’età che vorrebbero mettere noi stessi gli uni contro gli altri, come se l’entusiasmo di un adolescente dovrebbe cedere il passo all’ipocrita compostezza dell’età adulta: è legittimo provare dolore per la perdita di qualcuno mai conosciuto di persona che ha dato vita ad un personaggio a cui abbiamo fatto tante confidenze? 

Sì, lo è oggi più che mai e non per diritto acquisito di una fottutissima nostalgia. E’ maledettamente legittimo pensare a Luke Perry come ad un fratello maggiore che se n’è andato via, sui social lo fanno teneramente pure coloro “anagrifacamente troppo avanti” rispetto ai tempi della messa in onda della serie tv.
Noi che fingevamo di snobbare Dylan di Beverly Hills 90210 perché “ci fotteva” sempre l’attenzione della ragazza a cui non piacevamo, dopo quasi trent’anni ci ritroviamo tutti insieme riconoscenti: Luke ha fatto germogliare in sordina la voglia di tornare ad essere noi stessi, ragazzi di periferia senza i ricatti degli starnazzi virtuali, felici anche senza i soldi, le macchine e le bellezze di plastica che circolavano nella California televisiva.

Simona, l’educatrice tenace dei Quartieri Spagnoli

Un mese fa sono tornato a Napoli e ho fatto un giro nei quartieri Spagnoli. Ho pubblicato un post ed ero convinto di essermene tornato a mani vuote. Invece lei era nel palmo della mia mano, con un sorriso, la voglia di vivere, tanta tenacia. Simona fa l’educatrice ed ha lasciato un commento al mio post che mi ha fatto riflettere, facendomi sentire un po’ “vigliacco” per aver mollato la mia terra. Come è accaduto per un’insegnante, Tania, ho voluto che anche Simona entrasse in questo blog dalla porta principale e facesse sentire la sua voce:

“Sono un’educatrice dei Quartieri Spagnoli di Napoli, nel web ho trovato il tuo articolo e ci ho sorriso su. Ho sorriso forse per non piangere. Sono nata nei Quartieri Spagnoli, adesso vivo in provincia di Napoli, ma sui quartieri ci sono tornata da educatrice, perchè se non avessi avuto una situazione familiare diversa vivrei ancora li ed ascoleterei Natale Galletta invece di Claudio Baglioni.
Ci sono tornata da educatrice, con l’associazione QUARTIERI SPAGNOLI. In via Trinità degli spagnoli ci occupiamo del progetto di educativa territoriale: curiamo circa 70 bambini della zona, che seguiamo a scuola e dopo la scuola per combattere la dispersione scolastica tasto dolente sui minori napoletani. Li sosteniamo nei problemi che hanno in famiglia o situazioni di disagio personali. Per tutti loro siamo un punto di riferimento, un modello “diverso” da seguire.
Chi lo sa che non abbiamo più
una struttura per lavorare? Svolgevamo le nostre attività in un centro di aggregazione adolescenti “palazzetto urban”, struttura offerta ad alcuni abitanti di una palazzina che stava per crollare. Gesto ammirevole, ma il Comune non si è degnato minimamente di ridare anche a noi una location per continuare a svolgere le nostre attività.
Le scuole sono ormai riaperte, tanti ragazzi che abbiamo seguito per i tre anni della scuola secondaria di primo grado hanno deciso di non continuare gli studi e noi non possiamo fare nulla per seguirli.
Come leggo, tu  hai scelto di vivere a Milano, non so quante volte ho pensato di andare via, di “emigrare” dicendolo alla maniera di Troisi. Qui il mio lavoro non è capito nemmeno dalle istituzioni. Tra qualche anno sarò costretta ad andar via anche io perchè si sa, su al Nord è diverso. Dovrò lasciare la mia famiglia, i miei affetti più cari, i miei scugnizzi, dopo aver sostenuto 40 esami universitari, aver lavorato nelle condizioni più assurde: ho sostenuto anche turni lavorativi di 24 o 48 ore in una comunità educativa pur di fare “curriculum” per una retribuzione mensile di 450 euro (questa è la situazione lavorativa vissuta prima di lavorare per la mia attuale associaizone), per non essere la laureata novella senza esperienza che si aspetta il lavoro d’ufficio. Faticavo di giorno e studiavo di notte per mantenermi gli studi, accumulavo esperienza e formazione, ma a nulla è valso. L’educatore a Napoli è una figura fondamentale, non riconosciuta. La situazione in  Regione Campania è tragica, continuano a dirci che “tanto denaro è stato gestito male” e gli addetti ai lavori devono risparmiare tagliando quindi sul Sociale. Non veniamo pagati per mesi e mesi,se non grazie all’associazione che con grandi sacrifici ci anticipa parte dello stipendio. Dicono di voler far rinascere Napoli, che il terzo settore è importante, che il futuro è dei giovani ma se non aiutano noi, che ci occupiamo dei bambini di Napoli, quelli che saranno i futuri uomini che popoleranno la Napoli del domani, cosa si aspettano?”

Simona V.