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Diario d’estate: Io vagabondo con la mia bici Willer “Tognazzi

Le mie prime pedalate risalgano al 1977. Immaginavo di essere un ciclista nei vialetti di una località balneare e mi sentii davvero libero quando, tre anni dopo, in un pomeriggio d’agosto riuscii finalmente a far a meno di quelle maledette rotelle. Ho ritrovato la bici in quest’estate, andandomene a zonzo in alcune città del Nord Italia e toccando persino la Svizzera. La mia Willer, è una bicicletta vintage a freni a bacchetta che assomiglia a quella di mio nonno Pietro. Tra una pedalata e l’altra ripensavo a quando, nella prima metà degli anni’50 del secolo scorso, lui gironzolava in un paesotto della provicncia di Napoli.
Mi sono trasformato in un “ciclo-vagabondo” e devo ammettere che il mondo può essere vissuto da una prospettiva diversa, a patto che si monti in sella. E non è tanto il fatto di percorrere chissà quanta strada in versione sportiva o arrampicarsi con una mountain-bike fino a chissà dove. Piuttosto è continuare a fare “il viaggiatore” in sella buttando l’occhio un po’ qui e un po’ lì, affinchè i luoghi si dileguino in paesaggi in movimento. Mi sono sentito un surfista tra il vento appena sono scivolato da cima a fondo, nella direzione di Villa Olmo a Como. Mi sono sentito come su un battello costeggiando il parco del Mincio a Mantova oppure cercando il Po a Piacenza. Tuttavia, pure su due ruote, sono finito a filtrare con il cinema, quello che da vent’anni a questa parte è accovacciato nel mio lavoro, ma anche tra le mie passioni. A Cremona ho battezzato la mia bici Willer “Tognazzi”, in omaggio ad uno straordinario attore, che purtroppo viene liquidato nella notorietà del film “Amici Miei”. Sostando davanti al cinema Tognazzi, ho ripensato ad una chiacchierata lampo con Marco Ferreri sullo scalone del palazzo del cinema di Venezia: mi raccontava delll’attore cremonese ai fornelli sul set di “La grande abbuffata”. Ed io rinuncerei volentieri al Ferragosto con la panza al sole, per rifugiarmi in chissà quale casale di campagna, passeggiare in bici con Ugo e farmi insegnare a preparare da mangiare. Sarebbe ora perchè la mia bici Willer Tognazzi non sa che ai fornelli sono una frana!

Mario Monicelli è andato via, ma i miei ricordi con lui restano qui

Quella mattina avevo in tasca 6.000 delle vecchie lire. Non una lira in più, non una lira in meno. In un’edicola trovai la videocassetta di La Grande Guerra di Mario Monicelli, nell’edizione pubblicata dall’Unità. Riuscii a farmela dare dal giornalaio senza l’aggiunta del quotidiano. Saltai il pranzo e la infilai nel videoregistratore: credo di aver rivisto quel film almeno una quindicina di volte. Quella stessa vhs un paio d’anni dopo mi è stata autografata da Sordi e non mi sarei aspettato di certo di trovarmi a cena con un grande attore (Alberto Sordi), un signor regista (Mario Monicelli) e una sceneggiatrice di classe (Suso Cecco D’Amico). Allora ero uno studente universitario, mezzo saltimbanco tra teatro e cinema, ma dinanzi a me prendeva forma il mio mestiere. Che ne sapevo che bastavano una biro e un taccuino?
Li ho ascoltati tutta la sera conversare con quel rispetto tipico del nipote dinanzi ai nonni, che ti donano la loro memoria preziosa. Sedimentavo in immagini tutti i loro ricordi, recintati nel cuore di tre vecchi amici che davanti o dietro la macchina da presa non avevano mai smesso di divertirsi. E quando Mario Monicelli ha capito che il divertimento era finito, si è gettato dal quinto piano di un ospedale romano prendendosi gioco di noi. Sembra una scena censurata del goliardico Amici miei, ereditato dal compianto Pietro Germi. Una scena tragica in cui coabitano il cinismo, la severità, l’ironia e l’intellettualità dell’ultimo grande maestro del Cinema italiano del ‘900.
L’ho perseguitato per anni, in giro per l’Italia e all’estero, e ogni scusa era buona per strappargli un aneddoto: Monicelli mi raccontò a spizzichi e bocconi di Totò sul set; mi rimproverò perché la mia generazione voleva filmare traumi che non le appartenevano; ammise che il segreto del successo della commedia all’italiana tra gli anni ’50 e ’60 era nell’amicizia e nella complicità tra registi, attori, sceneggiatori. Il segreto era tutto lì, è inutile girarci intorno.
Ho visto tutti i suoi film, ma due pellicole in particolare mi hanno lasciato una bella lezione. La grande guerra mi ha convinto che i veri eroi sono invisibili come il personaggio lavativo e strafottente di Sordi ; Un borghese piccolo piccolo mi ha fatto prendere le distanze dal tipico “borghese cacasotto”, che continuo ad incrociare e ad evitare puntualmente nella mia vita. Il piccolo uomo meschino, che come Sordi si nasconde dentro un paio di baffi, lì seduto nella poltrona del suo salotto, circondato da gingilli, vincente nel suo piccolo ranch e sconfitto ovunque, servo della famiglia imbalsamata con il sedere sporco di cacca. E Mario Monicelli mi ha insegnato che nessuno gliela toglierà dal culo, perciò il borghese resta “piccolo piccolo”.