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Don Riccardo Seppia e i nuovi mostri: meglio Bocca di Rosa!

Non occorre essere anticlericali fino alle unghie dei piedi per strillare col megafono che don Riccardo Seppia rappresenta il disonore del sacerdozio. Il parroco di Sestri Ponente è accusato di abusi sessuali sui minori, ma peggio ancora si trema dinanzi alla notizia shock: il “don mostro” è anche sieropositivo e potrebbe aver contagiato chissà quali delle sua vittime.
E come per ogni categoria, mettendo da parte il credo religioso, sarebbe un grave errore mortificare il valore di quella ciurma di sacerdoti sparsi per il mondo a donarsi per il bene dell’umanità. Mi riferisco a quelli di frontiera nella aree disagiate delle nostre metropoli; a coloro che sono finiti in Africa devolvendo la vita ad intere comunità; a coloro che sono partiti nei territori di guerra e non sono più tornati. Fa meno cronaca, ma dovremmo tornare a parlarne, a trovare lo spazio adeguato per raccontare storie che non sono poi così banali e controbilanciano quella minoranza mostruosa che ha trasformato “la tonaca” nell’arma diabolica della miseria umana.
Chi fa abuso dei minori dovrebbe essere linciato, ma soprattutto dovrebbe essere subito intercettato da chi spesso fa finta di niente, chiude un occhio, per il bene apparente della comunità. Chi è complice di Don Seppia o chi lo ha protetto dall’alto della gerarchia merita la sua stessa sorte. A chi spetta il giudizio, a seguito della rabbia e del dolore, al tribunale o anche alla stessa comunità?
Più di quaranta anni fa un genovese cantò con la sua chitarra “Bocca di Rosa”, scandalizzando il clero benpensante che scagliava pietre contro le prostitute, ma forse già chinava il capo di fronte ai nuovi mostri. Vorrei tornare tra i vicoli di Genova a cercare quella chitarra. C’è ancora un cantastorie coraggioso che, senza aver letto i vangeli apocrifi, è pronto a difendere l’ultima “puttana” pur di smascherare l’ennesimo “sepolcro imbiancato”?

 

Genova per noi

Genova per noi “che stiamo in fondo alla campagna”, come cantava Paolo Conte nell’omonima canzone, è la visuale di chi viene dall’astigiano piemontese. Genova per noi “profughi del mediterraneo”, aggiungerei io, è la visuale di chi sbarcava da città come Napoli o Palermo, invischiandosi al porto tra bordelli e contaminazioni dei vecchi night club. Genova per me era una tappa di transizione, dopo una notte di Espresso affollato, per cambiare il treno che mi avrebbe portato in Francia da una parte della mia famiglia. E adesso Genova per chi è, in quella sua conformazione misteriosa e affascinante in bilico tra Porto, Lisbona e Marsiglia ? Ai sudamericani, che hanno invaso Via Del Campo, se chiedi chi fosse Fabrizio De Andrè ti rispondono: “Quel tizio che strimpellava la chitarra”. Delle atmosfere cantate da Faber non c’è quasi niente. Il negozio-museo fondato da Gianni Tassio ha le saracinesche abbassate, perché il comune ha messo su un bando per darlo in gestione, ma nessuno si è fatto avanti ancora. Altro che Bocca di rosa, occorre imbattersi nei travestiti della zona, che oggi parlano solo spagnolo e portoghese. La vecchia Morena, alias Mario Dorè, il travestito che ha nutrito tutta la generazione di De André, è solo un pallido ricordo così come rischiano di diventarlo i femminelli dei quartieri Spagnoli partenopei. Gli aneddoti interessanti si rubano ai genovesi di altra generazione, ma su questa memoria raggelata e intorpidita nessuno batte ciglio, così come se ti metti alla ricerca invana dei Tenco, dei Bindi o dei Lauzi. Timidi accenni a Boccadasse tra la casa citata in La Gatta di Gino Paoli o la Creuza de Mar, immortalata nell’omonimo aquerello musicale di Pagani e De Andrè. C’è sempre una consolazione, una sosta casuale all’ Antica Sciamadda di via San Giorgio a rimpizzarsi con focaccia genovese e farinata, a quasi i 18 euro al chilo, forse un po’ troppo per un piatto popolare. E’ legittimo rifugiarsi nel gusto perchè Genova resti Genova?