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Cartolina da Rimini: La città di Fellini negli occhi di Ethan

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Rosario PipoloRimini ha smesso da un bel pezzo di essere la Las Vegas italiana, fatta delle luci lampeggianti delle discoteche che fecero furore sulla riviera romagnola negli anni del riflusso. La piadina viene servita in alcuni posti come se fosse cibo da ricchi. I Russi con il peso dei loro rubli si sono impossesati delle cittá di Fellini come fecero a suo tempo sulle coste del Montenegro, dall’altra parte dell’Adriatico.

Basta staccarsi da Marina Centro e rovistare tra le vie del centro cittá per scovare i riminesi, accoglienti e con gli occhi zeppi di dignità come quelli di Tonino Guerra. Gianluca ha le radici piantate qui: i suoi genitori sono riminesi come i nonni e i bisnonni. Gianluca ha un hobby. Mettere a posto vecchie Vespe e farle diventare nuovi gioielli a motore verniciati di vintage che riportano Rimini al bianco e nero di La dolce vita di Federico Fellini. Gianluca mi racconta di aver risistemato un vecchio Ape della Piaggio, il treruote che fece sognare i riminesi a cavallo degli anni del Boom economico. Ed era proprio su uno di questi che una ventina d’anni fa girava l’ambulante che mi fece mangiare la piadina più buona della Romagna.

Nonostante le invasioni barbariche, la Rimini dei miei ricordi vive negli occhi vispi del piccolo Ethan, il cui nome di romagnolo non ha niente. Eppure Ethan si sente riminese quando cammina a piedi scalzi sulla sabbia. In fondo al litorale c’è una ruota panoramica che ha poco a che fare con quelle dei Luna Park. E’ una ruota magica perché ad ogni giro evoca i mondi fellinani di Otto e mezzo, Amarcord e i Vitelloni. Se Rimini imparasse a proiettare i film di Fellini in ogni angolo della città – come già accade nello sguardo vispo del piccolo Ethan – forse saprebbe ritrovare la strada giusta per tornare ad essere più romagnola, più autentica, meno esterofila.

Il ricordo: Su e giù in ascensore con Tonino Guerra

Nel periodo dell’università chiesi il rimborso di un biglietto del cinema. Mi avevano tagliato i titoli di coda. Lo reputavo una mancanza di rispetto per tutti coloro che avevano contributo alla realizzazione del film. Il nome di Tonino Guerra non è un uno spasimo emotivo temporaneo da piazzista social, ma un’anagrafica dei titoli di testa delle pellicole, che hanno decisamente segnato la mia vita.
Più di venti anni fa, ero in ascensore all’Excelsior del lido di Venezia. Ero di corsa per una conferenza stampa. L’ascensore iniziò a fare su e giù. L’anziano signore che mi stava accanto, mi rimproverò con ironia: “Non guardare l’orologio. Godiamoci questo bel momento. Questo sali scendi mi riporta ai luna park della mia Romagna”. Non lo avevo riconosciuto. Poco dopo mi resi conto che l’uomo baffuto fosse Tonino, la penna poetica intinta nel cinema.

Tonino Guerra è riapparso sporadicamente negli anni avvenire: alla cena degli ottanta anni di Michelangelo Antonioni ero imbambolato ad osservare il regista semiparalizzato. Mi chiedevo: “Dov’è finito Tonino? Se si alzasse per abbracciarlo, lo libererebbe con la sua poesia dalle sbarre che lo rendono detenuto in un corpo malato”.
Pensavo a Tonino Guerra tutte le volte che volevo fuggire a Sant’Arcangelo di Romagna, perché lì Leo (de Bernardinis) aveva avvolto un festival di teatro con la spiritualità monastica che ci voleva per riabilitar la scena italiana.
Pensai a Tonino Guerra quando misi in piede un omaggio girovago a Federico Fellini, ma non ci fu l’occasione per farlo salire sul carrozzone.

Mi vien voglia di tornare su una giostra e guardare la vita da lassù. E’ tutta un’altra cosa, non ci sono prospettive prestabilite. Forse era proprio quello che voleva dire Tonino Guerra al giovanotto sconosciuto in ascensore. Il giovanotto sconosciuto ero io.
E da quel giorno non fu più un nome e cognome dei titoli di testa del cinema della mia vita, ma il signore che mi fece fare il primo passo per diventare attento osservatore della realtà e allontanarmi dalle distrazioni che ci privano delle vere bellezze della vita.

Italia incazzata: “E la nave va” tra ambientalisti, tassisti, benzinai, tir e forconi

Mi concedo una pausa dallo sceneggiato mediatico “Concordia & Giglio” e dalla partita di ping-pong tra l’armatore e il comandante sul “mea culpa”. Si rischia il disastro ambientale, sì o no? Ad ogni male c’è rimedio, tanto vogliono convincerci che i residui inquinanti molleranno gli ormeggi intorno all’isolotto toscano. Mi viene in mente il mio golfo di Napoli: si scannano per la bandierina blu a tutela di alcune località. Chissà se a Forte dei Marmi, l’estate che verrà, saranno tutti sorridenti come a Capri. Non perdetevi i bagnanti chic all’ombra dei Faraglioni, illusi che le loro chiappe siano lontane dalla zozzeria infognata sotto la fascia costiera che dalla Penisola Sorrentina si spinge fino a Bacoli.

Meglio un pedalò o un canotto a remi, almeno si è sicuri di raggiungere la destinazione in tempi ragionevoli. Benzinai e tassisti incazzati. Diciamo che gli umori devono alternarsi in una vera democrazia. Ieri eravamo incazzati noi quando i distributori se la spassavano con la benzina alle stelle o salendo a bordo di un tassì, perchè in Italia costa quanto un giro in limousine rispetto al resto d’Europa.

Si mettono pure gli autotrasportatori e così le nostre autostrade sembrano diventate il set del remake di Convoy – Trincea d’asfalto di Sam Peckinpah. Questa volta la rivolta è molto più complessa di quella messa in atto dal protagonista del film sulle strade deserte dell’Arizona. Con gli aumenti di pedaggi e carburante, la vita diventa ormai insostenibile e non solo per loro.

Con l’urlo dei Forconi stiamo tornando ai tempi in cui il tiro alla fune si giocava tra i Sabaudi dal’alto e Borboni dal basso. Almeno per una volta non si dica che siano solo i leghisti a parlare col megafono. Allevatori, agricoltori e pastori dell’isola “senza ponte sullo stretto” hanno mollato zappa e strumenti di lavoro per stilare un manifesto di rivolta popolare, su i social e con il passaparola a fil di rete che fa di Facebook e Twitter due strumenti efficaci. Illudiamoci pure che la Sicilia di oggi per certi aspetti non sia più quella “gattopardiana” di Di Lampedusa. I Forconi urlerebbero un bel vaffa pure a Peppiniello, il Garibaldi da fiction riproposto in tv ultimamente nel solito decotto.

Presi da questo stato di rissa, è passato inosservato il compleanno di Federico Fellini. Google ha fatto bene a celebrare con un doodle le 92 candeline per il maestro, così almeno qualche sbadato non ha la scusa di scambiarlo per “un forcone”. Ci vorrebbe l’occhio cinematografico di Fellini e il tratto a matita di Hugo Pratt o Milo Manara per raccontare l’Italia di questi giorni, “smarrita” come nel penultimo film dimenticato del regista riminese “E la nave va”. Questa volta la nave non è arrivata neanche a largo. E ci è scappato più di un morto.

Sul tappeto: L’ultima volta che vidi Giulietta Masina

L’ultima volta che vidi Giulietta Masina fu in una scena straziante data in tv: lei in lacrime che con lo sguardo accompagnava il feretro del suo amato Federico (Fellini), compagno di scena e di vita. Con gli anni, nell’ottica di chi ha imparato a trasfigurare i sogni attraverso il cinema di Fellini, ho tentato di offuscare questa immagine, sostituendola con lo sguardo profondo di Giulietta nelle sequenze di “La Strada”. Nel personaggio di Gelsomina c’era una vitalità che usciva fuori soltanto se ti appiccicavi ai suoi occhi. Una quindicina d’anni fa, avevo messo in pausa su un primo piano il mio videoregistratore e mi ero attaccato con le guance allo schermo, sperando di leggere nella profondità dell’animo della protagonista del film. Esperimento non riuscito.
Poco tempo fa ero disteso su un tappeto. Guardavo il soffitto, mi sentivo libero. Attorno a me c’erano una serie di oggetti significativi che connotavano l’ambiente: mobili, fiori appassiti, fotografie. Erano il tappeto e la luce soffusa a non farmi sentire estraneo da quel mondo che non mi sarebbe mai appartenuto. Quando mi sono trovato guancia a guancia con un paio d’occhi mandorlati, ho ritrovato improvvisamente Giulietta Masina. Ed è stato lì che mi sono convinto: i veri incontri si fanno ad una distanza così ravvicinata da farti rapinare in un batter baleno l’ultimo fondale della persona che ti sta accanto.  Ci avete mai pensato veramente?
Provate a guardare una bella fotografia di qualcuno a cui siete particolarmente legati. Osservate la stessa persona nella quotidianità a più distanze. L’avvicinamento fisico vi restituirà più prospettive, finché non vi troverete appiccicati al suo sguardo. Non privatevi di quell’istante, perché è in quell’atto che capirete la densità del legame, che annulla il tempo o i soliti luoghi comuni che fanno del corpo l’unica strada maestra.
L’ultima volta che ho visto Giulietta Masina non è stato al cinema, con il filtro di uno schermo, colpevole di aver frenato la durata eterna dello scoprirsi reciproco. E’ stato lì su quel tappeto, nonostante i tanti passi e le aspirapolveri che ci passeranno tenteranno invano di cancellare. Cosa?  La prima volta che vidi (veramente) Giulietta Masina.

Luna baltica da Riga a Vilnius

untitled1501Non te l’aspetti di sera cosi’. Cosi’ come? Saranno le illuminazioni colorate di questi giorni a rendere Riga, capitale della Lettonia, cosi’ intrigante da atteggiarsi a cugina moscovita. La notte e’ lunga non solo per chi cerca la squallida avventura con la ragazza dell’Est di turno, ma anche per chi e’ venuto una volta per tutte a chiudere i conti con un’altra capitale delle terre baltiche. Il mio pellegrinaggio in Europa continua senza sosta, con la stessa passione di sempre, con il timore che dietro questi palazzi e chiese imponenti si nasconda qualcosa altro. Basta oltrepassare un ponte e trovarsi nel quartiere russo di Riga per cogliere in flagrante la miseria e la poverta’. Mi aggiro in questo mercato per setacciare la memoria dell’Ex Unione Sovietica: quella che ha solleticato a molti l’utopia di un mondo diverso. Io non ne sono mai stato troppo convinto, ed oggi vista l’eredita’ voglio remare sulla sponda opposta. I viaggi sono belli per questo, per quello che ti lasciano al momento del ritorno. Questa volta il ritorno nella routine non e’ ancora arrivato. Salgo su autobus e in meno di quattro ore arrivo in Lituania. L’obiettivo e’ raggiungere la capitale Vilnius prima che scocchi la mezzanotte, quasi fossi nella stessa condizione spirituale di Cenerentola. A farmi compagnia nel tragitto c’e’ una splendida luna piena. Ed e’ proprio quella luna a farmi sentire vagabondo come “il pastore errante per l’Asia” leopardiano, fuggito dalla claustrofobica pagina di un libro per dare un nuovo senso al suo destino. E’ la stessa luna che qualcuno guarda distrattamente a Milano come a  Napoli? O e’ la millesima luna che mi prende per culo come a dire ” sono sempre io, ma e’ la tua soggettiva interiore ad essere cambiata”? Come ci ha ricordato Federico Fellini, “la voce della luna” resta inalterata, con qualche accenno che ci fa sentire sospesi nel vuoto. Ed e’ questa luna baltica, sbarazzina e timida, ad aver tracciato il mio percorso di questa notte, a meta’ strada tra Lettonia e Lituania.