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Quando su Linkedin e Twitter vogliamo passare per ciò che non siamo

Rosario Pipolo“Strateghi del digitale”, “social media manager”, “giornalisti enogastronomici”, “creativi”, “guru P.R.”, “fashion blogger” sono soltanto alcuni termini di cui abusiamo ogni santo giorno. Tutti siamo o abbiamo l’arroganza di sapere far tutto, soprattutto nel campo dell’intrattenimento e della comunicazione digitale. Insomma, mentre per fare il meccanico, l’idraulico o il fresatore occorre essere specializzati, basta mettere il naso tra Linkedin e Twitter per capire che l’illusione di massa può essere vista così: tutto sommato ci sono delle professioni che possiamo inventarci dall’oggi al domani e la sindrome del “tuttologo” imperversa. Prendi l’arte e mettila da parte? No, mi invento una posizione lavorativa extra-large.

E così l’impiegata strozzata dalla routine vorrebbe farsi passare per mente creativa; il bancario in prepensionamento, da “buona forchetta” che era a casa di mammà, (s)vende frustrazioni improvvisandosi giornalista enogastronomico; il piazzista del paese mette giù il megafono da “arrotino” e fa le digital P.R.; l’infermiera, dopo una vita nelle corsie degli ospedali, apre un bel blog e diventa stellina fashion tra i cosmetici che vendeva sottobanco per arrotondare lo stipendio.

Chissà quante risate si fanno quelli delle Risorse Umane sbirciando tra i profili e quanti mal di pancia diventano incurabili per le medie e grandi aziende quando scambiano piccole botteghe a gestione familiare per startup. Ah, ci fossero le vecchie botteghe di una volta, abitate dal mastro che conosceva il suo mestiere!

Finita l’epoca dei maxi bigliettini da visita, affollati di titoli e mansioni, comincia quella dell’about us nella giungla confusionaria dei social network. Le job title bizzarre durano il tempo di una stagione, perché a confermare la professionalità sono la storia e l’esperienza che ognuno di noi si ritrova alle spalle. A ciascuno il suo… mestiere!

Amazon Italia e il pessimo Customer Service!

Lo shopping on line ha le sue regole e la sua disciplina. Questo mi sembra logico. Tuttavia, il Customer Service* resta il fiore all’occhiello anche di un megastore on line come Amazon Italia. Badiamo bene che un bravo operatore deve sempre seguire la policy di vendita del brand, ma anche valutare caso per caso e confrontarsi con i suoi responsabili. Può non accadere e così un frettoloso “copia e incolla” delle regole di vendita è la peggiore scorciatoia per fidelizzare il cliente. Mettete il vostro acquisto nel carrello, lo depositate lì per qualche giorno, caricate la vostra prepagata e poi prima dell’acquisto vi ritrovate il prezzo rialzato. Il gioco vale la candela? Un 16% in meno su un prodotto musicale che supera abbondantemente i 200€ non è poi così malaccio. Anzi, corrisponde quasi all’ingiusta IVA che mortifica la musica in Italia e non la considera “cultura”.
Insomma, gli umori di vendita di Amazon Italia sono così lampo e le offerte così ballerine, rispetto ai cugini di UK, Francia e Germania, da sembrare specchietto per le allodole. Mentre dal marketing arrivano brillanti newsletter per dirti sottobanco “Perché continui a spendere su Amazon UK quando ci siamo noi in Italia?”, l’incauto e ingessato operatore ci mette del suo. La risposta non è poi così scontata: forse acquistiamo in UK perché il Customer Service ne sa qualcosa in materia di problem solving e valutazione del singolo caso. Le politiche commerciali sono una cosa – alziamo il prezzo del box in Blue-Ray di Harry Potter (UK import) e abbassiamo la versione italiana che c’è rimasta sullo stomaco – ma quelle del Servizio Clienti sono le più delicate perché fanno la differenza di una vetrina.
Su Amazon Italia ci sentiamo “global” soltanto nella navigazione, perché ad un passo dall’acquisto ci ricordiamo di essere in Italia, il paesotto alla buona in cui persino un anglosassone doc come sir William Shakespeare è riuscito a metterci alla porta con gusto e galanteria. Continuiamo ad acquistare musica e intrattenimento su Amazon UK? Sì, soprattutto se abbiamo la presunzione bonaria di sentirci anglosassoni e, per una volta, senza la puzza sotto il naso.

*Tengo a precisare che dal 2013 il Servizio Clienti ha fatto passi da gigante con l’efficienza di gran parte degli operatori. Rispetto a questo post pubblicato, la differenza di un operatore la fa la capacità di sapere gestire il singolo caso.

Topolino cattura l’Uomo Ragno per 4 miliardi di dollari

L'Uomo Ragno, supereroe Marvel

Rosario PipoloNoi ragazzi degli anni ’80, malati cronici di fumetti, ci muovevamo su sponde opposte: c’è chi leggeva le avventure dei personaggi Disney sul mitico settimanale Topolino e chi come me tifava per i supereroi della Marvel, tra l’incredibile Hulk e l’Uomo Ragno. Mentre Spiderman si fa mettere nel sacco dall’allegra brigata capeggiata da Micky Mouse, l’abecedario dell’intrattenimento  subisce un altro duro colpo verso l’omologazione. Disney acquista la Marvel per 4 milairdi di dollari e da questo momento l’universo dei supereroi non sarà più lo stesso. Per me Disney aveva un solo grande paladino, l’incazzato Paperino, l’unico che potrebbe andare d’accordo con Capitan America, X-Men e compagnia bella per un motivo semplice: la dinastia dei paperi di Carl Barks, compresa quella canaglia tirchia di zio Paperone, era in perfetta sintonia con “l’America arrabbiata”: quella che preferiva il fango di Woodstock allo zucchero filato degli anni ’50, quella che aveva alzato la voce contro la sanguinosa guerra in Vietnam, quella che aveva fatto sparire dal comodino le foto ricordo di Kennedy o Nixon, spingendosi oltre le dovute profezie che mai avrebbero scommesso su un Presidente afro-americano. L’inchiostro della penna di Stan Lee ha messo nero su bianco una volta per tutte che i supereroi di ultima generazione hanno “super poteri”, ma anche “super problemi” sotto il cielo comune dell’accettazione del diverso (X-men, Hulk). La Disney non produce arte da un bel pezzo. Se questa operazione colossale ammazzasse la creatività della Marvel, l’intrattenimento d’oltreoceano obbedirebbe per l’ennesima volta alla sporca legge della mercificazione.