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“Sono nata brutta e grassa. Venivano da me solo per copiare i compiti…”

Emancipazione femminile, vestito svuotato nel giorno dell’innossidabile ricorrenza, torna ad essere l’abito del quotidiano quando lei si alza in piedi e confessa con senerità: “Sono nata brutta e grassa. Venivano da me solo per copiare i compiti.”

L’ammutolimento non sta nel tenero pietismo che potrebbe scatenare una confessione come questa quanto nella consapevolezza che ci vuole coraggio a irrompere così pubblicamente.
La Wonder Woman, che ha reso la non-accettazione la sfida più grande della sua vita, si è guadagnata il superpotere di andare incontro a chi la respingeva e la faceva sentire la diversa della tribù.

Emancipazione femminile non è il vezzo di cui ci riempiamo la bocca ogni anno puntualmente, appena spunta l’anniversario che deve profumare di mimosa.
E’ puttosto la presa di coscienza che la diversità è lo specchio in cui si riflette il meraviglioso della nostra anima e non dobbiamo privarci di farne dono agli altri.

“Sono nata brutta e grassa. Venivano da me solo per copiare i compiti.” Grazie a lei sono tornato a sentire il profumo di mimosa senza per forza sottomettermi all’anniversario. Il mio olfatto aveva dimenticato la vera essenza.

L’altro 8 marzo: Per la Festa della Donna la mia mimosa alle vittime della Fabbrica Triangle di New York

Rosario PipoloLizzie Adler, 24 anni, contava i minuti perché finisse il turno. Forse fuori l’aspettavano le carezze del suo fidanzato. Ida Brodsky, 15 anni, non pensava di finire a fare l’operaia, perché alla sua età sognava di avere penna e calamaio e scrivere un tema sul libro che avrebbe potuto leggere la sera prima. Laura Brunetti, 17 anni, singhiozzava ogni volta che le passava davanti l’immagine d’oltreoceano della nonna che la cullava dolcemente, nell’Italia che i genitori avevano lasciato. Dora Welfowitz, 21 anni, aveva ricevuto una proposta di matrimonio e l’aveva presa seriamente in considerazione. Sarebbe uscita da quella maledetta fabbrica una volta per tutte, per fare la moglie e chissà la mamma a tempo pieno.

Julie Oberstein, 19 anni, e le due sorelle Lena e Mary Goldstein, 22 e 18 anni, si ritrovavano ogni volta davanti la solita vetrina newyorkese, sognando di avere abbastanza spiccioli per comprare quel cappello di chiffon. A Provindenza Panno, 43 anni, avevano regalato una piantina e le avevano assicurato: “Tutte le volte che ti mancherà, innaffiala e vedrai che prima o poi tornerà”. Suo marito si era imbarcato come marinaio su una nave e non era tornato più. Teresa Schmidt, 32 anni, aspettava impaziente la chiamata di un albergo per fare l’addetta alle pulizie. Così avrebbe potuto incantarsi ad osservare signori e dame che sbarcavano dalla sua Europa.

I nomi di queste donne sono veri, le storie appiccicate addosso sono frutto della mia immaginazione, che ha tentato invano di addolcire il ricordo crudele della loro scomparsa prematura. Fanno parte della lista delle 146 vittime riconosciute che persero la vita il 25 marzo 1911, nell’incendio della fabbrica Triangle a New York. A che serve ricordare queste operaie proprio l’8 marzo, nel giorno della Festa della Donna?

Perché il Giorno della Mimosa resti soprattutto il Giorno della Memoria ed è questo uno dei motivi per cui è stata istituita la Giornata Internazionale della Donna. Noi forse lo dimentichiamo quando tutto si frantuma nel becero business, nella mortificazione del significato autentico di quel fiore, nell’euforia di una notte che dà un calcio in culo alla memoria per uno streap tease mascolino, in cui il kitsch di un corpo nudo soppianta l’anima dell’essere umano.

No, c’è un altro 8 marzo e non vogliamo dimenticarlo. Perciò, quando offrirete un ramoscello di mimose alla vostra donna, accompagnatelo con un abbraccio intenso e prolungato. Restituite alla vostra fidanzata, a vostra moglie, alla vostra compagna, quel sogno che è stato strappato via a tutte le vittime della fabbrica Triangle.

Il mio 8 marzo sarà diverso dal solito: sosterò fuori una fabbrica e aspetterò all’uscita tutte le donne operaie. E sarà lì mezzo, che giusto un secolo dopo, cercherò il tuo volto. Cara Lizzie Adler, adesso sei una stella che brilla in cielo, ma io ti attenderò come un secolo fa ha fatto il tuo fidanzato. Ti restituirò i tuoi 24 anni perduti, attraverso quella carezza che mai ti arrivò, sperando che le mie mimose riscattino la memoria dalla banalità, senza farmi sentire escluso dal diritto di riflettere.

8 marzo, mimose per la “non” Festa della donna

La mattina dell’ 8 marzo non so se a mettermi più tristezza sono i ragazzi di colore, che cercano di venderti sotto la metropolitana un mazzetto di mimosa, o le macchinette automatiche in cui infili i soldi e ti restiuiscono il fiore simbolo della Festa della donna. Il business c’è e si vede. Chi fa il fioraio di questi giorni lo sa bene. La solita scusa: fa freddo, il trasporto, ce le fanno pagare a peso d’oro e compagnia bella. Al mio paese, i mariti di provincia, facevano a gara a chi usciva dalla bottega con il fascio più grande di mimose, ma pochi si chiedevano il significato di questo giorno. Mio padre era più “selvaggio” da questo punto di vista e andava a raccoglierle direttamente nei campi. Ogni anno l’8 marzo finisce al centro delle polemiche, e non sono poche le donne contrarie: “Alla faccia del nastro rosa, che festeggiamo a fare se poi ci prendono a calci nel sedere tutto l’anno?”, ha replicato un’amica. Io personalmente bandirei la Festa della Donna quando vedo eserciti di femmine, all’arrembaggio di carovane a forma di mega autobus, andarsene a fare le esibizioniste in giro per i locali. Mica il significato storico e sociale dell’8 marzo può ridursi ad un effimero atto goliardico? Ogni donna aspetta comunque il suo ramoscello di mimosa. Io confesso il mio peccato. Il mio cespuglio di mimosa ce l’ho nascosto nella tasca del giaccone, appassito magari, perchè non si sa mai che lei ti faccia la sorpresa, spunti alla fermata del tram e corra ad abbracciarti. Quella sì che è una donna, la tua e di nessun altro.

Facebook, roba da fancazzisti?

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Facebook ci ha rincretiniti tutti. E per la festa della donna (godetevi questo 8 marzo!) chissà quale altra diabolica trovata ci siamo inventati al posto di una mimosa. Facebookkiamo troppo e sprechiamo tempo prezioso. Alzo la mano e confesso i miei peccati: anche io sono vittima del social network più famoso del pianeta! Fermi un attimo… riflettete guardando questo video divertente e buona festa della donna!

8 Marzo, il Giorno della Mimosa

L’8 marzo 1982 mi fu assegnato un tema libero, da sviluppare avendo come interlocutori un cane e un bambino. Mi balenò un’idea: il bambino avrebbe raccontato al cane il significato storico della Festa della Donna. Fu un successo strepitoso. Frequentavo la III elementare e la maestra mi premiò, facendomi girare col tema per tutto il II° Circolo Didattico di via Dei Mille di Acerra (Na). A distanza di anni mi rendo conto di aver colto con spontaneità il vero significato del Giorno della Mimosa.

E’ straziante ogni 8 marzo vedere una ciurma di donne che si danna per ricevere un mazzolino di mimose, magari per sfilare in passarella e dimenticare il significato di quel giorno. Mi deprime vedere eserciti di donne che vanno a festeggiare nei locali e liquidano tutto come spettatrici di uno squallido strip maschile. Sarà pure vero che il mio sguardo maschile mi rende miope, ma se fossi una donna consegnerei l’8 marzo alla riflessione. Donne o uomini, se ci siete battete un colpo. Cosa resta veramente del Giorno della Mimosa?