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Back to School: Lorenzo Rocci meritava di più!

Lorenzo Rocci, grecista e lessicografo, noto a tutti come il papà del più completo e famoso dizionario Greco-Italiano, era nato nello stesso fazzoletto di terra di Lucio Battisti. Tra la Fara in Sabina dell’erudito e la Poggio Bustone del cantautore ci sono una cinquantina di chilometri in auto.
Entrambi i paesi della provincia di Rieti si sono sforzati di omaggiare i loro concittadini illustri e, in fin dei conti, a Battisti è andata meglio di Rocci perché a pochi anni dalla scomparsa ha ricevuto il monumento in paese.
Il povero Rocci ha dovuto penare un po’, a settant’anni dalla scomparsa con l’aggiunta di uno slittamento per la pandemia, ha finalmente avuto una scultura in bronzo che guarda al suo liceo a Fara in Sabina.

IL ROCCI TRA I RICORDI DI NOI LICEALI

L’Italia è un Paese di smemorati e così uno dei più grandi grecisti d’Europa deve mendicare memoria collettiva? Per i liceali della mia generazione, il Rocci era il dizionario voluminoso che i nostri genitori ci avevano comprato con sacrificio. Ricordo la sera d’autunno del 1987 in cui papà, ancora con la tuta da lavoro, tornò da una libreria con il tomo gigante. Un salasso, aveva tirato fuori più di 100.000 delle vecchie lire.
Si sa che le mie frequentazioni ai tempi erano già anglofone e restavo attaccato alla gonnella di Shakespeare, ma ogni volta che predevo 5 ad una versione di greco mi sentivo in colpa. Eppure il dizionario Rocci è rimasto un monumento immacolato nel mio archivio e, anche quado è sbucata la moda di vendere i vecchi vocabolari di greco e latino, io ho detto no. Non è stato un atto di sentimentalismo verso i giorni spensierati del liceo, quanto la lucida consapevolezza del valore dell’opera omnia del gesuita di Fara in Sabina.

ALTOLÀ, QUALE STRUMENTO DI TRADUZIONE?

Dopotutto neanche la generazione dei miei professori è stata all’altezza di onorare la memoria di Lorenzo Rocci, magari dedicandogli una giornata di lezione monotematica per trasmettere a noi studenti di allora il valore della sua opera. Indaffarati a riempire registri, portare avanti programmi ministeriali, inciampare nello sterile nozionismo, ci hanno fato credere che IL Rocci fosse esclusivamente uno strumento di traduzione.
Perché Lorenzo Rocci avrebbe meritato di più in questi settant’anni dalla sua scomparsa? Perché quel dizionario è un compendio di storia, patrimonio dell’umanità compilato da un gesuita con certosina maestria.
Il dizionario Greco-Italiano, edito dalla Società Dante Alighieri, non è stato l’effimera compilazione di schedine, ma un’opera all’avanguardia che ha registrato con puntuale meticolosità l’evoluzione del greco antico, sgattaiolando tra le evoluzioni linguistiche sotto le varie dominazioni, inclusa quella bizantina.

LE NOSTRE SCUSE A PADRE ROCCI

Altro che eBook, ogni pagina del buon vecchio Rocci profuma di storia e ci mette, ahimé, di fronte a una dolorosa presa di coscienza: l’involuzione e l’imbarbarimento linguistico che serpeggia nel ping pong quotidiano di Whatsapp. Chiedere scusa a Padre Rocci per non averlo riconosciuto abbastanza? Perché no, canterebbe il suo conterraneo Battisti.
Al di là degli allori istituzionali – quelli lasciano il tempo che trovano – basterebbe che ogni studente di oggi, di ieri o dell’altroieri mettesse aperto sul davanzale della finestra il suo dizionario e lasciasse che il fruscio del vento sfogliasse le pagine come fossero un memento.

Sarebbe un modo “romantico” per ribadire: “Scusaci, Lorenzo Rocci. Meritavi di più!

Ciao Giacomo, compagno di classe per sempre

I banchi del vecchio Liceo Imbriani di Pomigliano D’Arco, alla periferia di Napoli, custodiscono incisi nel legno i nostri nomi, Giacomo. Un compagno di classe resta per sempre e tu lo sai bene.
A quasi 30 anni dalla Maturità della nostra III F, che ci eravamo ripromessi di festeggiare alla grande, non è cambiata una virgola nel nostro legame nato negli anni di scuola.

TRA LA SALSEDINE DEL MARE E LACRIME SALATE

I sogni, le bravate, le lezioni condivise, la vita di allora sono sulla via che portava al liceo perchè come diceva Heinrich Böll “Forse non è a scuola che impariamo per la vita, ma lungo la strada di scuola.
Giacomo, in questa maledetta domenica di fine agosto la salsedine del mare si confonde con il sale delle lacrime. Quando bisognava organizzarsi per rivedersi eri sempre pronto e così mi hai scritto tanti anni fa:

“Rimpatriata? Magari. La voglia di rivedervi tutti è davvero tanta.”

Sbobbino e sbobbino ricordi, si attorcigliano sul nastro del vissuto, sono tanti, sono troppi. Sbucavi con la videocamera, partiva il REC, mi piazzavi a fare l’intervistatore, sei sempre stato un’archivista della memoria e sapevi in anticipo che quei giorni spensierati sarebbero stati una delle tappe più belle in questo viaggio incredibile che è la vita.

UNA RADICE DELL’ALBERO DELLA NOSTRA VITA

Giacomo, se dicessimo “i migliori anni della nostra vita” peccheremmo di fottuta nostalgia , se diciamo invece una radice dell’albero della nostra vita piantiamo la speranza di ritrovarci, da qualche parte, nell’universo.
Singhiozzo e scrivo, ho tirato fuori il disco di Elton John Live in Australia. Fino ad allora ero abituato ai vinili, tu mi hai mostrato per la prima volta un CD. Lo avevi portato dall’America e in quel momento non so perché le canzoni di “Rocket Man” sono entrate con prepotenza nella mia vita, all’alba degli anni ’90.

DON’T LET THE SUN GO DOWN ON ME

Gli Stati Uniti sono stati la tua seconda casa e, quando ci vedevamo al Parco Arcadia a Pomigliano insieme a Valeria, Marina e Sandro, me li facevi vivere a distanza attraverso i tuoi racconti. Il mio viaggio a New York nel ’92, subito dopo la Maturità, non ho potuto fare a meno di condividerlo con te: Giacomo, tu sapevi che per me era stato come sbarcare sulla luna.
Giacomo, mi senti? Ho ancora la vecchia musicassetta registrata da un tuo CD. George Michael e Elton John stanno cantando per te Don’t Let the Sun Go Down on Me, uno dei tuoi brani preferiti. Il volume è altissimo come le voci di tutti i compagni della III F dell’anno scolastico 1991/1992. Non finiremo mai di dedicarti un pensiero. Tu continua a regalarci il tuo sorriso sornione e la voglia di vivere.

Adesso capisco perché stanotte non riuscivo a dormire. Mi mancava il respiro. Era il tuo, era il nostro, compagni di scuola per sempre. Ti voglio bene.

La mia Giornata della Memoria al Rifugio antiaereo n.87 di Milano

Rosario PipoloIn una gelida e grigia mattina di metà gennaio ero in viale Bodio a Milano, davanti al cancello della scuola primaria Giacomo Leopardi. Attraversai il cortile, i bimbi avevano iniziato le lezioni già da un pezzo. Scendendo una ventina di gradini, mi ritrovai nel sottosuolo. Simona Di Rocco, la mia guida, aprì la porta, non ero in uno scantinato.
Nel Rifugio antiaereo n.87, che aveva salvato dalle bombe centinaia e centinaia di uomini, donne, bambini, mi sentii improvvisamente un cavernicolo della memoria, come quando avevo camminato a carponi lungo il Tunnel di Sarajevo, luogo simbolo di sopravvivenza della guerra serbo-bosniaca.

Le mura, le scritte, lo spazio dove le ombre erano trafitte dal buio: qui inghiottii pensieri proprio come avevo fatto ad Auschwitz e Birkenau, dopo il lungo tragitto che mi aveva condotto con un autobus locale da Cracovia. Tuttavia, il sottosuolo di viale Bodio non era luogo di morte, ma un enorme spazio seppellito , casa per tanti durante la Seconda Guerra Mondiale.
Mi venne in mente il suono delle sirene, sentito tra i racconti di nonno Pasquale e nonna Lucia, che correvano ai ripari dalle bombe sotto il tunnel al confine napoletano tra Mergellina e Fuorigrotta.

Mi distrassi facendo scivolare il palmo della mano sinistra sul legno tarlato di una cattedra di allora, come se fossi finito in una pellicola di Rossellini. Per contrasto mi rividi nell’aula delle mie elementari, alla periferia di Napoli, da dove si sentiva il rumore lontano delle bombe, lanciate dalla Nuova Camorra Organizzata, nella faida fratricida dei clan. In paese vigeva l’omertà, perché i “brutti ceffi” portavano valanghe di voti ai papponi politici del territorio.
Ogni generazione ha le sue bombe, ogni generazione ha guerre vissute e taciute.

I cartelloni colorati degli alunni della Leopardi, su una parete del Rifugio 87,  recitavano a caratteri cubitali “Sopralluogo”, in poche parole il motivo per cui ero venuto. Mi ero ritrovato invece a fare l’ennesimo viaggio dell’altro giorno della memoria, per cui vale la pena ricordare ai nostri bambini che un rifugio antiaereo non è purtroppo un luogo dismesso del passato, perché in tante parti del mondo, non molto distanti da noi, proteggono in questo momento tanti rifugiati.

Oggi, nella Giornata della Memoria, il risveglio è guardingo e fa da sentinella ai genocidi intorno a noi che non vediamo. Che il Rifugio 87 di Milano, grazie all’impegno di scuole, associazioni, volontari, diventi sempre più meta di tutti. Non è mai abbastanza il tempo per riflettere.

Oggi ritorno qui, perchè anche una profonda riflessione può prendere la forma di una preghiera.

Non insegnate ai bambini: Date fiducia all’amore, il resto è niente.

Rosario PipoloBuon compleanno, Zoe. Io e il tuo papà ci alleammo al terzultimo banco in un liceo della periferia di Napoli contro l’irrefrenabile nozionismo che voleva la recita a memoria di Natalino Sapegno. Scalpitavamo per percorrere altre strade e trapiantare nell’anima la letteratura italiana.

“Non insegnate ai bambini, non insegnate la vostra morale. È così stanca e malata, potrebbe far male. Forse una grave imprudenza, è  lasciarli in balia di una falsa coscienza. Non elogiate il pensiero, che è sempre più raro. Non indicate per loro, una via conosciuta. Ma se proprio volete, Insegnate soltanto la magia della vita”*.

Buon compleanno, Zoe. Ci pensi, Io e il tuo papà in piedi su una sedia, a fine lezione, in quello che fu scambiato per l’irriverente sfottò di due eccentrici e arroganti maturandi.
Invece no, fu la nostra protesta. Non ne potevamo più di inghiottire come rospi a quantità industriale versi latini e greci, per riempire i buchi dei programmi ministeriali della scuola miope e strabica dei nostri tempi.

“Non insegnate ai bambini, non divulgate illusioni sociali, non gli riempite il futuro di vecchi ideali. L’unica cosa sicura è tenerli lontano dalla nostra cultura. Non esaltate il talento che è sempre più spento, non li avviate al bel canto, al teatro, alla danza, ma se proprio volete raccontategli il sogno di un’antica speranza”.*

Buon compleanno, Zoe. In una mattina di primavera io e il tuo papà trasformammo l’odioso “filone” del liceale radical-chic in un viaggio a corto raggio: parlammo, condividemmo, sbottonammo  sogni futuri azzannando un panino caldo e mortadella, ci staccammo una volta e per sempre da quel provincialismo che premia i bagordi del vivere per apparire anzichè la sostanza dell’essere.

“Non insegnate ai bambini. ma coltivate voi stessi il cuore e la mente. Stategli sempre vicini, date fiducia all’amore, il resto è niente”.*

Buon compleanno, Zoe. Alzati da quella sedia, proprio come facemmo io e il tuo papà, svestendoci del pregiudizio di chi diceva che non potevamo farcela con le nostre forze. Giro giro tondo, cambia il mondo.

*Giorgio Gaber – Sandro Luporini, Non insegnate ai bambini, dall’album “Io non mi sento italiano”, CGD, Italia 2003

Ritorno a scuola: memorie ritrovate alle elementari di viale Bodio 22 a Milano

Rosario PipoloE’ ritornata a suonare la campanella nel bel mezzo delle polemiche, giocando al tiro alla fune tra buona e cattiva scuola. Parlano tutti di domani, dopo domani ancora, sgualcendo la memoria. Voglio riappropriarmi del ricordo dell’elementari – oggi non si chiamano neanche più così – fermandomi nella scuola al numero 22 di viale Bodio a Milano.

Non sono certo io il Ragazzo della Bovisa, specchio riflesso di Ermanno Olmi. Cosa c’entra un napoletano come me, che nel ’79 imparò a scarabocchiare il proprio nome in prima elementare con fuori il sottofondo della guerriglia della Nuova Camorra Organizzata, con una scuola della Bovisa?

C’entra perchè ogni scuola disegna la memoria a Milano come a Napoli, a Bolzano come a Palermo. Lo ricordate il treno che portò nel capoluogo lombardo i protagonisti di Rocco e i suoi fratelli? Forse in uno di quei vagoni c’era anche il medico Natale Giudice, ex allievo della scuola di viale Bodio, sbarcato a Milano dalla Sicilia negli anni ’30.

La cerco disperatamente la maestra occhialuta Enrica Galimberti, che prese servizio qui il 1 ottobre del 1945. La cerco perchè , attraverso i suoi occhiali, ha visto crescere la generazione di mio padre.
La scuola di viale Bodio ha scrutato l’Italia alienata dal Fascismo, i sogni luccicanti del secondo dopoguerra, le speranze in bianco e nero del Boom, l’irrequietezza sessantottina, la Milano ferita dagli anni di Piombo. Da quei banchi insegnanti e alunni hanno visto crescere il Belpaese.

Ha ragione Ornella Sberna quando scrive a proposito del quartiere Bovisa: “La luce è sempre la stessa, quella che la sua gente ha continuato a vedere negli anni bui, trattenuta nell’anima, tessuta sulla pelle”.
Oggi ritorno a scuola, partendo dai sotterranei di questo edificio scolastico, che è stato anche il Rifugio n.87, mettendo in salvo tanti milanesi dai bombardamenti.

Guardiamo al futuro della scuola senza perdere le tracce del futuro della memoria.

Gaffe oltre il cinema: La scuola “più bella” del mondo non è ad Acerra?

Rosario PipoloQuando nel 1998 fui inviato dal giornale sul set del film Ferdinando e Carolina di Lina Werthmuller, nella mia intervista alla regista ci fu un’intrusione relativa al precedente Io Speriamo che me la cavo: “Signora, ci pensa al patatrac se nel film avesse lasciato Arzano al posto di Corzano?”. La Werthmuller sorrise. Per il film tratto dal libro del maestro Marcello D’Orta fu apparente questione di diritti d’autore, anche se qualche valutazione fu fatta tanto che la suscettibilità degli arzanesi non fu intaccata.

L’uragano mediatico dei social network ha amplificato la voglia spasmodica di apparire, passando con disinvoltura dal Berlusconismo retrò della tv commerciale al Renzismo “a bordo piscina” nel salotto di Barbara D’Urso del digitale terrestre. La community, pur di avere un posto di rilievo sotto i riflettori, è pronta a svendere la dignità superstite.
Una volta si ricorreva alla “madonnina che lacrimava” per sperare che il luogo in cui abitavamo si trasformasse, dall’oggi al domani, in un luogo di pellegrinaggio, mistico o folk poco importava. Oggi si ricorre al Cinema: è accaduto a Santa Maria di Castellabate, location del film Benvenuti al Sud, che ha fatto botto nel turismo estivo grazie al beneficio della macchina da presa.

Non tutte le ciambelle riescono con il buco. Infatti, ad Acerra, la città alla periferia di Napoli protagonista del film di La scuola più bella del mondo, è andata davvero male. La comunità locale, smaniosa di specchiarsi sul grande schermo, si è ritrovata intrappolata nel gioco goliardico del tiro alla fune tra Nord e Sud. A pagarne il prezzo è stata soprattutto la scuola pubblica locale, che nel film non è di certo quella frequentata da me negli anni ’80.

Prima di dare ospitalità alle riprese, chi ha letto la sceneggiatura – o forse è legittimo avere il dubbio che  mai sia stata visionata – avrebbe dovuto mettere in secondo piano quel “divismo” di cui siamo tutti vittima. Questo per non infangare la memoria degli “insegnanti di frontiera” che, nelle aule della Scuola Pubblica alla periferia di Napoli, donarono l’anima pur di essere seconda casa e punto di riferimento per tanti ragazzi provenienti da contesti familiari disagiati, oggi stemperati nello stereotipo del film di Luca Miniero.
Ed io ho avuto la fortuna di crescere nella scuola pubblica con gli insegnanti, che mi tennero alla larga dai bamboccioni e polli d’allevamento dei banchi della piccola scuola privata di paese, inclusa quella delle graziose suorine, dove si ovattava il disagio sociale.

All’alba del cinema, la scivolata su una buccia di banana era il motore per una fragorosa risata. Oggi invece, nella cornice del Renzismo “a bordo piscina”, la scivolata su una buccia di banana è un fallimento riconoscibile e la risata è di cattivo gusto.

Diario di scuola: l’immensità e il prof. di matematica Nello Altavilla in corso Buenos Aires a Milano

Rosario PipoloPasseggiando a tarda sera su corso Buenos Aires a Milano mi ronzava in mente il ritornello de “L’immensità”,  la celebre canzone scritta da Don Backy ed ispirata da una traversata a notte fonda nel corso milanese. Dopo aver canticchiato per alcuni metri “Io son sicuro che in questa grande immensità qualcuno pensa un poco a me e non mi scorderà” mi ritrovo faccia a faccia con un signore settantenne.

Lo riconosco. E’ il professore Nello Altavilla, che nel 1987 mi di disse:  “La matematica non è il tuo mestiere ma mi hanno detto che in italiano vai forte”. Accadde in una scuola media alla periferia di Napoli. Tante generazioni lo hanno avuto come docente di matematica. Nonostante per me fosse un supplente, è rimasto vivo il suo ricordo tra le pagine del mio diario scolastico. Finiamo a mangiare una pizza insieme, ci insoliamo dagli altri commensali.

Il prof. Altavilla trova terreno fertile di fronte a sé – non si accorge del reporter che c’è oltre la corteccia dell’ex allievo tra ricordi scolastici mescolati a quelli dei suoi studi. Li ariamo insieme e germogliano i sogni della generazione degli anni ’50 del secolo scorso, da studente dell’Alessandro Volta di Napoli fino ai giorni in cui andava a caccia di Renato Caccioppoli, il matematico napoletano raccontato magnificamente al cinema da Mario Martone. Il filo della memoria di Altavilla è lucido e il suo umorismo, che evoca quello dell’Alberto Sordi intervistato, colora la nostra conversazione. La memoria di Altavilla raccoglie ciò che ne era della provincia di un tempo, della semplicità perduta, dove anche la goffaggine e la “spavalderia dei vitelloni felliniani” erano in sintonia con quelle del Belpaese in bianco e nero.

Giungo ad una conclusione: la scuola ai tempi in cui ero allievo sedimentava legami speciali tra docenti e alunni. Nonostante sia passata tanta acqua sotto i ponti, troppa forse, il professore veterano fila la lana della confidenzialità con uno dei suoi tanti allievi. Questo per dire che, se ognuno di noi trovasse il coraggio di andare a far visita ad un ex professore in pensione, regaleremmo al nostro interlocutore la gioia di chi non vuole essere trascurato.

Il professore Nello Altavilla non si era accorto di essere finito in un’intervista. E forse un giorno ci ritroveremo a fare una passeggiata sottobraccio, a notte fonda, in corso Buenos Aires a Milano, canticchiando L’immensità. “Sì, io lo so tutta la vita sempre solo non sarò” metterà nero su bianco il legame tra un professore di matematica e un alunno “preso in prestito” in un’altra classe, che in fin dei conti non avevano smesso mai di volersi bene.

Stop alla violenza: “donna come l’acqua di mare, c’è chi invece la prende a botte!”

Tina Turner

Rosario Pipolo“Donna come l’acqua di mare, chi si bagna vuole anche il sole, chi la vuole per una notte, c’è chi invece la prende a botte”, cantava Mia Martini. Oggi 25 novembre, Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, ci ricordiamo che una donna può finire al macello, con o senza il benestare del maschilismo vigliacco. Ci sono modi e modi per ferire e spesso gli schiaffi vanno oltre le ferite fisiche.

In Italia le riflessioni hanno bisogno delle ricorrenze per far rumore. Stamattina, prima di uscire a lavoro, sono sbucate dal mio archivio delle fotografie che mi hanno riportato a due incontri significativi degli anni ’90: Tina Turner e Franca Rame. Tina glissò in conferenza stampa, ma il film autobiografico What’s Love Got to Do with It accennava alla figura del marito “cattivo” Ike. Franca invece avrebbe condiviso il dolore della deplorevole violenza nell’intenso monologo Lo stupro.

A distanza di tempo ho ancora impresso lo sguardo di quei due temperamenti diversi, due donne così distanti che si saranno incrociate nel grembo della sofferenza. Quanto facciamo in Italia per la prevenzione? La scuola investe poche risorse per affrontare questo argomento a più livelli, senza un fattivo contributo per eliminare l’ignoranza in cui sono affogate le generazioni precedenti: le stesse che misero “il burka sociale e culturale” alle donne, che dovevano subìre senza fiatare. Ne ho sentite di storie, appartenenti alla generazione dei miei nonni, che con il passare del tempo hanno preso la piega dell’indifferenza infame.

“Donna come l’acqua di mare, c’è chi invece la prende a botte”. Qualcuno lo sta facendo in quest’istante, mentre sopravviviamo nella ricorrenza. Il 25 novembre non scade a mezzanotte.

Il Concorso degli insegnanti, fumo negli occhi per chi “ripiega”

Rosario PipoloMentre il Ministro Profumo parla di ringiovanimento della Scuola Pubblica italiana attraverso il fantomatico concorso che dovrebbe piazzare più di 11 mila nuovi insegnanti, sui social network circolano a raffica i malumori: troppe incongruenze, contraddizioni, guerriglie tra precari e non che fanno gola ai sindacati, il panico per i test preliminari, che il prossimo 17 e 18 dicembre butteranno giù dalla torre una bella fetta di partecipanti.

Nei giorni bui di tagli da tutte le parti, ieri sera nel salottino televisivo di Fabio Fazio, il ministro Profumo ha rassicurato: “Occorre mettere ordine, riavviare il processo, e fare in modo che sia trasparente, in cui le persone credono. Abbiamo bisogno di un paese che non abbia stop and go ma una certa continuità”. Ci sarebbe una considerazione da fare, con la consapevolezza che l’Italia non può dare a nessuno lezioni in termini di “trasparenza di concorsi pubblici”.
Nel Belpaese del secondo dopoguerra del secolo scorso, c’erano due vie per scappare dalla miseria e trovare un rifugio economico dignitoso: la divisa militare e l’abito del monaco. Quanti della generazione di mio padre e di mio nonno ripiegarono, finendo sotto le armi o su un altare.

Con tre milioni di disoccupati che abitano in Italia, è inutile prenderci per i fondelli. Per quanti “salire in cattedra” sarà un ripiego? E non mi riferisco a chi da sempre sogna di svolgere la mansione difficile di insegnante per passione e vocazione, ma a chi magari ha sempre snobbato questa professione e adesso la sceglie perché si trova con l’acqua alla gola. E così nella mischia del prossimo concorso ci finiranno pure mancati medici, ingegneri, avvocati, contabili, informatici, creativi e compagnia bella, convinti che “insegnare” sia robetta da tutti, senza contare dell’ “altro valore aggiunto”.

Tornando all’intervento di Profumo, direi che “mettere ordine” nella nostra Scuola significa anche questo: un precario che supera i 50 anni non può piagnucolare con l’alibi di non avercela fatta perché è vittima del sistema lesionistico della “raccomandazione”; un candidato che sceglie come sede scolastica una regione diversa da quella in cui abita non può fare la “furbata” di trovare sotterfugi per tornarsene nel giro di qualche anno al paese suo a danno del sistema; gli “scalatori di graduatorie” non possono farla franca tra certificazioni innocue o invalidità soft; la scuola italiana non può definirsi civile finché non riconoscerà a pieno titolo, nel suo sistema contraddittorio, il sostegno e la figura degli educatori.

E se questo concorso è un bel vassoio “di brioche” da dare in pasto al popolo affamato fuori dal palazzo, la nuova Scuola Pubblica finirà presto alla ghigliottina. Proprio come capitò a due sovrani poco lungimiranti, Luigi XVI e Maria Antonietta di Francia per l’appunto: a recintare la fame del loro popolo non era una rivolta passeggera, ma una rivoluzione.

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Profumo e il concorso degli insegnanti

Brindisi e il viso di Melissa: Io (non) ho paura!

Se dovessimo raccontare l’attentato alla scuola Morvillo-Falcone di Brindisi attraverso una serie di tag, potremmo mettere “Melissa” al di sopra degli altri: “Mafia”, “Terrorismo”, “Attentato”, “Brindisi”, “Scuola” sono passati spudoratamente in secondo piano.
Staccandoci dal clima di indignazione generale e dalla voglia di conoscere il mostro esecutore, continuo a chiedermi se a questo tragico evento sia necessario dare un volto: quello innocente di Melissa Bassi, capro espiatorio di un normale sabato scolastico finito in quel maledetto giorno da cani. “I ragazzi non si toccano” e ce lo siamo detti già, a Brindisi e altrove. Tuttavia, questo sacrosanto comandamento non vale soltanto per mafiosi, terroristi o farabutti, ma anche per chiunque faccia informazione.

Oggi portatori sani di notizie, piacevoli o tristi, lo siamo un po’ tutti. Basta lanciarsi sulla pista di pattinaggio dei social. L’emotività è così esplosiva da quelle parti che forse ci può stare una foto di Melissa girovaga da una bacheca all’altra di Facebook. Facciamola passare per una smisurata preghiera in formato digitale, sperando che il Padreterno sia diventato tecnologico e non se la prenda a male se ci siamo ridotti ad invocarlo sotto forma di clic. E ci può stare pure il gossip innocente del fidanzatino di Melissa, che tra brufoli, bacetti e litigate, si porterà dietro la polaroid più dolorosa degli anni scolastici.

Gli studenti, che sabato scorso a Brindisi hanno preso parte alla manifestazione “Io non ho paura”, avrebbero dovuto protestare anche contro quello sciacallaggio mediatico che pianta il dolore e la disperazione nella radice della furfanteria clownesca. Fare zapping e incrociare il padre di Melissa pedinato da una telecamera, con lo stesso stile cinematografico di Gus Van Sant, è l’ennesimo oltraggio ad un dolore pubblico e privato.

Io non ho paura di chi vorrebbe farci credere che in Italia anche la scuola sia diventata una trappola per topi di fogna.Io ho paura di chi si è assuefatto che lo show debba continuare sempre e comunque. Io ho paura di chi ha scambiato una bara bianca per un set da fiction, distruggendo l’incantesimo di una vera preghiera: una catena infinita di parole dell’anima che dovrebbe mettere la piccolezza umana al riparo, tra le braccia del Padreterno.