Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

50 candeline per te: buon compleanno, cara Claudia Endrigo!

Rosario PipoloOltre le canzoni del tuo papà, cara Claudia, c’è una ricordo che mi lega a te: la maestra Iole che, all’alba degli anni ’80, ci insegnò in terza elementare i versi di Ci vuole un fiore.  E quando alcuni anni fa te ne parlai, annunciandoti che le stavamo organizzando una festa a sorpresa per la pensione, non te lo facesti ripetere due volte.
Mi inviasti una lettera dolcissima che le lessi in classe. Alunni e genitori esclamarono: “Hai letto con passione questa lettera di Claudio Endrigo. Si vede che siete amici di vecchia data!”.

Beh, io confermai. Dici che ho esagerato? In fondo, non ci siamo mai conosciuti di persona. Perché “amici di vecchia data”? Perché quando ti hanno scattato questa bella foto con il tuo adorato papà, il mio corteggiava mamma, regalandole le canzoni d’amore di Sergio Endrigo.
E poi vuoi mettere:  tu, graziosa signorinella, andavi a scuola con lo zaino nel viale delll’adolescenza ed io, bambino monello, che puntualmente fregava a mamma la paletta delle pulizie. Diventava l’asta immaginaria di un microfono per cantare Ci vuole un fiore su un balcone alla periferia di Napoli. Il Vesuvio “scostumato” mi mostrava le spalle, il monte Somma.

E poi c’era mamma che, tra una faccenda domestica e l’altra, mi faceva ascoltare le canzoni del tuo papà e mi parlava di lui come uno di famiglia. Una persona perbene, ripeteva. Guardandoti in questa foto di ieri e in quelle di oggi, posso dirti una cosa con franchezza?
Claudia, sei tutta tuo padre. In quella tua autenticità, in quel tuo modo di essere sincera, in quell’entusiasmo appassionato che ti fa affrontare la vita, lontana dallo star-system volgare di questi tempi. Anche allora però volavano i falchi. Sergio Endrigo invece era una meravigliosa colomba, che posava lo sguardo sull’interiorità dell’umanità.

Detesto gli auguri “in saldi”che raccattano consensi sui social network. Per questo biglietto di auguri, condiviso con i miei lettori, ho scelto le pagine del mio blog. Stasera, soffiando le candeline, sentirai in lontananza la voce di quel bimbo stonato che, impugnando l’asta del microfono immaginario, ti dedica: “Ma oggi devo dire che ti voglio bene. Per questo canto e canto te. È stato tanto grande ormai, non sa morire.”

Sono le parole che scrisse il tuo papà. Se torni nel giardino in cui fu scattata questa foto, troverai, incolume dal gelo di gennaio, una rosa che lui piantò per te nel giorno della tua nascita. L’amore di un papà non passa mai di moda perché non appassisce.

Buon compleanno, Claudia.

J’accuse: L’orrore delle calunnie su Facebook

Mentre al cinema passa il film Social Network di Fincher sulla storia dei fondatori di Facebook, l’oasi del cazzeggio sociale più famosa del pianeta esplode con inciuci e cattiverie. Diceva Jong che “il pettegolezzo è l’oppio dell’oppresso”, ma io aggiungerei anche “del depresso”. Quale miglior zona franca, se non quella di Facebook, per trasferire l’istinto ciarlatano che si nasconde in noi?
Ogni volta che torno nel mio Sud, girovagando nei paesotti di provincia, non trovo più quelle situazioni colorite di una volta: il marito che improvvisa una scenata di gelosia alla moglie; il litigio furioso delle due vicine di casa o la disfatta chiassosa della coppia. Ormai è tutto finito su una bacheca virtuale ed il nostro destino è segnato da fatti e misfatti che si postano lì sopra. Quando capiamo che la gonnella di mammà non ci basta più per ferire il nostro avversario, diventiamo scorretti a suon di offese pubbliche. Ormai il megafono della rete è  lo status di Facebook: basta confezionare in meno di 150 caratteri una calunnia e il un “pacco bomba” è ben servito, non tanto per l’avversario, ma per tutti gli amici faisbukkiani, che dovranno decidere presto da che parte stare. E così le bacheche, che fino al giorno prima erano zolle morbide di video e pensieri deliziosi, si trasformano in fretta e furia in un territorio minato, con accesso privilegiato a tutti coloro che voglio partecipare alla guerriglia virtuale. La persona offesa esce allo scoperto, si difende con ironia e non fa sconti a nessuno.
Nel modo dei videogiochi e dei social network l’orrore delle calunnie sfiora il ridicolo, perché è nella vita reale che la meschinità viene davvero a galla. Al di là o al di qua dell’ “accusa infamante”, la priorità assoluta resta la salvaguardia della faccia col quesito “Che cosa penseranno gli altri di me?”. Il tempo attutisce la melma degli schizzi di fango, che con o senza Facebook, finirà per inzozzare “il sepolcro imbiancato”, l’artefice che ha messo in moto la macchina del pettegolezzo. Alla fine, a dura prova sarà messa la vittima offesa, che nei giorni infuocati della rivolta virtuale, non si è accorta che sotto il fango era sbocciato un fiore. E tutte le volte che uscirà da casa a testa alta, dimenticando che “lo sguardo basso è la virtù dei forti”, non noterà quel fiore cresciuto alle intemperie e lo calpesterà con furore. Sarà la rabbia di chi non ha intuito che per “fare un fiore ci vuole un fiore” come cantava Sergio Endrigo, ma bisogna anche innaffiarlo col silenzio per proteggerlo. “Non calpestare i fiori nel deserto” resta un sacramento sacrosanto. E questo vale pure per chi come la “Sally” di Vasco Rossi si porta ancora tanti graffi dentro.

Iole Di Lauro, la mia maestra e quei 21 scalini

E pensare che a separarmi da Iole Di Lauro, in quella mattina del settembre del 1979, c’erano soltanto 21 scalini, quelli della Scuola Elementare di via Dei Mille ad Acerra. Li salii uno ad uno con mia mamma e in spalla avevo la cartella. Era il primo giorno di scuola. Seconda porta a sinistra, in un’aula soleggiata del II Circolo Didattico e lei era lì. Sussurrai a mia madre: “Mi piace, mi fa impressione”, questa era la mia espressione infantile per indicare che una persona mi aveva folgorato. In un angolo della classe, c’era un bimbo che singhiozzava perché voleva tornarsene a casa. Mi sedetti accanto a lui e, dandogli una pacca sulla spalla, gli dissi: “Perché fai così? Guarda che bella maestra che c’è capitata”. Lui mi sorrise e da allora io e Giuseppe Scolaro diventammo amici per la pelle. La classe si riempì e iniziò il nostro viaggio. Sì, un bel viaggio durato cinque anni che trasformò quell’aula in una piccola grande famiglia, decifrando il ciclo della nostre vite.
Iole Di Lauro era una giovane maestra venuta da un piccolo paese dell’avellinese. Era moderata nell’animo, era modesta, romantica e sentimentale nel suo stile di vita, ma perspicace nell’essere precorritrice, anticipando i tempi e costruendo una congiuntura tra la scuola del passato e quella del futuro. Ha puntato, nelle vesti di educatrice, su una formazione che avesse alla base la creatività, lo slancio verso l’innovazione, la multimedialità, nell’uso dei diversi linguaggi. Iole Di Lauro fu una convinta ambientalista quando ancora esserlo non era di moda; fu una profonda sostenitrice della ricchezza della diversità e dell’integrazione razziale prima ancora che l’Italia si svegliasse meticcia; rinunciò al solito canzoniere per bimbi,facendoci cantare i grandi cantautori come Sergio Endrigo. Fu coraggiosa quando strinse un patto d’acciaio con i nostri genitori e trasformò la nostra vita da scolari nel prolungamento di quello che eravamo a casa. Fu un modo intelligente per difenderci dal grigio che c’era fuori, per mettere il silenziatore agli spari dei mostri della Gomorra di allora, che spargevano sangue nella nostra città, mentre l’Italia si illudeva di cancellare,attraverso l’euforia degli anni ’80, lo shock per il buio del decennio precedente, sulla zattera che da Piazza Fontana si era spinta fino al cadavere di Aldo Moro.
Iole Di Lauro segnò il mio destino negli anni delle scuole elementari, nel giorno in cui le regalai “Il giornalino di Pinocchio”, disegnato in un pomeriggio in cui sbuffavo davanti alla noiosa matematica o forse l’8 marzo del 1982, quando mi ritrovai con un fiocco blu sul braccio destro come premio per aver scritto un tema, che oggi penso sia stato il mio primo articolo: un bambino spiegava al suo cagnolino il significato del giorno della Mimosa.
Poi arrivarono gli esami e, nel luglio del 1983, fu la volta della nostra ultima pagella. In tutti quegli anni mi sentii un burattino come Pinocchio, ma fu lei, la mia maestra, a trasformarmi in un bambino vero. Sulla mia guancia c’è ancora il segno della sua ultima carezza  e quella raccomandazione con il tono severo e dolce di una mamma: “Non sarete mai soli, ci sarà sempre qualcuno a preoccuparsi di voi”.  Uscito da scuola, fui preso da un groppo in gola, mi voltai indietro, non c’era più lei e neanche i miei compagni di classe di cui non potevo fare a meno. Come avrei fatto senza Paola che, appena spuntava la primavera, diventava smaniosa perché avrebbe voluto mandare all’aria il grembiule; come avrei fatto senza Giuseppe e Mimmo con cui ne avevo combinate di cotte e di crude; come avrei fatto senza Marco che arrivava  puntualmente di corsa con il fiocco messo al contrario; come avrei fatto senza Laura che sgranocchiava patatine fin dalle nove del mattino; come avrei fatto senza Carmela che percorreva con me un pezzo di strada fino a casa; come avrei fatto senza Margherita e quella sua gentilezza che ti acquietava; come avrei fatto senza gli occhi azzurri di Angela o senza Stefania che si improvvisava con la matita una stilista di moda; come avrei fatto senza Lilly che mi passava caramelle e gomme da masticare; come avrei fatto senza Orsola con cui condividevo la passione sfrenata per il teatro; come avrei fatto senza Luisa (Tassari) che sbraitava perché non voleva fare i riassunti;  come avrei fatto senza Loredana, la bambina che mi aveva rapito il cuore fin dalla prima elementare: non feci in tempo a dirle che finalmente “mi ero tolto quel maledetto bendaggio che mi faceva sentire un pirata”, che lei poteva aspettarmi perché, quando saremmo stati più grandi, io sarei passato con un cavallo bianco a prenderla come nelle fiabe e l’avrei sposata. Io non ho mai dimenticato tutto questo, nonostante il passare degli anni, nonostante i continui vagabondaggi da randagio in giro, nonostante tutto.
E oggi risalgo quei 21 scalini per tornare da te, Maestra, per restituirti quel fiocco blu e quel grembiule che non erano per me una fastidiosa divisa, ma rappresentavano il significato di uguaglianza che solo la Scuola Pubblica può e deve garantire. E tu, Maestra, sei il fiore all’occhiello di questa Scuola Pubblica, a volte distratta nell’attribuire riconoscimenti, a volte maltrattata da chi non si accorge che essa alleva anche gli educatori per vocazione.  Le maestre non vanno mai in pensione, ma restano sempre protagoniste in un armonioso intermezzo tra il banco e la cattedra, come il buon profumo di una pagina stagionata del libro Cuore. Grazie  perché nel primo verso di quella canzone c’era la profezia: “Per fare un albero, ci vuole un seme…”. E noi tuoi ex alunni se oggi siamo diventati degli alberi robusti è perché alla nostra radice c’è quel seme, tu maestra. Goditi la meritata pensione, ma restaci accanto.