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In Italia la fine di Tony Soprano, nel volto di James Gandolfini che schiaffeggiò le mafie con genialità

Rosario PipoloQuella vecchia canaglia di Tony Soprano, protagonista della popolare serie tv, per più di un decennio ha imposto il ritorno del malavitoso sul podio del piccolo schermo. Quando si parla di un malavitoso, l’Italia non ne esce mai pulita perché l’associazione è inevitabile. Sono passati quarant’anni dall’uscita del film Il Padrino e prendiamo ancora a sassate Francis Ford Coppola: il Vito Corleone, uscito dalle pagine dell’omonimo bestseller di Mario Puzo, ha contribuito a gonfiare l’immaginario di un’Italia sbruffona e criminale tra “pizza e mandolino”. La parlata e le movenze di Vito Corleone sono entrate in una sorta di codice mitologico, così come quelle dello Scarface di De Palma, scimmiottato con volgarità da più generazioni. Persino quella dei social network omaggia in giro “il Padrino” con aforismi, iconcine, foto profilo e roba simile.

Tornando a Tony, star di I Soprano, mi vien da dire che per lui nutro una gran simpatia. Gli sceneggiatori hanno abbattuto la corazza del criminale tutto d’un pezzo, tirando fuori i conflitti umani che lo consumavano. Non guardavamo i Soprano per spiare il mafioso in azione, ma per indagare nell’animo dell’ “uomo criminale” tra paure, crisi depressive, ansie quotidiane da padre di famiglia e persino dolcezze. Le parti imperdibili del telefilm erano proprio le confessioni di Tony alla fedele psicologa, che ci spiazzavano non perchè fossimo in preda allo humor yiddish e surreale alla Woody Allen, ma perché ci calavano nella quotidianità che avrebbe potuto bussare alla porta di ognuno di noi.

Perché parlare di Tony Soprano oggi? Per fare la linguaccia ad un’Italia zeppa di criminali, travestiti da “galantuomini”, che si aggirano in piena libertà? No. Per fare la linguaccia all’Italia che per un gioco beffardo sarà ricordata, oltre che per essere stata la madre terra di “Il Padrino”,anche per essere quella in cui si è spento Tony Soprano.
La morte improvvisa per infarto di James Gandolfini, impareggiabile volto di Tony Soprano, non segna solo l’uscita di scena di un bravissimo attore. Ci sono degli interpreti che al di là dello schermo e della macchina da presa hanno saputo schiaffeggiare le mafie di tutto il mondo. James Gandolfini lo ha fatto con intelligenza e genialità.

Il mio amico Arnold non c’è più. Addio a Gary Coleman

Che una situation comedy possa essere la testimonianza di un cambio di guardia nell’America multirazziale può essere. Tutto può essere, anche se non mi sembra vero che Gary Coleman non ci sia più. E’ morto a 42 anni l’enfant prodige che aveva dato vita a quella piccola peste di Arnold, la serie televisiva trasmessa negli USA tra il ’78 e l’86. Quel bimbo di colore ha bucato il piccolo schermo, divertendo e intrattenendo in tanti pomeriggi anche quelli della mia generazione: nei primi anni ’80 nessuno di noi poteva permettersi il lusso di avere un compagno di giochi di colore, perché l’Italia non si era svegliata ancora meticcia.
Arnold era diventato il nostro amichetto dalla pelle scura, facendoci illudere che il razzismo non fosse di casa nostra, che i nostri genitori non avrebbero detto niente se avessimo marinato la scuola per andar fuori a giocare con lui. Quando in gioco c’è il tubo catodico tutto può essere, ma forse è più significativo il titolo di come fu presentata la serie in Italia: Harlem contro Manhattan, come a dire che nell’American dream dei palloni gonfiati, nel rimbalzo dalla presidenza del democratico Carter a quella del repubblicano Reagan, si cambiavano le carte in tavola: i neri iniziavano la loro scalata sociale e culturale, e sarebbero stati pronti un giorno a varcare la soglia della Casa Bianca nel riscatto di Barack Obama. La battuta “Che cavolo stai dicendo Willis?” la diceva lunga. Così Arnold e il fratello maggiore Willis non si aggiravamo tra i vicoli puzzolenti del ghetto di Harlem, ma correvano nei corridoi di un attico di Manhattan e la vita da lassù sembrava migliore. La loro o la nostra illusione di telespettatori? Era davvero pace fatta tra neri e bianchi? Al solo pensiero avrebbe impallidito persino il cinema di Spike Lee.
Nella fiction ci consola il lieto fine, ma nella vita reale il gioco a volte si fa crudo ed amaro. Infatti, noi siamo cresciuti in statura, mentre il piccolo Arnold, alias Gary Coleman, è rimasto imprigionato nel suo corpo di eterno bambino per una maledetta malattia, che gli ha reso la vita infelice. Penso che gli angeli di colore arrivino più in alto di tutti. E forse Coleman è lì a giocherellare con il Padreterno, che si diverte a dare tanti pizziccoti a quelle sue tenere guanciotte.