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Che senso ha un sequel di “Dallas”? Forse meglio un prequel…

Torna Dallas, di martedì e su Canale 5. Per la generazione 2.0 rappresenta forse solo la città dove assassinarono John Kennedy; per le nostre mamme invece è il titolo di uno dei serial televisivi più famosi al mondo. Spopolò negli anni ’80 e si contese con l’altra saga, Dinasty, lo scettro del prime time.

Torna il malefico J.R., interpretato dall’impeccabile Larry Hagman, ma ormai i tempi sono cambiati per loro come per noi. Torna lo stesso giorno, proprio di martedì come allora, ma in una tv che affoga nell’ingordigia e nello spaesamento del digitale terrestre. L’America degli Ewing, sciabordante dal tubo catodico, rifletteva l’irrefrenabile rampantismo del repubblicano hollywoodiano Ronald Reagan.
Quell’America è roba da libri di storia ormai: siamo in piena recessione, la classe media è stata spazzata via e il Presidente dalla pelle nera, icona del “New American Dream, sta rincorrendo con il fiatone il rivale repubblicano, pronto a scippargli il trono alla Casa Bianca tra meno di un mese.

Il Southfork Ranch di Dallas, location del serial, che ho visitato nel 2005, si è trasformato in un mini resort per cerimonie e meeting, nonché meta di pellegrinaggio per i più fanatici. I curiosoni, attratti dalla mega piscina in cui Bob e Pamela si tuffavano, si sono dovuti ricredere. Tanto rumore per nulla. Si trattava di piccola pozzanghera nel cemento, simile alla piscina gonfiabile della mia vicina di casa.

Nelle nuove puntate la famiglia Ewing è quasi decimata e dei nuovi rampolli forse non ce ne fregherà più di tanto. Forse più di un sequel, sarebbe stato proficuo scrivere e mandare in onda un “prequel”, per capire come i petrolieri più famosi del piccolo schermo yankee fossero arrivati al potere e con quali appoggi. Avremmo riletto l’America degli anni ’70, flagellata dai traumi post-Vietnam, dando una bella lezione anche all’oratore Clint Eastwood. Il monologo della sedia vuota, inscenato alla Convention Repubblicana, avrebbe dovuto dedicarlo a Richard Nixon. E un prequel di “Dallas” gli avrebbe dato indicazioni precise.

Quelle 36 ore assieme a Olga Mautone Blakeley, specchio del mio privato

Nel 2005 la mia avventurosa traversata negli USA mi portò da lei fino a Houston. Quelle 36 ore trascorse assieme a Olga Mautone Blakeley, scomparsa lo scorso 7 giugno all’età di 91 anni, mi convinsero che l’amore può spegnere la solitudine di un’anziana signora. Di fronte a me non c’era più la napoletana che nel ’46 aveva lasciato l’Italia per amore di Karl, un ufficiale dell’aviazione americana; non c’era più la stilista che tra gli anni ’50 e ’60 aveva vestito le famiglie altolocate del Texas, conquistando persino i gusti della First Lady “Bird” Johnson; non c’era più l’italo-americana che aveva vissuto la favola del sogno americano tra vita mondana e festicciole dell’upper-class, nello stesso Texas dagli occhi di ghiaccio che aveva crocifisso in sordina il predicatore John Kennedy.
Ascoltavo una signora ottantenne che vagava nella memoria dell’infanzia, afflitta dall’Alzheimer e con lucidità sorprendente. Era come se improvvisamente a quel ritratto se ne fosse sovrapposto un altro, sotto l’ombrello della senilità: sul viale del tramonto Olga aveva ritrovato Napoli e la sua famiglia attraverso il riscatto dei ricordi, l’unico valore della sua esistenza. Lei raccontava ed io ero lì bivaccato sul suo divano a prendere appunti, come un vecchio cronista ficcanaso che voleva a tutti i costi salvare una pagina volata via dal ‘900: Olga assieme al papà Francesco per via Toledo; Olga che accarezzava la sorella Emilia; Olga che pianse sulle spalle del fratello Pasqualino la morte prematura di donna Margherita, la mamma fragile che disse basta alla vita.
Man mano che stavamo assieme, quel “film muto” acquisiva le tracce delle sonorità e i suoni di quelle voci mi chiarirono tutto. Olga Mautone Blakely era lo specchio del mio privato, era il personaggio che il mio caro amico Pasquale Mautone – in arte mio nonno – aveva ridisegnato sul foglio della mia infanzia tra pony, ranch e cowboy. Laggiù ci saremmo dovuti arrivare assieme e in un certo senso è stato così. Olga mi guardò diritto negli occhi e mi disse: “Sei tutto Pasqualino nello sguardo, nei movimenti, nel sorriso, in quei baffetti sottili. Sulla porta ti avevo scambiato per lui”.
Quando andai via sapevo che non l’avrei rivista più, ma mi resi conto che era iniziata per me una nuova stagione: quella che ha fatto della mia vita un viaggio continuo, dove i legami non si misurano all’ufficio anagrafe, ma nel tempo di condivisione dell’esistenza. Io e Olga Mautone Blakely avevamo condiviso ciò che siamo stati davvero.
Tempo dopo mi è arrivata una lettera da Houston in cui c’era scritto che Olga tutti i pomeriggi all’ora del té guardava la nostra fotografia e sorrideva. Forse si sentiva meno sola, proprio come oggi. Da qualche parte dell’universo avrà rincontrato il fratello maggiore e gli avrà detto: “Pasqualino, portami subito da mamma e papà. Finalmente siamo tornati a stare tutti assieme. Abbiamo troppe cose da raccontarci”.