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Archives Settembre 2016

Cartolina dalla Corea del Sud

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Rosario PipoloNel profondo Sud del Giappone la tentazione è forte e legittima. Tre ore meravigliose di navigazione per arrivare a Busan, la seconda città più grande della Corea del Sud. Meno di due giorni non sono niente per scoprire un posto nuovo, ma bastano per capire i coreani di che pasta sono fatti: accoglienti e chiassosi come noi gente del Sud Italia. Persino quando non parlottano l’inglese, sanno come farsi capire per aiutarti.

Ho smantellato il pregiudizio di tanti che reputano Busan una tappa inutile, città troppo grande secondo alcuni. Busan è fatta di piccoli mondi, raccolti nei quartieri che mi hanno fatto ritrovare Napoli. Dopo una manciata d’ore dall’arrivo mi sento già a casa. Uno studente mi aiuta a trovare l’alloggio e di sera vago nella zona del mercato del pesce come se la conoscessi da sempre.
Niente guida, niente cartine. Tra le bancarelle dello street food ritrovo socialità e voglia di stare insieme, quelle che noi abbiamo svenduto ai social. Quanto vale una strizzata di messaggi su Whatsapp rispetto ad una lunga chiacchierata per strada?

Vale meno della voglia di stare con gli altri e condividere pezzetti di vita. Jeewon è una studentessa, conosce l’inglese, mi dà le dovute indicazioni per non perdermi in metropolitana. Percorriamo un tratto di strada insieme, ci raccontiamo e apprezza questa mia aria da vagabondo che vuole respirare l’Oriente senza i filtri del turista.
Poi la lunga scarpinata in montagna, incantato dalla spiritualità del Tempio di Beomosa. Poco lontano da lì fruscio di ruscelli  e famiglie coreane assiepate per una gita fuori porta estiva.

Il mondo è piccolo. Cosa ci fa Procida in Corea del Sud? Il Gamcheon è un villaggio nella parte alta, nucleo della vecchia Busan tra chioschetti, case dipinte, bucato steso, vicoli stretti. Mi sembra di essere tornato nell’isola campana in cui Elsa Morante narrò le vicende letterarie di Arturo. Su e giù per le stradine e poi mi al tramonto mi spingo nella Busan balneare.

L’atmosfera mi riporta alle estati cilentane della mia infanzia,  la musica, i bagnanti, anche se poi il paesaggio evoca Alicante in Spagna, tana di una vacanza dei miei vent’anni. Mangiucchio pesce fritto nel “coppetiello” – sarò mica passato per Napoli? – poi mi siedo sui gradini che fronteggiano la spiaggia. Il sole è sparito, è sbucata la luna, il mare è orientale, davanti a me un paio di musicisti da strada sulla sabbia che dedicano canzoni a tutti noi, come per dire restate qui e raccontateci di voi.

Prima di risalire sulla nave che mi riporterà in Giappone, faccio amicizia con la piccola Jiyu. La mamma ci fa da  interprete. Le improvviso un buffo disegno e lei apprezza. La bimba coreana mi chiede: “Tu in Italia ce l’hai una casa?”. Io senza esitare replico: “No, non ho una casa. Ogni incontro che faccio nei miei viaggi mette un nuovo mattoncino alla mia casa in costruzione. Grazie Jiyu, il tuo mattoncino la renderà amcora più bella e confortevole”.

Jiyu e la mamma scendono a Fukuoka, in Giappone, trascorerranno le vacanze lì. La bimba mi saluta e mi avverte che vuole essere avvisata quando la casa sarà pronta. La Corea del Sud è dall’altra parte del mare, non la vedo più, scompare dentro il sorriso di Jiyu e gli occhiali di Jeewon.
A Busan ho lasciato un pezzo della mia essenza di uomo del Sud, distante dal meridionalismo che ti vuole per sempre nello stesso posto. A Busan ho lasciato la mia voglia di sentirmi uomo del Sud, in qualsiasi angolo del mondo.

Cartolina da Hiroshima: la bomba del 6 fa ancora un gran male

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Rosario PipoloArrivo all’alba, Hiroshima è semideserta. C’è una leggera frescura, atipica vista l’infernale afa giapponese. Mi torna in mente un ritaglio seppiato della memoria su un banco di scuola alla periferia di Napoli.
Avrò avuto otto anni quando la maestra mi mostrò la foto con il fungo gigante dell’atomica. Alcuni mesi dopo, nel giorno dell’Epifania, i miei mi regalarono il primo mappamondo. Puntai il dito sul Giappone, nella direzione della città nipponica rasa al suolo dall’atomica il 6 agosto 1945.

Ho mantenuto la promessa fatta a me stesso, perchè non era un capriccio infantile. Non ho mai cercato foto della nuova Hiroshima, neanche quando Internet me lo permetteva. Nell’angolo del mio immaginario vi avevo lasciato quel paio di scatti di repertorio in bianco e nero che hanno fatto il giro del mondo.

Il silenzio del Parco della Memoria a prima mattina – le lancette del mio orologio segnano le 7 in punto – ti lascia un tremolio interiore. I miei viaggi tra le tombe dell’orrore di Auschwitz e Sarajevo avevano lacerato il cuore dei miei 30 anni, ma Hiroshima è penetrata nell’anima, a piccole dosi e ha trafitto i miei 40.
Nel Ground Zero nipponico si aggirano angeli dalle ali spezzate: non li vedi, ma li senti ovunque, come se fossero confinati qui. Le facce le intravedi all’interno del museo in contrasto con quelle delle rappresentanze americane in visita per sbiancarsi la coscienza. Uno dei falli della presidenza di Barack Obama è stato non aver formalizzato le scuse per questo genocidio.

La stanchezza del viaggio mi assale. Mi stendo sull’erba e provo a socchiudere gli occhi. Sotto le guance sento l’erba bagnata. Altro che rimasugli dell’umidità notturna, sono le mie lacrime che irrigano il Parco di Hiroshima. Nel frattempo sta calando il sole.
Prima di ripartire dal Giappone, mi sono accorto di aver peso il giubotto, compagno d’avventure in migliaia di chilometri di viaggi. Mi hanno detto che lo hanno visto volare sul Parco della Memoria di Hiroshima perchè ora quel giubotto riveste gli spicchi d’anima che ho lasciato lì.

La bomba del 6 fa ancora troppo male.

Cartolina da Kyoto: lettera sussurrata a Mamechika, una vera Geisha

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rosario_pipolo_blogSono le 8 di sera e il sole è calato da un pezzo. Sono in questa viuzza di Kyoto, città custode della memoria del vecchio Giappone. Ti aspettavo, sapevo che saresti passata prima o poi. I turisti ficcanaso sono dall’altra parte e ti cercano solo per rubare uno scatto e fare gli spavaldi al ritorno, come se poi tu fossi un souvenir.

Io, no. Sono qui per condividere con te un pezzo di questo mio viaggio frastagliato, tra memorie orientali e futuro, tra spiritualità e ricerca di me stesso, tra imprevisti e vagabondaggi che elogiano il tempo dell’interiorità.
Rallenta il passo, cara Mamechika, ti resto accanto così posso sussurrartelo in inglese: i pregiudizi di noi occidentali sono maschere di cemento sul muro delle nostre coscienze. La maschera di trucco bianco, che incarta il viso da geisha, è invece il velo che protegge la tua essenza, ricomponendo la tua radice che ti  riconduce alle origini della vita, il teatro e danza nella mescita che strappa l’eternità all’esistenza terrena.

Nessuno può conoscerti meglio di te stessa, neanche gli occidentali illusi dalle parole di carta di Memorie di una geisha, o gli americani che, per sbiancarsi la coscienza dall’orrore dell’atomica, ti misero ai piedi i geta di una prostituta.
Sei troppo giovane per ricordare, i tuoi vent’anni raccolgono le foglie sparse dal vento e allontanano rancori stantii, perché le bombe della storia fanno ancora un gran male, quanto dolore taciuto, quante lacrime sommerse.

Ho raccolto per te questo fiore in cima al tempio di Otowasan Kiyomizudera. Che fai rincasi senza neanche un cenno di saluto? (Mamechika sorride) Te lo lascio qui sull’uscio di casa. Stai tranquilla, non dirò a nessuno dove abiti.
In questi pochi minuti di passeggiata insieme al chiaro di luna abbiamo sfilacciato qualcosa sepolto dentro di noi, in bilico tra la mia sfrontatezza logorroica e la tua compostezza taciturna.

Nel caso non fossi Mamechika, prima che spunti l’alba a Kyoto, il profumo d’Oriente di questi petali scriverà il nome con cui ti battezzoJunko 笋子, che in giapponese vuol dire piccolo germoglio.