Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Archives Aprile 2018

Sudafrica on the road: Cartolina da Città del Capo

Non sono arrivato in Sudafrica dopo aver visto foto paesaggistiche su un catalogo turistico o per assecondare mode o tendenze di viaggio popolate da decine e decine di selfie che ammiccano ad organizzare la prossima vacanza qui. La mia prima volta in Africa sarebbe stata qui, in Sudafrica: lo promisi a me stesso sui banchi delle scuole medie quando mi vomitarono addosso il dramma dell’apartheid.

Mi sembra di essere tornato a New Orleans prima dello sfacelo dell’uragano Kathrina. Così mi appare a prima mattina Città del Capo, dopo 10 mila chilometri in volo sul continente africano.  Scivolo su Long Street fino al Waterfront, dove sono ormeggiate le barche.

Cape Town sembra una scorza di terra afro-americana e in quell’imbuto protettivo capeggiato dalla Table Mountain, una delle sette bellezze naturalistiche del mondo, è rinchiuso il piccolo mondo antico del colonialismo europeo. Di inglesi e olandesi ce ne sono a quantità industriale, la memoria evapora e le nuove generazioni venute a godersi la perla sudafricana forse neanche sanno degli orrori dei loro antenati.

A Greenmarket square converso con gli ambulanti dell’atmosfera del mercato, che mi riporta a quello della Duchesca della mia Napoli. Lungo il viale del parco che costeggia il Parlamento mi soffermo ad ascoltare i musicisti da strada e quelle incursioni jazzate che vorrebbero fare di Città del Capo la New Orleans musicale africana.

Il meteo è decisamente dalla mia parte, perché se arrivano i nuvoloni bastardi la Table Mountain te la sei giocata. Salgo in cima in cabinovia, vagabondo da un punto all’altro di questa zolla di parco nazionale. Il panorama è davvero mozzafiato. Da lì intravedo già le spiagge di Camps Bay che fanno di Cape Town l’amaca sull’oceano su cui chiunque vorrebbe crogiolarsi. Butto via le scarpe, al mio fianco c’è una famiglia di colore sudafricana che si gode le onde dell’oceano. Metto i piedi nell’acqua, è ghiacciata, faccio amicizia con i ragazzi: “Veniamo in spiaggia quando possiamo. Ci piacerebbe restare a dormire in una di queste belle case. Roba da ricchi, non certo per noi”.

Il luogo simbolo della Cape Town nera non è di certo Camps Bay, piuttosto il District Six da dove nel ’66 cominciò la deportazione forzata di tutta la gente di colore. Vi giro in lungo e largo per racimolare testimonianze come quella di queste ragazze del quartiere nel selfie con me, i cui genitori appartengono alla generazione che ha vissuto quei giorni drammatici.
La nascita di bar e locali deturpa la memoria  in contrasto con ciò che resta dell’archivio dell’Apartheid: il piccolo District Six Museum nella vecchia chiesa metodista del quartiere.

Il mio primo tramonto in Sudafrica è tra le vecchie case del District Six e il mio viaggio dedicato alla memoria di Nelson e Winnie Mandela parte proprio da questo pezzo di spugna di Città del Capo, che ha assorbito litri e litri di lacrime.

 

Per gli uomini, la libertà nella propria terra è l’apice delle proprie aspirazioni.

(Nelson Mandela)

Storia di un backstage “a prova di futuro”

Chi viene da lunghi anni di esperienze lavorative con le troupe video sa bene che, nonostante la grande illusione dell’avvento digitale, per fabbricare emozioni oltre uno schermo non basta una videocamera e qualche gioco di prestigio in fase di montaggio.

Negli anni di lavoro al Festival del Cinema di Venezia, quando il girato giaceva su metri e metri di nastro BETA, imparai sulla mia pelle che il backstage era il recinto in cui già il fertilizzante umano svelava l’orma del primo passo per raggiungere l’obiettivo comune. Erano le singole personalità che facevano il team, il fidarsi l’uno della professionalità dell’altro nel rispetto dei ruoli della troupe, l’alchimia di essere noi stessi per la buona riuscita di ciò che avremmo realizzato.

Se eri capace di far venire fuori te stesso durante il backstage, anche condividendo con gli altri i piccoli ritagli della tua quotidianità o del tuo privato, potevi tirare il meglio dal tuo interlocutore durante l’intervista. Chiunque sia il tuo commitente – una casa di produzione, un editore, un brand – non c’è migliore ricompensa della libertà creativa. E’ un atto di conquista da parte di chi la riceve e, al tempo stesso, un atto di fiducia da parte di chi la concede.

Le tecnologie si evolvono, ma la condivisione umana del backstage e dello shooting restano secondo me ancora un bel banco di prova per chi vuole farlo diventare un mestiere.

 

Inventare è mischiare cervello e materiali. Più cervello usi, meno materiali ti servono.
(C. F. Kettering)

Ricomincio da 7: la testardaggine di Luigi si chiama Capuano’s

Quando sono entrato da Capuano’s a Milano, ho ritrovato la voce di nonno Pasquale e la sua perla di saggezza negli anni della mia infanzia: “Impara ad osservare i movimenti del pizzaiolo che impasta gli ingredienti alla base della vita”.

Luigi Capuano, antidivo per eccellenza, non ha importato un brand a Milano come stanno facendo le dinastie partenopee. Ha messo insieme i mattoncini di un progetto che si evolve nella trasfigurazione della napoletanità senza ostentare quella fisicità geografica che ci costringe a declamare “Lontano da Napoli, lontano dalla pizza”.

Da Capuano’s ho ritrovato le pizzerie di Little Italy,  scovate nel primo viaggio a New York del ’92, che decantavano lo stato d’animo dell’emigrante contromano, che difende a denti stretti  i sogni della nuova casa di cui si sente protagonista e non una comparsa.
I lampioncini di Capuano’s assomigliano a quelli di Coroglio che danzavano controvento sul golfo di Napoli; le mattonelle evocano le scacchiere murate di ogni antica pizzeria che si rispettava, le seggiole sono quelle che arredavano le case delle nostre nonne partenopee. Niente designer allo sbaraglio, ma solo acrobazie della memoria e e ricercatezza popolare di Alessia Furbatto, perché una sana gestione familiare è fidarsi l’uno dell’altro.

La testardaggine di Luigi, Capuano’s appunto, è dipinta su quelle mattonelle nel numero 7, la cifra fortunata che ricongiunge vita pubblica e privata, legami affettivi lasciati a Napoli e il ricominciare a Milano, senza farsi stordire da mode e tendenze.
Negli ingredienti che si mescolano sulla pizza – siano una manciata di olive di Gaeta, dei pomodorini gialli o della stracciatella – non c’è niente del gourmet che vorrebbe fare del pizzaiolo il cugino dello chef stellato. Capuano non ha bisogno di fare l’ennesima interpretazione della pizza così come sa bene di aver importato a Milano la pizza fritta prima di tanti altri.

Un bravo pizzaiolo non è scostumato se ti volta le spalle, perché tra un impasto e un altro deve avere gli occhi rivolti ai passanti sulla strada. La migliore cornice per un pizzaiolo antitidivo come Luigi Capuano non è uno schermo televisivo, ma una finestra attraverso cui guardarlo a lavoro, proprio come la foto in bianco e nero rubata dal suo album fotografico. Luigi Capuano è il pizzaiolo di un tempo che nonno Pasquale mi insegnò ad adocchiare.