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Archives Settembre 2018

Cartolina dalla favela Rocinha: il cerchio della vita

Non ero convinto se mettere piede nella favela Rocinha, una delle più temute di Rio De Janeiro. Il dubbio principale, oltre alla questione sicurezza, era finire imbrigliato nell’odioso voyeurismo circense.
Mi era tornata in mente la stizza di quando nel ’92, prima che il polso di ferro di Giuliani rivoltasse come un calzino New York, per andare ad Harlem dovevi per forza fiondarti su un van e tirar fuori quasi 100$. I tour locali ci sguazzavano e facevamo quattrini, trasformando la zolla nera di Manhattan in uno show. Mi rifiutai, ci sarei tornato ventitré anni dopo in autonomia.

Tornando a Rio De Jaineiro, non sono leggende metropolitane le app che ti indicano in tempo reale le sparatorie di una delle metropoli brasiliane più pericolose. Se ne contano decine e decine, una dietro l’altra come i counter dei bimbi morti nel mondo per malnutrizione e la favela Rocinha resta uno dei territori da Mezzogiorno di Fuoco.
Andarci guidato da Be a Local non era soddisfare le curiosità del turista che voleva finire su un set cinematografico come fanno i tanti in visita nella mia Napoli, la cui massima aspirazione è vedere con i propri occhi le ambientazioni della serie televisiva di Gomorra.

Il lungo pomeriggio nella favela Rocinha è stato lo sforzo di guardare oltre la colata di fogna che scorre da su a giù come il potere gerarchizzato dei narcotrafficanti e le loro faide criminali. E’ stata una discesa, anche geografica, di quattro ore di “trekking sociale” dall’altro verso il basso a passo svelto in quelle strettoie, accompagnato dal rumore di una pioggia sottile e tagliente, alla ricerca disperata di quotidianità, di vita normale, di uomini, donne e bambini che sfidano il tutto per tutto per difendere a denti stretti la dignità di essere umani.

Qui dove il sole sembra non arrivare mai, le case si restringono in cunicoli in un contorsionismo di cemento che si rinchiude e si isola dal resto del Brasile, ho vissuto una delle esperienze più toccanti del mio arrembaggio da viaggiatore. L’incontro con artisti della favela, la danza con i bambini, i dolci fatti in casa da Maria hanno alleviato il dolore per i morti prematuri di tubercolosi, per le nefandezze di chi si mette di traverso allo Stato, per le armi da fuoco che ci passavano davanti agli occhi.

Prendendo per mano i bambini che ci venivano incontro e ci abbracciavano, ho toccato il cerchio della vita, è scolata ogni paura, i grattacieli di lusso tra Ipanema e Copacabana si sono improvvisamente sbiaditi e gli abitacoli della favela Rocinha hanno invaso l’impermeabilità del pregiudizio: il Brasile era tutto qui, come i calci magici ad un pallone dei Pelè, figli di un dio minore nelle favelas e molla del riscatto sociale sudamericano. La visita agli asili e le scuole per l’infanzia, supportati da organizzazioni umanitaria, mi ha fatto guardare in faccia gli educatori e i volontari che tutti i santi giorni danno qui il loro contributo.

 

Uscito dalla Rocinha, avevo gli occhiali appannati. Pensavo fosse il residuo della pioggia, invece no dovevo imparare a riconoscere le mie lacrime, in un misto di dolore e rabbia, sciolte in un pensiero che mi ero portato al ritorno dal mio viaggio in Cina:

La speranza è come una strada nei campi: non c’è mai stata una strada, ma quando molte persone vi camminano, la strada prende forma.
(Yutang Lin)

Cartolina da Rio De Janeiro: memorie ritrovate

A Rio De Janeiro c’ero arrivato la prima volta nel 1981, attraverso lo schermo del nostro primo televisore a colori: il lungomare di Copacabana, nelle sequenze della telenovela brasiliana Agua Viva seguita da mia madre,  si era messo di sbieco nell’immaginario della mia infanzia. I personaggi, le storie e la colonna sonora ispiravano disegni di quei luoghi che condividevo con mamma e mi ripromettevo di visitare.

Sarà stato il ricordo di quei tempi a capultarmi subito sotto il Cristo Redentore, simbolo del Sudamerica, che mi fa ritrovare quell’estate di quarant’anni prima  su una 500  rossa con la mia famiglia a Maratea per ammirare il Cristo lucano. Rivivo le stesse emozioni con lo sguardo rivolto a Rio e al Brasile attraverso il belvedere mozzafiato dal Corcovado.

Per entrare nell’anima di Rio bighellono per le stradine di Santa Teresa gemellate con quelle dell’omonimo quartiere nell’amata Lisbona salgo e scendo  come un bambino sulla scalinata Sélaron, mi rilasso nel piccolo eden del Giardino Botanico, osservo la città che va a lavoro nel centro storico in largo Carioca, salgo sul convento di Sant’Antonio per godermi il centro dell’alto.

Bivacco a Botafogo, calpesto pagine e pagine di storia calcistica brasiliana sul campo da gioco del Maracanà, sosto in preghiera nella meravgliosa cattedrale di San Sebastiano, una vera perla architettonica controcorrente, volo in alto come se avessi le ali fin sopra il Pan di Zucchero, da dove ammiro la baia e il panorama più suggestivo della mia vita da viaggiatore.

Rio De Janeiro diventa mia lasciandomi andare in una lunga scarpinata di sei chilometri sul lungomare da Ipanema a Copacabana. Le onde dell’oceano sono più alte del solito, la spiaggia non è gremita, nonostante per i Brasiliani sia un luogo sociale e prolungamento della vita di tutti i giorni. I residence e i condomini lussuosi sul lungomare contrastano le forme presepiali delle favelas avvistate in lontananza. come la Rochinha dove vivrò uno dei pomeriggi più toccanti della mia vita da viaggiatore.

A spingermi a Rio de Janeiro è stata anche la devozione per le poesie e le canzoni di Vinicius de Moraes, il cui ricordo galleggia nel bar e ristorante Garota de Ipanema, ritrovo dei padri della Bossa Nova che ispirò l’omonima canzone. Mi siedo, sorseggio un caffè bollente, mi tornano in mente le parole di Toquinho durante l’intervista a Milano: le canzoni di Vinicius evocano luoghi e viceversa.

Me lo conferma anche Carlos Alberto Afonso, gestore del famoso negozio di musica Toca do Vinicius,  con cui chiacchiero piacevolmente e sbircio tra gli scaffali di quello che è oggi è diventato un centro culturale della Bossa Nova.

Carlos ritaglia ricordi su misura per me della Rio De Janeiro degli anni ’70 e ’80, mi racconta la passione per il canzoniere del nostro Sergio Endrigo, mi aiuta a ritrovare altre strade per una doccia di memoria e musica che si mescola ai crepuscoli avvistati sulla spiaggia di Ipanema, alla luna piena di Capocabana, mangiucchiando calamari fritti e bevendo caipirinha nei tipici chioschi o aggirandomi nel mercatino serale a caccia di cianfrusaglie artigianali.

Quando il tassista mi accompagna in aeroporto e siamo bloccati nel traffico, mi allontano dal centro con la consapevolezza che Rio e Johannesburg sono state le città che nei miei trent’anni di viaggi all’estero non mi hanno rassicurato in tema di sicurezza.
Nonostante tutto Rio De Janeiro mi è rimasta nel cuore: su un cartellone pubblicitario gigante campeggiano una donna e un bambino, assomigliano a me e mia madre su quel divano di periferia mentre sognavamo il Brasile dentro un tubo catodico .

Cartolina da Bahia de Todos os Santos: non tutte le “rapine” riescono con il buco

Su un barcone hai alle spalle Salvador tra gli ambulanti che ti danno una bottiglietta d’acqua per pochi real e il vocio dei bambini che si incantano davanti all’oceano: navigare la Bahia de Todos os Santos in Brasile ti riporta ai tempi dello sbarco dei portoghesi, quando il colonialismo con la scusa di portare progresso divorò le civiltà di questi luoghi.

Il tragitto fino a Morro de Sao Paulo, una delle isole più assalite dai turisti di Bahia, può superare le due ore. Ho il tempo per fare amicizia con Cata, insegnante cilena di inglese trasferitasi a Rio de Janeiro. Cata mi riporta ai miei giorni a Santiagio, al mio viaggio della memoria nel Cile dei Desaparecidos e alla profonda convinzione, maturata in giro per il mondo, che solo i viaggi possono farti toccare con mano le barriere ostili alzate dai regimi.
Io e la giovane insegnante cilena mettiamo sul piatto le esperienze di vita di generazioni diverse, le frulliamo e mescoliamo quei sogni comuni che ti farebbero superare qualsiasi ostacolo nella vita.

A Morro de Sao Paulo mi ritaglio il tempo per un fritto di gamberi e una capirinha con vista sulla spiaggia per poi andarmene a zonzo alla ricerca di scorci segreti, lontani dai turisti che attirano il sole per l’abbronzatura. Il vero cuore dell’isolotto è la parte dove abita la gente del posto, pacifica. Ci sono salite e discese, strettoie che fanno gola agli amanti del trekking, panorami fatti da collane di insenature.

Da lì non si avvista l’Ilha dos Frades, la vera meraviglia di Bahia che avrei visitato nei giorni successivi. Ci vogliono quattro ore su un catamarano per raggiungere quest’ultima da Salvador: l’acqua qui è così limpida che, grazie ai giochi di luce della sabbia, sembra di aver trovato un tesoretto. L’ilha dos Frades è semideserta e i ragazzi sul pontile, che mi indicano la scorciatoia per oltrepassare la scogliera, mi ricordano che siamo in bassa stagione.
Pousade e ristoranti chiusi mi fanno rinascere nel giro di una mattinata con il temperamento di Robinson Crusoe. L’incanto della passeggiata solitaria ti fa ritrovare te stesso distante dai luoghi comuni di chi lo ripete e poi, sotto lo schiaffo del rientro alla routine, lo rinnega con disinvoltura.

Itaparica invece resta una miniatura di Salvador in versione isolana. La attraverso su e giù in un paio d’ore di autobus, incantato dai suo sbalzi di vegetazione brasiliana tra zolle di foresta tropicale, gli ambulanti che vendono cocco e mango, case periferiche sparse lungo l’isola le cui finestre sono racconti sospesi di quotidianità. Poi finisco a mangiare in un ristorante alla buona accampato sulla spiaggia: un buffet, una birra ghiacciata, quattro chiacchiere con alcuni europei e poi all’uscita quattro passi sulla spiaggia.
La zona è isolata, a pochi metri da me ci sono due sbarbatelli ventenni che parlano in riva al mare. In Brasile mai abbassare la guardia, il pericolo sbuca quando meno te lo aspetti. Si avvicinano, farfugliano qualcosa in portoghese, faccio finta di non capire, vogliono derubarmi. Li guardo dalla testa ai piedi, indossano soltanto il costume, non hanno armi e non c’è nessuno che  faccia loro da “palo”, le case sono lontane. L’istinto mi suggerisce di pronunciare “Napoli”, la mia città natale,  e fare un gestaccio come per dire “non mi hanno fregato nella terra mia, vuoi vedere che adesso…”

Metto lo sgambetto, cadono a terra e io corro sulla spiaggia. La security fuori il ristorante nota la scena e si attiva. I due ragazzotti intanto se la sono già date a gambe perché, come sostengono due buttafuori, ci provano comunque. L’episodio increscioso non mi rovina lo spettacolare tramonto in barca sulla via del ritorno.