Pensavo che il pop di Prince stesse stretto all’edizione numero 43 di Montreux. Dovetti ricredermi durante il concerto, completamente sold-out, quando mi resi conto che le acrobazie musicali dell’icona di Minneapolis sfregiavano il pop tout court per insidiarsi in lapilli di funk, jazz, con un falsetto che mi colse di sorpresa e mi ha lasciato come souvenir di viaggio Somewhere Here on Earth.
Alla fine dell’esibizione di Montreux compresi quanto Prince fosse legato geneticamente al jazz, quanto il suo pop, vagante sulla sponda opposta di Micheal Jackson, avesse scheggiato funk e soul con lamelle di rock.
Prince ha remato controcorrente nelle acque dell’omologazione culturale degli anni ’80, ha guerreggiato contro lo strapotere delle major, si è impadronito della libertà dell’artista a tutto tondo per mantenersi fedele alla pignoleria maniacale del vivere la musica.
Prince si è vestito con un abito ritagliato su misura, quello dell’artista controverso e pieno di contraddizioni che ha fatto dell’incoerenza la linea d’ombra tra presente e futuro.
E’ stato lui l’ultimo uno, nessuno e centomila di fine secolo, saccheggiando nel fluido rovente delle sue canzoni l’instabilità di una generazione dopo la legittima presa di coscienza: gli anni ’70 si erano barricati dentro con la grande musica che mai più sarebbe tornata.
Prince ne rimase fuori e provò a modo suo ad orchestrare per le generazioni avvenire sonorità pulp che resteranno comunque vive, anche nelle perline come Nothing compares to you, donata generosamente a una gran bella voce come Sinead ‘O Connor.
Il pop si è spento. Ecco tutto.
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