Io, no. Sono qui per condividere con te un pezzo di questo mio viaggio frastagliato, tra memorie orientali e futuro, tra spiritualità e ricerca di me stesso, tra imprevisti e vagabondaggi che elogiano il tempo dell’interiorità.
Rallenta il passo, cara Mamechika, ti resto accanto così posso sussurrartelo in inglese: i pregiudizi di noi occidentali sono maschere di cemento sul muro delle nostre coscienze. La maschera di trucco bianco, che incarta il viso da geisha, è invece il velo che protegge la tua essenza, ricomponendo la tua radice che ti riconduce alle origini della vita, il teatro e danza nella mescita che strappa l’eternità all’esistenza terrena.
Nessuno può conoscerti meglio di te stessa, neanche gli occidentali illusi dalle parole di carta di Memorie di una geisha, o gli americani che, per sbiancarsi la coscienza dall’orrore dell’atomica, ti misero ai piedi i geta di una prostituta.
Sei troppo giovane per ricordare, i tuoi vent’anni raccolgono le foglie sparse dal vento e allontanano rancori stantii, perché le bombe della storia fanno ancora un gran male, quanto dolore taciuto, quante lacrime sommerse.
Ho raccolto per te questo fiore in cima al tempio di Otowasan Kiyomizudera. Che fai rincasi senza neanche un cenno di saluto? (Mamechika sorride) Te lo lascio qui sull’uscio di casa. Stai tranquilla, non dirò a nessuno dove abiti.
In questi pochi minuti di passeggiata insieme al chiaro di luna abbiamo sfilacciato qualcosa sepolto dentro di noi, in bilico tra la mia sfrontatezza logorroica e la tua compostezza taciturna.
Nel caso non fossi Mamechika, prima che spunti l’alba a Kyoto, il profumo d’Oriente di questi petali scriverà il nome con cui ti battezzo: Junko 笋子, che in giapponese vuol dire piccolo germoglio.
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