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Il 25 aprile oltre l’anniversario: partigiani della musica come gli Area

Rosario PipoloFinito il giorno dell’anniversario, socchiuso nella sindrome del revival, sembra che il 25 aprile si sia arrestato a quella liberazione di 70 anni fa. Senza dimenticare che  l’Italia passò da una dittatura ad un regime fatto di meccanismi perversi – quest’ultimo era il soppalco della Prima Repubblica – resta da chiedersi chi siano stati i partigiani del dopoguerra.

Lo sono stati un po’ tutti coloro che hanno fatto “resistenza” nel proprio territorio a quel sistema che osteggiava il sogno collettivo di rendere la vita umanamente a misura di ciascuno, senza certi feroci dislivelli che fucilano la dignità umana.

Chiacchierando con Paolo Tofani e Patrizio Fariselli, due colonne del gruppo musicale degli Area, al termine di un concerto nella cornice della rassegna JazzAltro, ho confermato il mio bizzarro convincimento. Negli anni ’70, nell’Italia che brulicava delle bombe degli anni di Piombo, gli Area furono i partigiani della musica.

Non fummo all’altezza di capirlo né qui né all’estero perché accecati dall’innocenza melodica di casa nostra. Il sound sperimentale degli Area, che fece della voce di Demetrio Stratos l’urlo rabbioso del “nuovo partigiano Johnny”, declinò la resistenza come valore per annusare la vita.
Il  concerto del 14 luglio 1979, che rese il raduno musicale all’Arena Civica di Milano l’unica Woodstock nostrana che l’Italia ricordi, fu la testimonianza che quel sound fu la nuova liberazione dallo sguardo vigile dei nuovi padroni in ascesa.

Il repertorio musicale degli Area, così come il coraggio di Mario Caccia, Laura e i membri dell’Associazione Area 101 sostenitori di rassegne come JazzAltro, dimostrano che si può essere ancora partigiani a 70 anni dal 25 aprile che cambiò il volto all’Italia.
Possiamo esserlo tutti noi, nella nostra quotidianità, per superare ciò che scrisse Sandro Pertini: “È meglio la peggiore delle democrazie della migliore di tutte le ‪‎dittature‬.” E per uscire dal tunnel di “la peggiore delle democrazie” dovremmo imparare a riconoscere i partigiani del nostro tempo, che resistono all’ombra dei riflettori.

Viaggio nel Medioevo: da giornalista a cantastorie al Castello di Bevilacqua

Foto di Tony Anna Mingardi

Foto di Tony Anna Mingardi

Rosario PipoloChi non ha sognato almeno una volta nella vita di incontrare Emmett “Doc” Brown, l’eccentrico scienziato del film Ritorno al Futuro, per fare come Martin un gran bel viaggio nel tempo? Io ci ho provato per ventiquattro ore, andando oltre i ghiribbizzi fantastici, senza ricorrere ai soliti parchi tematici che tendono a scimmiottare in maniera gogliardica la ricostruzione storica.

Me ne sono andato a zonzo nel Medioevo con la mia penna da cronista, per fare un mini reportage e mettermi alla ricerca degli antenati che avevano cucito un filo temporale fino al mio futuro. Mi sono ritrovato nell’Italia Medievale, intorno al Castello di Bevilacqua costruito da quel Guglielmo I Bevilacqua, che mi ha concesso benevolmente di portarmi dietro gli inseparabili occhiali e lo smartphone per twittare. L’abito nuovo mi calza a pennello, incluso il cappello. Io sono mancino e non rinnego le origini. Riuscirò mai ad usare le piuma d’oca, inchiostro e calamaio per appuntare sul mio diario?

L’euro non vale niente nel Medioevo. Non so come fare per mangiare. Chi mi crederebbe mai che vengo dal futuro? All’entrata del Castello inciampo nella bontà di Anna. Mentre la sorellina Giulia fa da sentinella, Anna mi lascia passare sotto un tunnel, facendo credere a tutti che sono Enrico, il factotum di Guglielmo I che indossa il mio stesso abito da cantastorie. Arrivo alle cucine del castello e riesco a mangiare selvaggina e verdure, bevendo del buon vino.
Dalla sala accanto sento la voce di un attore che recita stralci di Mistero Buffo. Lui si accorge di me, si avvicina e mi prende per il cappello: “Straniero, lo so che tu vieni da lontano. Quando tornerai a casa tua, va’ a bussare alla porta del grande Dario Fo e digli che io fui suo antenato. Sono l’attore Alessandro Martello”.

E’ notte fonda. Sono fuori dal castello. Trovo un accampamento. Omero, capitano della Compagnia d’Arme San Vitale, mi offre l’ospitalità. Isabella, Anna e Moreno pensano ad allestire la tenda; Marcello e Sabina si fanno in quattro per trovare delle pelli come coperta; Giulia mi guida nel posto dove dormirò, facendomi luce con una candela. La notte passa, mi sveglio di soprassalto. Esco dalla tenda e mi incanto a godermi una meravigliosa alba che sbarba il castello di Bevilacqua. Mi raggiungono Paolo, Theo, Yuri, Renato, Oriella e Sandra.

E’ il dì di festa. E’ domenica. Arrivano grandi e piccini, c’è musica, sfilano gli sbandieratori, gli alfieri della Regina di Piovene Rocchetta, saltibanchi e giocolieri. Massimo, Davide, Gabriele, Alessandro, Arianna e Valeria fanno strepitose magie, parlando con la cadenza della mia Napoli. Irene non ne vuole sapere. Nonostante sia imbranato, mi insegna a camminare sui trampoli, facendo buon uso della maschera.

L’incantesimo sta per finire. Vorrei che non arrivasse più questo ritorno al futuro. C’è tanta umanità e solidarietà tra questa gente, che non divora lo scorrere del tempo con la nostra frenesia. Abbiamo rinnegato il vivere per l’arte, perchè ci fa palpare il mondo con gli occhi della fanciullezza.
Prima della partenza, mi commuove un esercito di bambini che combatte l’ultima battaglia per lasciare un messaggio chiaro a noi saccenti del futuro: “Perchè non gettate via le armi e usate gli abbracci per riscoprire la ricchezza che c’è oltre la corteccia della diversità?”.

Dimentico il cappello e la mia piuma d’oca. Ora come vi dimostrerò che sono stato per ventiquattro ore nel Medioevo? Gli appunti si sono sbiaditi. Le emozioni per niente.
Nel taschino trovo un biglietto con una dedica di Guglielmo I Bevilacqua che, nella transizione da passato a futuro, si è disciolta nell’inchiostro di un pensiero di Alfred De Musset: L’immaginazione a volte dispiega ali grandi come il cielo in un carcere grande come una mano”.

LINK CORRELATO:
Spunti e riflessioni nel mio articolo su Italia Medievale.org

Da Franco Battiato a Mina, perché i loro compleanni ci appartengono

Rosario PipoloLe canzoni non solo ci fanno stare bene ma sanno essere per una minoranza di noi incisioni sulla vita per le scelte future. Per questo motivo i compleanni di chi ce le ha donate, vanno festeggiati.
Non si tratta però dell’odioso fanatismo che fa di ogni fan che si rispetti il cortigiano immaginario del proprio beniamino, piuttosto dell’incosciente leggerezza che lega la vita, la nostra appunto, a certe canzoni e di conseguenza alle voci che le hanno vendemmiate per noi.

Pensando a due compleanni speciali in questo marzo, le 70 candeline di Franco Battiato e le 75 di Mina Mazzini, mi chiedo se dopotutto bastano canzoni per arrogarci il diritto di sedere da commensale al tavolo dell’illustre festeggiato. Non sono complici un mucchietto di ricordi, messi in castigo all’angolo, a dare una sostanza a quelle voci?

Mi capitò con Battiato in un auditorium milanese: dopo l’esecuzione di Povera Patria mi alzai in piedi e lui sorridendo mi disse: “Assiettete”. In camerino, mangiucchiando della frutta insieme, ripercorsi con Battiato la via Etnea sperimentale che illuminò gli orizzonti perduti delle mie conoscenze musicali.

Per Mina mi capitò in una cucina alla periferia di Napoli nei pomeriggi dell’infanzia: mamma terminava le faccende domestiche e mi raccontava della signora Mazzini, di professione cantante, trasferita a Lugano per tornare a vivere la quotidianità lontana dalll’invadenza dei riflettori. Insomma, per farla breve, nel mio immaginario Mina è rimasta l’amica di mia madre che, tra lavoro di casalinga e la professione di mamma per Massimiliano e Benedetta, si chiudeva in sala di registrazione e incideva canzoni.

Il fanatismo tanto decantato, che alimenta il personaggio e lo mitizza, prima o dopo appassisce. Resta in soffitta impolverato tra ricordi e vecchi brani. Accade il contrario quando le voci di quelle canzoni prendono la forma di persone, cresciute accanto a noi nella loro fragilità e umanità.
Perciò crescendo, avvertiamo la necessità di entrare in contatto con loro. Non è fanaticismo feticista. Questo tratto lo colse mia cugina Elena, quando anni fa mi fece trovare una dedica di Mina, incorniciata come se fosse uno specchietto della mia vita.

Abbiamo il diritto di essere accanto a loro quando soffiano sulle candeline perché, nell’ultima fiammella accesa sulla torta, ci sono i quattro angoli del cielo della nostra vita.
Le canzoni non si liquefano come su Spotify ma, dopo essere stati appiccicati come bottoni su un pentagramma, si muovono con la leggerezza di una libellula. Finiscono per assopirsi su una brandina al vinile, avvolta da una copertina su cui era disegnato, ad insaputa nostra, ciò che avremmo voluto dal nostro futuro.

Oggi sono io, anche grazie a voi due. Buon compleanno, Battiato. Buon compleanno, Mina.

Sanremo 2015, il Volo “cantanti da pizzeria” e le penne con l’Alzheimer

Rosario PipoloI due giovanissimi tenori e il baritono che compongono il Volo, la formazione musicale vincitrice del 65° Festival di Sanremo, si sono guadagnati meritatamente il consenso popolare, destando però qualche perplessità nei corridoi della Sala Stampa dell’Ariston. Tra l’altro pare che Pietro Barone, Ignazio Boschetto e Gianluca Ginoble siano stati additati pure come “cantanti da pizzeria”.

Senza tener conto di chi non ha digerito il successo planetario dei tre mocciosetti del programma tv di Antonella Clerici e la conquista degli USA,  dobbiamo rassegnarci al fatto che in Italia abbiamo delle penne malate di Alzheimer. Si tratta delle medesime biro che, abusando del loro inchiostro, pensano ancora di vivere ai tempi in cui segnavano il bello e il cattivo tempo della discografia.

Per fortuna o per sfortuna oggi ci sono i social media, non soltanto territorio di clowneria e nefandezza ma anche di competenza, la stessa che ha l’orecchio lungo e riconosce il talento di Il Volo. Le penne malate di Alzheimer hanno esaurito l’inchiostro a supporto di mediocri pianisti contemporanei, facendoli passare come geni incompresi, e non ne hanno più a dispozione per riconoscere la bravura di questo trio?

Consapevoli da una parte che i Festival di Sanremo dei Modugno, dei Dallara, dei Latilla, dei Villa, dei Rascel, degli Endrigo, dei Tenco o dei Gaetano non torneranno mai più, dall’altra ci opponiamo a questi ciarlatani da corridoio perché Barone, Boschetto e Ginoble possono fare un miracolo con le loro romanze pop: far avvicinare i ventenni alla lirica, ricordando loro che la radice della musica è tutta lì.

La mia generazione fece il grande passo scoprendo Luciano Pavarotti, l’antesignano di quella fusione magistrale tra lirica e pop. E me ne resi conto il 30 luglio 1991 quando, all’uscita da una merenda all’Hard Rock Cafè di Londra, mi ritrovai il grande tenore che cantava sotto la pioggia ad Hyde Park. Ebbi la fortuna di ascoltare quel concerto gratuito che in parte avrebbe compromesso alcune mie scelte musicali future.

Il Volo sono l’unico sollievo di questo Sanremo avaro che dimenticheremo in fretta, forse il peggiore musicalmente di tutte le edizioni. Se proprio dobbiamo salvare una baby band, teniamo loro e buttiamo giù dalla torre i Dear Jack, flop del filone della tribù della De Filippi.
Pietro, Ignazio e Gianluca hanno talento ma devono sapere che l’umiltà è necessaria per crescere. La strada per guadarsi un posto nella storia della musica è ancora lunga, faticosa, tortuosa e il pericolo che il successo negli USA li abbia montati la testa è dietro l’angolo.

Le braccia spalancate di Mimmo Modugno sulle note di Volare fecero il giro del mondo. E questa Grande amore? Nonostante resti una romanza pop di serie B avrà il pregio di ricordare all’estero che l’Italia – ed in particolare Abruzzo e Sicilia, le regioni che li hanno partoriti – non è solo corruzione e volgarità ma è ancora culla di ragazzi entusiasti, capaci di assistere con la passione il faticoso cammino per le nuove generazioni, orfane della grande musica che fu.

Benvenuti nel Sanremo 2015 di Carlo Conti, karaoke dei “Migliori anni”

Rosario PipoloOgni anno ci portiamo avanti con una vena polemica che ci fa rimpiangere i Festival di Sanremo precedenti nonostante, da alcuni anni a questa parte, puntualmente non ricordiamo il titolo della canzone vincitrice dell’edizione precedente.

Questo Sanremo 2015 ha tutte la carte in regole per riproporre sul palco dell’Ariston il karaoke dei Migliori anni, la fortunata trasmissione di Carlo Conti che ricompone il Belpaese ammalato di nostalgia canaglia. Prima del siparietto buzzurro di Albano e Romina, ci pensa la famiglia più numerosa d’Italia a riproporre in prima serata la famiglia Mulino Bianco catto-democristiana.

Se non fosse per la delicata e vaporosa Io sono una finestra di Grazia Di Michele, che ci ha tolto di dosso l’odioso travestimento di Platinette per restituirci il sincero Mauro Coruzzi, staremmo ancora a cantare banalmente Felicità.
Quel fottuto “panino e bicchiere di vino” non appartengono più all’illusione del benessere economico del Pentapartito degli anni del riflusso ma ai litigi ridicoli di Albano e Romina, che giocano a fare la coppia appassita dell’Horror Picture Show sanremese, nella nuova vallettopoli delle Emma e Arisa, caricature degne del prossimo film di Quentin Tarantino.

E le canzoni? Non ci sono. Basta ascoltare la Chiara o l’Annalisa di turno per convincerci che siamo tornati alle canzonette che ammazzarono i rivoluzionari alla Luigi Tenco. Grignani ci aveva illusi che, con la sua Sogni infranti, saremmo tornati alla bella époque dei cantautori; i Dear Jack riciclano la lagna dei Modà; Lara Fabian sembra la Oxa del Belgio; Nesli ci fa rimpiangere amaramente Grazie dei Fiori (roba di sessant’anni e passa); Alex Britti e Malika Ayane si sono già sentiti; Nek pensa al look e non  alla canzone, tanto da sembrare venuto fuori dalla pellicola Il pianeta delle scimmie.

Non ci resta che piangere – per citare il saggio Troisi nel Festival incapace di ricordare “i due Pino” (Mango e Daniele) – a meno che le canzoni dei giovani in gara non ci stupiranno a tal punto da rinnegare tutto.
Preferisco tenermi stretti i lettori che mi seguono nel mio live tweet e, in particolare modo, la mia Melina S. che, con garbo e aria domestica, sa ricordarmi: nonostante tutto, il festival di Sanremo riesce a riportarci col cuore ai ricordi di famiglia.

La napoletanità di Pino Daniele ritrovata grazie a “Unici” di Giorgio Verdelli

Rosario PipoloQualche volta capita che il Servizio Pubblico televisivo ci sorprenda. Lo ha fatto con lo speciale che Unici di Raidue ha dedicato a Pino Daniele a un mese della scomparsa. Fuori dal perimetro della retorica, ci sono diversi spunti che ci spingono verso un’unica riflessione, oltre il commiato popolare: Pino Daniele è stato napoletano fino alla fine, nonostante le malelingue abbiano tentato di convincerci del contrario, puntualizzando su un mucchio di banalità.

Il rimbalzo delle polemiche da rotocalco tra gli eredi sulla possibilità di salvarlo lo lasciamo svanire nel falò dei social network. Noi invece ci teniamo la sagoma dell’artista, quella del musicista sul palco, anche perché noi addetti ai lavori conosciamo tanti retroscena che sfuggono al pubblico, compreso il gran bel caratterino del musicista partnenopeo.

Parto da una battuta che mi lasciò al termine della mia intervista alla Feltrinelli di Milano alcuni anni fa, per la quale ringrazio il social team di Unici per averla rilanciata su Twitter: “Guagliò, la memoria deve guardare avanti senza rimpianti”. A quello che disse Pino Daniele aggiungerei: questo vale soprattutto per chi decide di andare via da Napoli senza rimpianti, senza portarsi in valigia lo scheletro dell’emigrante raccontata da Massimo Troisi.

Nonostante Pino Daniele abbia cantato “‘o munno” con gli occhi della Napoli metropoli del Mediterraneo, la sua napoletanità è cresciuta nella fuga geografica che ne ha segnato crescita artistica. E paradossalmente le meravigliose note di Eric Clapton al “dear friend Pino” da una parte fungono da ninna nanna e dall’altra sottolineano ciò che Gad Lerner e tanti altri non sono stati all’altezza di capire.

Quando all’alba degli anni ’70 mia mamma si trasferì da Napoli per andare a vivere in periferia dopo il matrimonio, mio nonno ne fece una tragedia. Il suo risentimento è comprensibile ad un napoletano, perché chiunque ne varchi i confini è considerato in un certo senso un traditore. Ce lo siamo sentiti ripetere tutti noi che ce ne siamo andati.

Ho imparato che la napoletanità è prima di tutto uno stadio interiore e non si misura facendoti seppellire a Napoli ma se, mangiando un frittella nel cuore di Sarajevo, ritrovi il sapore di quelle che ti cucinava nonna Lucia. La napoletanità non scema se sei andato via da Napoli per esplorare nuovi mondi, anzi aumenta quando sei a Tirana, in Albania, e trovi nella generosità della gente locale quella dei partenopei.
La napoletanità non si sbiadisce se non canti più nella lingua che ti partorì, ma riappare tutte le volte che alla tua donna ti scappa, prima e dopo aver fatto l’amore, Te voglio bene assaje invece di I love you.

La generosità di Giorgio Verdelli e del suo programma Unici ha restituito a Pino Daniele e a tutti noi quella napoletanità che nessuno mai potrà scipparci perché, come ha ribadito Lina Sastri, “la vera bellezza di Napoli è la sospensione come la poesia musicale di Pino Daniele”. 

50 candeline per te: buon compleanno, cara Claudia Endrigo!

Rosario PipoloOltre le canzoni del tuo papà, cara Claudia, c’è una ricordo che mi lega a te: la maestra Iole che, all’alba degli anni ’80, ci insegnò in terza elementare i versi di Ci vuole un fiore.  E quando alcuni anni fa te ne parlai, annunciandoti che le stavamo organizzando una festa a sorpresa per la pensione, non te lo facesti ripetere due volte.
Mi inviasti una lettera dolcissima che le lessi in classe. Alunni e genitori esclamarono: “Hai letto con passione questa lettera di Claudio Endrigo. Si vede che siete amici di vecchia data!”.

Beh, io confermai. Dici che ho esagerato? In fondo, non ci siamo mai conosciuti di persona. Perché “amici di vecchia data”? Perché quando ti hanno scattato questa bella foto con il tuo adorato papà, il mio corteggiava mamma, regalandole le canzoni d’amore di Sergio Endrigo.
E poi vuoi mettere:  tu, graziosa signorinella, andavi a scuola con lo zaino nel viale delll’adolescenza ed io, bambino monello, che puntualmente fregava a mamma la paletta delle pulizie. Diventava l’asta immaginaria di un microfono per cantare Ci vuole un fiore su un balcone alla periferia di Napoli. Il Vesuvio “scostumato” mi mostrava le spalle, il monte Somma.

E poi c’era mamma che, tra una faccenda domestica e l’altra, mi faceva ascoltare le canzoni del tuo papà e mi parlava di lui come uno di famiglia. Una persona perbene, ripeteva. Guardandoti in questa foto di ieri e in quelle di oggi, posso dirti una cosa con franchezza?
Claudia, sei tutta tuo padre. In quella tua autenticità, in quel tuo modo di essere sincera, in quell’entusiasmo appassionato che ti fa affrontare la vita, lontana dallo star-system volgare di questi tempi. Anche allora però volavano i falchi. Sergio Endrigo invece era una meravigliosa colomba, che posava lo sguardo sull’interiorità dell’umanità.

Detesto gli auguri “in saldi”che raccattano consensi sui social network. Per questo biglietto di auguri, condiviso con i miei lettori, ho scelto le pagine del mio blog. Stasera, soffiando le candeline, sentirai in lontananza la voce di quel bimbo stonato che, impugnando l’asta del microfono immaginario, ti dedica: “Ma oggi devo dire che ti voglio bene. Per questo canto e canto te. È stato tanto grande ormai, non sa morire.”

Sono le parole che scrisse il tuo papà. Se torni nel giardino in cui fu scattata questa foto, troverai, incolume dal gelo di gennaio, una rosa che lui piantò per te nel giorno della tua nascita. L’amore di un papà non passa mai di moda perché non appassisce.

Buon compleanno, Claudia.

Fottuto “cuore” ci porti via Mango, gran bella voce della musica italiana

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Rosario PipoloLa notizia di Mango stroncato da un infarto mi è apparsa come uno scherzo di cattivo gusto. Non volevo crederci. Forse ha ragione Enrico Ruggeri a tuonare dalla sua pagina Facebook: “Ora leggo belle frasi da giornalisti che non andavano da anni a un suo concerto, radio che non passavano le sue nuove canzoni e discografici che non avevano più voglia di investire su di lui”. Parto proprio da questo misto di dolore e rabbia.

Giuseppe Mango, una delle vocalità più interessanti del panorama musicale italiano, è rimasto l’outsider per eccellenza al tempo in cui la musica si è liquefatta e Lei verrà, che fece fare un botto di soldi ai potenti della Fonit Cetra, conserva nel suo isolamento musicale i canoni della ballata pop che si veste di world music.

Ho conosciuto Mango al Festival di Sanremo del 2007. Ci incrociammo per strada e mi restò impressa questa sua dichiarazione: “Devo molto al palco dell’Ariston. Penso che chi faccia il mio mestiere debba tenersi alla larga da ogni forma di snobismo”. In questo Mango aveva proprio la veracità dei lucani che sanno apprezzare le occasioni della vita. Mango si era portato con sé la Basilicata, proprio in quella vocalità capace di smuovere i sassi di Matera per fare della sperimentazione il punto di congiuntura con la voce che si fa strumento.

Detesto i famigerati “coccodrilli”, che fanno a volte di noi giornalisti, allevati nello spettacolo, dei viscidi avvoltoi. Lo tiravi fuori appena giungeva in redazione la triste notizia e ti affidavi a parole surgelate piuttosto che a riflessioni postume. Nel caso di Pino Mango il “coccodrillo” è stato utile a tutta quella ciurma, a cui Ruggeri in parte faceva riferimento, che lo ha dimenticato strada facendo.

Pino Mango non ha bisogno del rimorso post-mortem che scatta tra gli addetti ai lavori. Le dimenticanze si pagano e a caro prezzo. Perciò è giusto che le sue canzoni ora stiano alla larga dalle penne avvelenate dei giornalisti, dai microfoni delle radio distratte o dagli elogi funebri dei discografici che prima o poi ti lasciano crepare nella fossa dei leoni.

Le canzoni passano in eredità al pubblico che lo ha amato, che ha colto la spiritualità dietro la sua maniera di fare il musica, che ha legato gioie e dolori del privato ai versi di Mediterraneo, Oro, La rondine o agli atti di generosità come Io nascerò per la Goggi.

E pensare che Pino Mango il suo testamento lo aveva filato nei versi di questa poesiola musicata: “Nella mia città c’è una casa bianca con un glicine in fiore che sale, sale, sale su. Sulla mia città c’è un cielo grande che ti spalanca il cuore e non ti delude mai”. Ed è proprio in direzione di tale città che ricomincia il suo nuovo viaggio. Ci mancherà.

Aznavour Anthologie, un bagno di musica nel legame con Lilina Bazin

Rosario PipoloE’ complicato mettere mano al repertorio musicale di Charles Aznavour, monumento della musica francese e d’oltralpe. Universal Music Francia è riuscita nell’ardua impresa, raccogliendo nel meraviglioso cofanetto Aznavour – Anthologie, prodotto in soli 10.000 esemplari numerati, i 45 album del cantautore francese arricchiti da altri 15 cd tra inediti, rarità, duetti e interpretazioni di classici in italiano, spagnolo, inglese e tedesco.

Ci sono due momenti del mio lavoro che mi riportano all’autore di successi come A ma femme, Il faut que savoir, Tous le visages de l’amour (She): la recensione del concerto del 2010 in piazza San Marco a Venezia e l’incontro a Milano di alcuni anni prima. Del concerto ho il ricordo di un’ugola che, in prossimità dei 90 anni, castigò l’orchestra che non riusciva a stargli dietro, regalando un memorabile canto a cappella.
A Milano invece Aznavour era venuto a presentare un libro. Mi feci strada tra la gente e, a pochi metri da lui, spalancai la copertina apribile di un vecchio disco Barclay. Interruppe il rito degli autografi. Fece cenno di farmi passare. Gli occhi gli brillavano. Io e Charles Aznavour restammo in silenzio faccia a faccia. Mi tolse il pennarello da mano e mi firmò il vinile senza che aprissi bocca.

In quel silenzio, così come in questo bagno di musica, la voce di Charles Aznavour si lega inesorabilmente a quasi un secolo di storia francese, dalla grande illusione della Quarta Repubblica alla dolorosa Guerra d’Algeria, dalle contraddizioni del Gaullismo al socialismo machiavellico di Mitterand, dalle ombre di Chirac sulla rivolta delle banlieue parigine ai gossip di Sarkò.

Il tempo barerà pure ma non riuscirà mai ad importi le canzoni. Quelle di Charles Aznavour hanno accompagnato la vita di tanti francesi adottati come Lilina Bazin, il cui ricordo mi restituisce legami e affetti che non hanno bisogno di inutili schemi.
La musica non inganna. Ti aiuta a superare i momenti difficili, perché una canzone non si ascolta mai da solo. La spartisci sempre con qualcuno o con il ricordo di un momento vissuto ma con la piena coscienza che l’intensità dell’attimo è fuggiasca. Aznavour era figlio dell’Armenia, Lilina era figlia del Sud Italia, concimato nella famiglia messa al mondo nel Sud della Francia.

E oggi questo bagno di canzoni francesi, da cucire e ricucire, da tradurre e ritradurre, è un buon pretesto per ricordarla non solo come zia sensibile e premurosa ma come punto di riferimento per chi come me trovò, proprio grazie a lei, una parte delle radici perdute nella Francia cantata da Charles Aznavour.

In viaggio verso la culla di Noemi

Rosario PipoloChissà se mi basteranno cento chilometri e passa di trenini locali per scriverti un biglietto d’auguri, forse uno dei primi che riceverai per essere venuta a questo mondo. Sì, proprio i treni, quelli a forma di buffi millepiedi che fanno ciuff ciuff.
E se non mi basteranno ne percorrerò altri come accade sulla strada della vita: Noemi, è lunga e faticosa ma ne vale la pena in ogni istante.

Noemi, la prima volta in fuga dalla culla sarà per scoprire a carponi quanto sia meraviglioso spostarsi, perché la condanna di restare immobili spetta ai vigliacchi. Noemi, muoverai i primi passi e non avrai paura di cadere perché, voltandoti indietro, troverai l’amore di mamma e papà a sorreggerti.

Noemi, la prima volta oltre la ringhiera del balcone,  sarà per  guardarti intorno nel cortile, sentire le carezze delle tue affettuose nonne, apprezzare il tuo vicino di casa che rinuncia al sabato e domenica ad Acquafredda per andare a protestare in piazza nella Capitale, sventolando una bandiera colorata: devi sapere che in questo mondo ci sono persone invisibili che lottano per un mondo più umano, più giusto.

Noemi, la prima volta in montagna sarà per raccogliere il muschio per il presepe insieme al tuo papà, come faceva lui da bimbo con tuo nonno carabiniere in Valmalenco.  E poi verrà Natale e non ci vorrà molto per capire che il colore della pelle del Bambinello non è né bianco né nero ma riflette la ricchezza della diversità dell’umanità.

Noemi, la prima volta su un piccolo triciclo sarà per guardare il paesaggio montavano dal confine della bassa Bresciana. I confini territoriali non esistono, li abbiamo creati noi umani per farci stupide guerre.

Noemi, la prima volta in bicicletta sarà per scappare dalle meschinità e dalle ipocrisie della provincia, dai pregiudizi  delle tribù, dalle palafitte delle comunità, dopo che ti sarai fatta beffa dello struscio domenicale, del passamani nell’acquasantiera, dei soliti sermoni che dagli altari ti vorrebbero in lista d’attesa per il Paradiso. Il paradiso può attendere, dobbiamo prima impegnarci ogni giorno a farlo nel nostro piccolo, qui su questa terra.

Noemi, la prima volta che urlerai “Dio, perché mi hai abbandonata?” sentirai invece che ti sta portando in braccio. I solchi che vedrai sulla terra sotto i tuoi piedi non saranno stati arati dai contadini della bassa bresciana ma dai passi del Padreterno, che ogni notte accenderà le stelle in cielo per darti la buonanotte.

Noemi, la prima volta che lui ti sussurrerà “ti amo” sarà “su quel ramo del lago” in cui si riflette Lecco. Lì, ai piedi di un grande albero, lui ti reciterà un passo dei “Promessi Sposi” e custodirete così la promessa del vostro amore. Prima del calar del sole, ti inviterà a danzare un lento sulle note dello sciacquettio lacustre.

Noemi, la mia “prima” volta di un lungo viaggio in treno verso una culla è stato per te. Avrei voluto cantarti una ninna nanna ma sono stonato. E sai perché stono?
Perché ho steso a modo mio la vita in un lungo viaggio fatto di esperienze; faccio famiglia con chi incontro sulla via; mi lascio alle spalle gli amici traditori; osservo la quotidianità attraverso gli occhi del cinema, parlo con le parole dei romanzi, ascolto con l’udito della musica, sogno dentro e fuori i sogni.

Buona vita, Noemi. Ti lascio questo biglietto d’auguri dentro la culla. Lo troverai un giorno e ti ricorderai di me, il primo vagabondo sul tuo cammino.