Parte del mio 41° compleanno lo trascorsi a Mosca nella redazione di Novaja Gazeta, il quotidiano per cui aveva lavorato la giornalista ammazzata Anna Politkovskaja, in prima linea per la difesa dei diritti umani. Nell’ultima settimana lo stesso quotidiano è ritornato sul piede di guerra, a sfidare la disinformazione che aleggia al di là dei monti Urali: in Cecenia è stato riconosciuto il primo campo di concentramento per Omosessuali. Cosa fa la comunità internazionale, si benda gli occhi?
In questi giorni è stata fatta una retata di gay imprigionati e torturati in un luogo del Paese: “Diverse volte al giorno ci portavano fuori e ci picchiavano. Lo scopo era conoscere la cerchia dei contatti di ciascuno di noi, nella loro mente se sei sospettato allora tutti quelli della tua cerchia sono gay.”
Del resto neanche la Russia di Putin si è mai mostrata benevole nei confronti delle comunità LGBT. Risale al 2013 una legge che punisce chiunque faccia propaganda gay. L’hashtag #Cecenia in tropic trend su Twitter in queste ore non è soltanto il sintomo di un’indignazione collettiva. È l’amara presa di coscienza che l’informazione non contribuisca a squarciare il velo scuro del tempio dell’orrore.
In questo momento in Cecenia non hai scelta se sei gay: o te ne vai, o finisci al patibolo dopo essere stato torturato. “Descrivi quello che vedi, metti insieme dei fatti e analizzali. Punto e basta” è una grande lezione della penna di Anna Politkovskaja. Chi lo ha detto che l’ultimo campo di concentramento risale ai tempi del Nazismo? I genocidi nella ex Jugoslavia o in Africa, giusto per citarne qualcuno, ci hanno fatto mettere insieme i fatti. Continuiamo a tapparci il naso.
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