Ci sono tornato dopo troppi anni. Lui era disteso lì, immobile e ho sperato che aprisse gli occhi e mi dicesse:” Lasciamo perdere la chimica, lo so che non te ne frega niente. Piuttosto andiamo in cucina e facciamo merenda. Pane e pomodori, cosa ne dici?”
Ho cercato di resistere, ma non ci sono riuscito. Lui era immobile in quel letto e mi è venuto un groppo in gola. I ricordi hanno messo lo sgambetto all’infamia della morte e mi hanno travolto: erano milioni, scattanti, prepotenti e pronti ad aggredire la convinzione umana che la morte decomponga il cerchio dei rapporti umani.
Poi mi sono staccato dalla compostezza del corteo funebre e dalla ritualitá. Ho cercato di ricordare la strada per arrivare in campagna. Era passato troppo tempo, mi sono perso. Il paesaggio era cambiato, dei vecchi contadini neanche l’ombra, ma l’albero di Tonino era stato l’unico a rimanere intatto. Lì sotto ho ritrovato l’ultimo segreto svelatomi dalla terra che mi ha allevato: un sottile filo d’olio scivola su un pomodoro. Poi un pizzico di sale e origano danno sapore all’ortaggio. Quella non era una ricetta – gli uomini si affannano per la ricetta della felicità – ma il segreto che Tonino mi aveva lasciato durante quella merenda: si vive per restituire alla nostra esistenza la semplicità con cui la madre Terra ci ha generati.
Io ero all’opposto della generazione di Tonino, eppure nei vagabondaggi del mio esilio volontario ho scoperto finalmente la scorciatoia che mi ha riportato sotto quell’albero. Ed è stato lì che mi sono ricordato cosa ci fosse scritto su quel foglietto scarabocchiato, dimenticato sul comò trent’anni prima: “Tonino, non fare tardi. Ti aspettiamo. Ci siamo tutti per cena. Porta il pane. Ti amo. Annamaria.”
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