“Ringraziare sempre, tutti i giorni per il grande dono che abbiamo ricevuto: la vita”, dice Ronnie. Sembra un ringraziamento laico, invece è la condensa dello spirito di un discjokey che, nell’Inghilterra degli anni ’60, non smise mai di flirtare con un il soul, spiaccicandolo sulle piastrelle incollate con il funk.
Mi va un boccone di traverso quando, prima di arrivare al secondo, mi racconta che, cinquanta anni fa, pure i Beatles andarono ad ascoltarlo. I quattro sbarbatelli di Liverpool, che avrebbero tatuato la pelle della musica, si fecero trovare in un locale dove Ronnie suonava. Era il 1963, lo stesso anno in cui fu fatto fuori JFK. Morì l’America quel 22 novembre? No. Per Ronnie anche John Kennedy fece i suoi errori, ma quel giorno fu doloroso per tutti, americani e non. Dove viveva allora si fermò tutto e sentiva come “se le gambe si fossero paralizzate”.
E la musica? Non va mai fuori moda. Ormai sono finiti i tempi della tutela della grandi case discografiche. I dischi si vendono durante i concerti in Italia come negli Stati Uniti. Mannaggia, il sorbetto lo mangiucchio da solo. Ronnie Jones è già sul palco. Si spengono le luci. Dal buio il primo sussurro della sua voce. Sono al Memo music club a Milano, ma mi sento a New York.
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