Altro che traditore del populismo borbonico, l’altra faccia dello stivale dove sono cresciuto! Chi vuole osservare e capire deve muovere il culo una volta e per sempre. L’ho fatto senza dare troppo nell’occhio, sperando che i valvassori del Senatùr non bloccassero il mio treno Espresso prima di passare il Po.
Sbarcato nella landa del Sole delle Alpi, mi sono spostato da città a paesotti, dalle colline alla campagna per vedere se il cervello e il pensiero si imboscassero nell’ano della pseudo-civiltà. La stessa che voleva discendere dai Longobardi e che, a spasso coi tempi, aveva intossicato il senso della storia, sputando negli occhi dei poveri cristi che avevano fatto dell’Italia una terra di sognatori dalle Alpi fino a Canicattì.
Pure una penna, piena di inchiostro da terrùn, poteva finire sull’ambaradan del Carroccio. “Terrùn, vieni a scrivere da noi!”, mi dissero. E io col cavolo che davo a zio Peppino lo choc di leggere la mia firma sulla Padania o traviare la povera zia Concetta: come avrebbe fatto costei a rinunciare a Radio Maria per il sound pacchiano di Radio Padania? Prima che arrivasse il trota, erano i bei tempi delle sceneggiate padane, inscenate lungo la laguna di Venezia, tra fasti e festini a furor di popolo, mentre i giovani rampanti tappezzavano sui muri “Roma ladrona!” e recitavano a memoria i dieci comandamenti del federalista-indipendentista-settentrionale.
Mi facevano sorridere quando mi chiamavano terrùn. Adesso stiamo pace. Rideranno anche loro quando li chiamerò Ladrùn, con quell’accento languido che non farà più della Padania il fortino del populismo leghista?
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