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Don Peppino Gambardella, il prete di frontiera che si fece “operaio”

Abbiamo perso di vista i sacerdoti di frontiera, coloro che sanno togliersi la tonaca al momento giusto e dar voce a chi l’ha persa. In uno dei miei recenti viaggi, ne ho ritrovato uno. Il volto di don Peppino Gambardella era a me noto e non perché fosse finito alla ribalta per aver digiunato a favore degli operai della Fiat di Pomigliano D’Arco. In un certo senso aveva sfiorato per pochi istanti la mia adolescenza, quando a quel tempo incantava gli allievi con le sue lezioni di filosofia.
Gambardella non è il noioso predicatore che si compiace dei sermoni, è uno pratico, è uno che nelle omelie domenicali ci infila Dostoevskij perché  “la bellezza salverà il mondo”. Mentre i fatti di cronaca degli ultimi anni hanno raccontato il sacerdozio come prigione della perdizione, la bellezza di uomini come don Peppino Gambardella ne rispolvera la missione sociale. Questo prete del Sud, profondamente radicato nel suo territorio, ha restituito alla città di Pomigliano d’Arco, alla periferia di Napoli, l’identità rinnegata di culla degli operai.
Il canzoniere folk degli Zezi ci raccontava che erano stati loro a tenerla in piedi. In tanti lo avevano dimenticato, mentre “il paesotto” che ospitava Fiat e Alitalia viveva tra la fine degli anni ’70 e una parte degli anni ‘90 il suo rampantismo: come dimenicare i condomini radical-chic di piazza Primavera; i tuffi in piscina al Parco Fanfani; i raduni musicali estivi abitati dagli pseudo-intellettuali che la volevano roccaforte del jazz; la middle-class che si addolciva con i pasticcini di Antignani;  le passeggiate della gioventù alla ricerca di capi firmati tra le vetrine pacchiane del centro; lo struscio “goffo” nella nuova villa cittadina, che si vantava di essere l’Hyde Park della zona vesuviana.  E prima che finisse il regno del Bassolinismo a Napoli, si era già spento il “Pomigliano dream”. Erano stati messi nel sacco da un bel pezzo i trasformisti che la volevano alla pari di un quartiere blasonato di Napoli, senza tener conto che la provincia è condannata a rimanere provincia, con le sue contraddizioni, il falso moralismo, l’ipocrita apparenza.
Don Peppino Gambardella ha riscattato la sua comunità da questa visione distorta, restituendo nel gesto di quel “digiuno” l’ultima speranza, nonostante il quesito resti lo stesso: “La classe operaia andrà in Paradiso?”.
E la speranza è anche nei ragazzi che animano la parrocchia di San Felice in Picis, figli della semplicità di don Peppino, che già nei primi passi del suo sacerdozio indicava inconsapevolmente la strada per diventare angeli, prima che Lucio Dalla lo mettesse nero su bianco in una vecchia canzone:  “Se io fossi un angelo, non starei nelle processioni, nelle scatole dei presepi”.

La Fiat di Pomigliano, la classe operaia non va in Paradiso

Pomigliano vota e Torino risponde. Va ancora avanti il tira e molla sulle sorti dello stabilimento Fiat. Non ci voleva il pugno di ferro dell’Imperatore Marchionne per ribadire l’amara massima che un cinefilo può rubare dalla filmografia di Elio Petri: “La classe operaia non va in Paradiso”. Tramontata l’illusione operaia del rampantismo degli anni ’80, ora ci sono i figli di quella categoria a pagare le colpe degli assenteisti e degli sfaticati, di coloro che abusavano del fasullo benessere di allora. Si davano ammalati, svolgevano la seconda attività in nero per arrotondare e nei fine settimana fuggivano in Calabria, a Scalea, dove avevano realizzato il sogno del “borghese piccolo piccolo”: avere la casa a mare. In spiaggia, spaparanzati al sole, speravano di annientare la tortura della catena di montaggio, ascoltando i figli cantare in coro “Sei forte, papà”, come se la stupidotta canzoncina di Morandi del ’76 potesse lenire il dolore, la fatica. Per un beffardo gioco degli dei, i figli di quella classe operaia sono condannati a pagare il ricatto della globalizzazione. Pomigliano d’Arco, da piccolo paesotto di provincia che era, a partire dal 1972 ha vissuto l’illusione ottica di diventare un piccolo centro metropolitano, come se poi quel mucchietto di dirigenti torinesi sbarcati allo stabilimento Gianbattista Vico avesse avuto la bacchetta magica per darle le sembianze di una piccola colonia nordista.
Tra la fine degli anni di Piombo e la prima metà degli anni ottanta Pomigliano d’Arco è stata aggredita dal boom edilizio che ha fatto balzare alle stelle i prezzi degli immobili, dallo snobbismo della jeunesse locale che aveva trasformato un trafficato incrocio nel punto di ritrovo, dal via vai del laboratorio pasticceria Antignani che addolciva le festicciole casarecce della middle-class. E tutti si sono illusi che ad incrementare l’attività commerciale delle vetrine pacchiane del centro, pardon radical-chic, fossero i businessmen dei piani alti. Non era così, erano gli operai  e le loro famiglie a far girare l’economia locale. Ce ne siamo accorti accorti sì o no? 
I Sindacati sono spariti. Nella belle époque degli sprechi facevano finta di non vedere, oggi parlano “il politichese” perchè poggiare il culetto su uno scranno in Parlamento è più salottiero.  Nelle sorti di questo stabilimento c’è in gioco il destino di un’intera comunità e il compromesso non può superare la logica della dignità.