Diario di viaggio: La foiba di Basovizza e la ferita aperta di Trieste

Rosario PipoloTrieste mi appartiene. C’è il riverbero di Joyce degli anni del mio “studio matto e disperatissimo” dell’Ulisse; è crocevia di culture; è culla di storia che fa di ogni impronta etnica il cumulo del sogno futuro di ciascuna comunità. Trieste custodisce la memoria con riservatezza, senza troppo rumore, senza civetterie.

La mia estate comincia sul carso triestino, alla foiba di Basovizza. Qui il tempo sembra essersi fermato. E’ più di un presagio questo stadio di sospensione. E’ come se la storia ci volesse sculacciare per aver fatto finta di niente; per essercene disinterassati sui banchi di scuola; per non aver provato sdegno quando ci siamo accorti che in tanti in Italia non sapevano che una foiba fosse la fossa aratra di un campo di concentramento.

Dopo le mie tappe ad Auschwitz e Redipuglia, eccomi a Basovizza: il silenzio urla a voce alta disperazione. Disperazione per aver coperto i partigiani jugoslavi – complici furono gli stessi anglo-americani quando era necessario avere come alleato “il compagno Tito” – che trucidarono in questo inghiottitoio migliaia e migliaia di italiani.

La storia non si studia solo sui manuali tra i banchi di scuola. La storia si affronta di petto, perchè gli eccidi appartengono a nazisti, fascisti e comunisti. Complice e criminale è stata quella classe politica italiana che sapeva ed ha mentito alla propria coscienza.
Il riconoscimento della foiba di Basovizza come monumento nazionale da parte del nostro Presidente della Repubblica – accadde nell’anno della mia maturità classica – non smuove il fango della vergogna con cui è fatto il mantello della nostra Prima Repubblica.

C’è un’odiosa classe politica italiana frequentatrice di salotti e figlia  di quella generazione che strizzò l’occhio al compagno Tito. Questa è una disfatta morale, prima che politica. La mia estate comincia qui alla foiba di Basovizza, mentre si squarcia la commiserazione della memoria collettiva.