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Diario di viaggio: 130 persone ritrovano “l’Italia bella” nella notte magica sul fiume Chiese

Bisogna spingersi oltre i selfie biodegrabili per ritrovare i sogni e le utopie in una notte di mezza estate. E non sono di certo le cartoline da catalogo che palleggiano da una bacheca all’altra di Facebook; non sono di certo i noiosi splash che illudono tanti di avere la stazza da viaggiatore.

Ci sono luoghi segreti che vanno riscoperti nell’ottica del vagabondaggio che fa dei nostri territori il pozzo dell’anima di ciò che eravamo, come l’Italia in bianco e nero di matrice contadina che impugnava la socialità.
Possiamo fare a meno dei gruppi Facebook si sono detti ad Acquafredda, il paesino sulla striscia di frontiera tra le province di Brescia e di Mantova, affinché una serata in compagnia di pochi amici diventasse nel raggio di un decennio una notte magica di mezza estate sul fiume Chiese con 130 persone: la parola d’ordine è rispetto per l’Ambiente, perché ognuno può fare del suo senza arzigogolare.

Piatti e stoviglie portate da casa, niente plastica; prodotti culinari a chilometro zero; un trattore trasformato in un palco per un chitarrista ed un armonicista; tutto il resto ce lo mette il plenilunio, quello cercato dai barcaioli mantovani nelle notti sul Mincio, e un gruppo di testardi volontari capace di creare un set dal sapore felliniano attraverso il passaparola, che per l’ennesima volta ha smosso tanti a condividere questo banchetto.

Mi sembra di essere tornato in Patagonia, quando osservavo gli argentini sul lago di Neuquén alle prese con la voglia di stare assieme e non di certo assuefatti dalla grande abbuffata di una serata di mezza estate. Possibile che piazzare una tenda accanto ad un fiume, lasciare musica fino a notte fonda, conoscere belle persone, sorseggiare un bicchiere di vino, riesca ancora a materializzare sogni e utopie?
Sì, perché come ci ricorda Giorgio Gaber “senza utopia c’è la morte”.

Ovunque continueranno a riunirsi uomini e donne nel comune segno denominatore del non arrendersi ai ricatti dell’omologazione che vorrebbero stemperare le nostre radici, ci saranno sempre zolle di terra dove qualcosa cambierà in meglio.

Provate ad andare di notte lungo la sponda del fiume Chiese e ascolterete l’evaporazione di questi versi di Giovanni Caproni.

 

L’amore finisce dove finisce l’erba
e l’acqua muore. Dove
sparendo la foresta
e l’aria verde, chi resta
sospira nel sempre più vasto
paese guasto: Come
potrebbe tornare a essere bella,
scomparso l’uomo, la terra.

L’ergastolo per Piazza della Loggia con le coscienze in ammollo


Quelli della mia generazione, che si muovevano a carponi nel giorno della strage di Piazza della Loggia a Brescia, sono cresciuti aspettando questa sentenza. Pensavano che l’esito della tragica vicenda del 28 maggio 1974 si chiudesse una volta e per tutte nel raggio del maledetto decennio di piombo.

No, la mia generazione è cresciuta con il fiato sospeso, ha visto i tentennamenti della giustizia, ha mandato giù i bocconi amari della Prima Repubblica complice dello stragismo, si è riconosciuta allo specchio con i capelli brizzolati.
Oggi, nel 21 giugno che ci restituisce l’agognata estate, ci risvegliamo con una sentenza in mano arrivata troppo tardi: ergastolo confermato dalla Cassazione per Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, i due neofascisti artificieri di uno dei momenti più bui e tormentati della storia della Repubblica italiana.

I due condannati, il primo ultra sessantenne e il secondo ottantenne, sono riusciti a fare un lungo zigzag per scampare una vita dietro le sbarre. Lasciamo in ammollo le nostre coscienze con questo ritardo cronico della Giustizia italiana, incapace di far luce sulle ombre che hanno disegnato la geografia stragista in Italia: Brescia come Bologna, Ustica, piazza Fontana a Milano.

A Maggi e Tramonte, prima o poi, sarà riconosciuto “il diritto alla salute per avvicinarsi ad una morte dignitosa”; ai complici e protettori degli ultimi quarant’anni è stato concesso il diritto di svignarsela; ai parenti delle vittime di piazza della Loggia di continuare a sprofondare in un dolore, in una mortificazione della dignità umana che non passerà perchè nessuno meritava di vivere in uno Stato che fece finta di non vedere.

Mi sentivo bresciano con i cornetti di “Frank” alla Mandolossa

Rosario PipoloI veri viaggiatori esplorano anche le periferie. Così una notte di tanti anni fa mio cugino mi fece scoprire un posticino fuori dal centro di Brescia dove poter mangiare cornetti, brioche e pizzette  a tutte le ore della notte.
Il gestore Francesco Seramondi, l’uomo freddato da due killer insieme alla moglie ieri mattina nella famosa cornetteria e pizzetteria della Mandolossa al numero 27 di via Vallecamonica, era conosciuto da tutti come “Frank”.

Lì, in mezzo al degrado della periferia bresciana, era Frank il “Re della Notte” e per i ragazzi era un punto di riferimento come il mitico locale Arnold nella serie televisiva Happy Days. La prima volta che ci capitai, Frank capì subito che ero originario del Sud. Attaccai bottone.
Mentre mi rimpinzavo di cornetti e pizzette in piena notte, il gestore esprimeva la simpatia per noi napoletani. Amava ripetere che avevamo una marcia in più e rideva ripensando ai cartelli sparsi sul territorio che, nella metà degli anni ’80, recitavano sgarbatamente: “Non si affittano case ai napoletani”. Prima che andassi via, lanciò un paio di monete nella macchinetta e disse: “Il caffè tocca a me”.

Da allora tutte le volte che ero in zona e a stomaco vuoto, chiedevo a mio cugino di portarmi da Frank. Quando Seramondi scoprì che ero un giornalista, tirò fuori una raccolta di ritagli di giornale dedicati a lui e alle sue ghiottonerie. Ne andava fiero.
Con una punta di ironia diceva che le sue brioche piacevano a tutti, anche “alle battone”. Una volta, dovendo prendere l’aereo all’aba da Orio al Serio, mi regalò un paio di brioche calde da portare in viaggio.

Frank era generoso, a chi aveva fame e tasche vuote non negava mai un cornetto e una pizzetta. Francesco Seramondi sapeva che prima o poi gli avrei dedicato un articolo, ma io non avrei mai immaginato di doverlo fare in questa triste e tragica circostanza. Adesso chi lo dice ai bresciani al ritorno dalle vacanze che il vecchio Frank, il re dei cornetti di Brescia e provincia, non c’è più?

Oggi anche io ho il diritto e il dovere di urlare #MéSoFrank, l’hashtag a lui dedicato dal popolo dei social network che chiede una Brescia più sicura.

In viaggio verso la culla di Noemi

Rosario PipoloChissà se mi basteranno cento chilometri e passa di trenini locali per scriverti un biglietto d’auguri, forse uno dei primi che riceverai per essere venuta a questo mondo. Sì, proprio i treni, quelli a forma di buffi millepiedi che fanno ciuff ciuff.
E se non mi basteranno ne percorrerò altri come accade sulla strada della vita: Noemi, è lunga e faticosa ma ne vale la pena in ogni istante.

Noemi, la prima volta in fuga dalla culla sarà per scoprire a carponi quanto sia meraviglioso spostarsi, perché la condanna di restare immobili spetta ai vigliacchi. Noemi, muoverai i primi passi e non avrai paura di cadere perché, voltandoti indietro, troverai l’amore di mamma e papà a sorreggerti.

Noemi, la prima volta oltre la ringhiera del balcone,  sarà per  guardarti intorno nel cortile, sentire le carezze delle tue affettuose nonne, apprezzare il tuo vicino di casa che rinuncia al sabato e domenica ad Acquafredda per andare a protestare in piazza nella Capitale, sventolando una bandiera colorata: devi sapere che in questo mondo ci sono persone invisibili che lottano per un mondo più umano, più giusto.

Noemi, la prima volta in montagna sarà per raccogliere il muschio per il presepe insieme al tuo papà, come faceva lui da bimbo con tuo nonno carabiniere in Valmalenco.  E poi verrà Natale e non ci vorrà molto per capire che il colore della pelle del Bambinello non è né bianco né nero ma riflette la ricchezza della diversità dell’umanità.

Noemi, la prima volta su un piccolo triciclo sarà per guardare il paesaggio montavano dal confine della bassa Bresciana. I confini territoriali non esistono, li abbiamo creati noi umani per farci stupide guerre.

Noemi, la prima volta in bicicletta sarà per scappare dalle meschinità e dalle ipocrisie della provincia, dai pregiudizi  delle tribù, dalle palafitte delle comunità, dopo che ti sarai fatta beffa dello struscio domenicale, del passamani nell’acquasantiera, dei soliti sermoni che dagli altari ti vorrebbero in lista d’attesa per il Paradiso. Il paradiso può attendere, dobbiamo prima impegnarci ogni giorno a farlo nel nostro piccolo, qui su questa terra.

Noemi, la prima volta che urlerai “Dio, perché mi hai abbandonata?” sentirai invece che ti sta portando in braccio. I solchi che vedrai sulla terra sotto i tuoi piedi non saranno stati arati dai contadini della bassa bresciana ma dai passi del Padreterno, che ogni notte accenderà le stelle in cielo per darti la buonanotte.

Noemi, la prima volta che lui ti sussurrerà “ti amo” sarà “su quel ramo del lago” in cui si riflette Lecco. Lì, ai piedi di un grande albero, lui ti reciterà un passo dei “Promessi Sposi” e custodirete così la promessa del vostro amore. Prima del calar del sole, ti inviterà a danzare un lento sulle note dello sciacquettio lacustre.

Noemi, la mia “prima” volta di un lungo viaggio in treno verso una culla è stato per te. Avrei voluto cantarti una ninna nanna ma sono stonato. E sai perché stono?
Perché ho steso a modo mio la vita in un lungo viaggio fatto di esperienze; faccio famiglia con chi incontro sulla via; mi lascio alle spalle gli amici traditori; osservo la quotidianità attraverso gli occhi del cinema, parlo con le parole dei romanzi, ascolto con l’udito della musica, sogno dentro e fuori i sogni.

Buona vita, Noemi. Ti lascio questo biglietto d’auguri dentro la culla. Lo troverai un giorno e ti ricorderai di me, il primo vagabondo sul tuo cammino.

Italia-Germania 30 anni dopo: Mario Balotelli e il riscatto dell’Africa nella vittoria azzurra

La partita Italia-Germania di ieri sera sarà ricordata come il match del riscatto: da una parte la generazione over 40 che voleva l’attacco nostalgico dei Mondiali di Spagna dell’82; dall’altra la generazione degli over 20, pronta a dare una bella lezione alla Germania della Merkel, che tiene in pugno l’amaro destino della nostra economia.

Eppure il vero riscatto sta nei due goal di Mario Balotelli, l’italiano adottato, figlio di immigrati ghanesi. Trent’anni fa il nazionalismo del Belpaese era tutto lì, nei tiri di Paolo Rossi. Oggi nel 2012 tra le fila della nostra Nazionale c’è un ragazzotto della pelle nera, che è un italiano vero.
Qualche anno fa, in un giro notturno a Brescia, mi ritrovai in mezzo ad una comunità di giovani ghanesi. Pensavo tra me e me agli scherzi bizzarri che fa la storia: una delle città più razziste nei confronti dei meridionali era completamente abitata dagli stranieri. Del resto, basta poco per vomitare la nostra anima razzista, fare di tutta un’erba un fascio.

L’abbraccio di Mario alla mamma Silvia, dopo il passaggio degli azzurri alla finale degli Europei 2012, fotografa una paginetta da romanzo d’appendice, che avrebbe fatto gola a Charles Dickens e agli scrittori vittoriani simili: il bimbo africano abbandonato in un ospedale e affidato ad una coppia di italiani che lo alleva, lo circonda d’amore e gli ricorda che nella vita basta restare se stessi per essere campioni.

Sono tornate tutta una serie di coincidenze, proprio lì nella Varsavia – una delle capitali europee che hanno segnato i miei vagabondaggi – che affila la lama nel laccio che unisce l’Europa dell’Est a quella dell’Ovest. Nell’ultimo giovedì di giugno, in quello stadio, il Belpaese ha ritrovato la sua anima di paese meticcio, riconoscendo all’Africa, che scorre nel sangue di Mario Balotelli, tutto il merito di questa vittoria. E sarebbe bello che a Brescia, ad aspettare Super Mario, si ritrovassero in festa abbracciati bresciani e ghanesi: saremmo tutti più italiani.

  Orgoglio d’Italia

Sabato di merda: L’addio a Morosini dall’Italia che sputa su Piazza della Loggia

L’Italia è ammutolita, tifosi e non, per la scomparsa in campo di Piermario Morosini. La morte del centrocampista venticinquenne del Livorno sabato a Pescara ha fatto il giro dei social in fretta e furia e su alcune bacheche di Facebook in molti si chiedevano: “Si può morire alla sua età faccia a faccia con un pallone?”.

Dall’altra parte della barricata era già bella e pronta la ramanzina. La prevenzione ha motivo di esistere quando si tratta di un arresto cardiaco? Mettendo da parte l’intralcio dell’auto dei vigili urbani, è legittimo un dubbio. All’interno di una macchina da guerra, pardon “da business”, come il calcio, quanto impegno spendiamo nel nostro Paese per tutelare la salute dei calciatori? Le malelingue risponderebbero che, con tutti i quattrini in tasca, i giocatori potrebbero permettersi il lusso di avere mezza clinica mobile ad personam.
Ci chiediamo se gli stadi siano davvero attrezzati come dovrebbero – senza distinzione di serie A o B – e quali siano in realtà gli investimenti in tal senso. Purtroppo viviamo in un paese in cui si agisce quando scatta l’allarme e può scapparci il morto. Senza mettere in conto l’adeguata formazione che manca ai soccorritori, in difficoltà al momento dell’insorgenza della criticità.

Tuttavia, nei tanti minuti di silenzio dedicati a Morosini lungo tutto lo stivale, ci siamo dimenticati delle vittime dell’attentato a piazza della Loggia a Brescia, i cui assassini l’hanno fatta franca una volta e per sempre. Quei morti, accartocciati nella memoria sbiadita degli Anni di Piombo, hanno subìto gli sputi dell’Italia assassina, quella ammantata nella stessa nonchalance di chi non avrebbe voluto sospendere il campionato, perchè dopotutto i calciatori devono essere macchine da guerra. E’ stato un sabato di merda, perchè siamo stati incapaci di unire un lutto sportivo a quello della nostra memoria civile.

Diario d’Estate: 4000 chilometri in treno su e giù per la Lombardia

Dopo aver percorso migliaia di chilometri in giro per l’Europa, mi sono detto perché non farlo in Lombardia? Sì, proprio nella regione in cui vivo da quasi 10 anni. L’opportunità me l’ha offerta Trenord, in occasione del battesimo della nuova società del trasporto pubblico locale su ferro. Due mesi fa sono stati distribuiti biglietti promo per viaggiare gratis in treno il sabato e la domenica in tutta la regione. Me ne sono procurati abbastanza per costruirmi nei fine settimana, dal 29 maggio al 31 luglio, tanti mini itinerari, che mi guidassero a scoprire i mille volti di questo territorio. A fare da colonna sonora, durante gli spostamenti, c’erano le canzoni di Davide Van de Sfrooss, che in quel poetico dialetto comasco hanno incorniciato emozioni sparse qui e lì.
Questi 4000 chilometri e passa sono stati affrontati con lo spirito del vagabondo che utilizza il treno per riappropriarsi della vera identità del viaggio: quella che si sbottona, lasciando perdere “la sindrome dei chilometri”. Mi spiegate il senso di affacciarsi a Sharm o a New York, senza aver spalancato la finestra nei luoghi che ci circondano? Magari quelli che viviamo distrattamente, di passaggio, rinunciando “al tempo del viaggio”, che non è quello del turista “con la panza al sole”. E’ quello “slow”, il vagabondaggio spensierato alla scoperta dell’invisibile. Nel mio immaginario il treno è da sempre il mezzo di trasporto per acciuffare i dettagli dei luoghi. Penso alle linee secondarie della Lombardia, a quei trenini locali che si fermavano in ogni stazione, dilatando persino gli spazi delle piccole distanze e diluendo la frenesia di viaggiare ad alta velocità. Il sussulto per la scoperta non era soltanto nella meta scelta – dalle vette della Valcamonica e della Valtellina alle coste degli splendidi laghi; da città d’arte come Mantova a paesotti pittoreschi come Chiavenna – ma nel viaggio in treno, negli incontri casuali: Antonio, capostazione in pensione, che mi ha raccontato di quando è finito su un set di un film con Claudia Cardinale, negli anni dell’Italietta in bianco e nero del boom economico; il signore che mi ha regalato una lezione culinaria sui pizzoccheri valtellinesi; Lilia, Paolo e i loro genitori, raccolti nello spirito di un bellissimo focolare familiare; Marco, il ragazzino sulla sedia a rotelle, che sognava di fare il pilota; il giovane algerino che aveva lasciato nella sua terra natia il sogno di potersi realizzare in patria; Tamara, la chiavennasca riccioluta, nel cui sguardo si intravedeva la semplicità delle sue valli; il capotreno veneto, sposata con un casertano, che con tono appassionato mi ha trasmesso l’entusiasmo per un lavoro che negli ultimi anni coinvolge sempre più donne. Con loro e con tanti altri ho condiviso questi spostamenti perchè dopotutto sono stati luoghi e persone, vissute da un treno, a suggerirmi nuove storie, quelle di “casa mia”. Storie che forse non si incroceranno mai, proprio come i binari del treno, che da bambino mi fecero sognare di guardare oltre i luoghi dove stavo crescendo.

Periodo: 29/05 – 31/07/2011
Chilometri in treno: 4.300
Giorni effettivi in viaggio: 15
Linee ferroviare percorse: Milano-Verona; Milano-Mantova; Milano-Piacenza; Milano-Varese; Milano-Luino; Milano-Chiasso; Milano-Tirano; Milano-Bergamo; Bergamo-Brescia; Brescia-Edolo; Cremona-Brescia; Milano-Pavia; Milano-Mortara.
Destinazioni: Rovato, Ospitaletto, Brescia, Desenzano del Garda, Peschiera del Garda, Iseo, Marone, Pisogne, Boario Terme, Edolo, Sondrio, Tirano, Chiavenna, Morbegno, Colico, Varenna-Esino, Lecco, Lodi, Codogno, Mantova, Cremona, Pavia, Vigevano, Luino, Laveno, Varese.
Con la  bicicletta (biglietto extra 24h €3): Mantova (bis), Cremona (bis), Piacenza, Chiasso (CH), Como, Bergamo, Brescia (bis), Desenzano del Garda (bis).

Diario di viaggio: ‘A canzuncella

Sarà stato quel mezzo di litro di birra o la sposa scalza nello stesso locale a far parlare la bresciana: “E pensare che ero anche io ad un passo dall’altare. Poi è arrivato lui ed è andata come è andata”. Lui, il mantovano dal cuore terrone, sempre lì con la battuta a portata di mano, ammutolisce e improvvisamente diventa serio: “Sì, ma se proprio dobbiamo dirla tutta… Appena due persone si piacciono, cominciano inspiegabilmente a cercarsi  a vicenda. Guardandosi negli occhi, riscoprono il fondo dell’anima”. Lui aveva mollato la ragazza, lei il promesso sposo, lasciandosi alle spalle la paura di finire stemperati nella sceneggiatura di una delle tante commediole all’italiane del nostro cinema.
La bresciana ha un temperamento apparentemente algido; il mantovano ha quello spirito da giullare capace di mandare tutto in frantumi, comprese le ultime certezze della vita. “Una sera eravamo assieme ai nostri rispettivi partner in mezzo a tanta gente” – replica lei – “La complicità dei nostri sguardi raccontava tutt’altro. Era come se ci conoscessimo da sempre, come se in un’altra vita avessimo condiviso la storia d’amore più bella”. Temevo che tali parole fossero fantasticherie bizzarre dell’immaginazione,  invece no. L’ho capito appena Elisa e Matteo si sono presi per mano e sono scomparsi nel buio.
Io sono rimasto lì, in aperta campagna, ai confini tra la provincia di Brescia e quella di Mantova. Mi è balzato in mente un motivetto, quello che il mantovano le avrebbe dovuto cantare se questa storia avesse avuto un finale diverso. E mi sono ricordato di un sabato mattina a casa del mio caro amico, il maestro e figlio d’arte Antonio Annona, che mi chiese di tradurre in francese ‘A canzuncella degli Alunni del Sole. Antonio aveva un progetto, ma poi non se ne fece più niente. Quella traduzione è rimasta nel cassetto, ma io in piena notte, in una terra che non mi apparteneva, ho sussurrato al vento quelle parole: “Si ‘nnammurate ‘e me ma sienteme, nun ce pensa’, E torna ‘n’ata vota addu chillu llà”. Ero scalzo e, naufragando nel mio napoletano, sono tornato a sentire la terra sotto i miei piedi.

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Diario di viaggio: al volante alla ricerca dell’invisibile

I viaggi alla ricerca dell’invisibile iniziano di buon’ora, al volante, senza programmi, svuotando la clessidra del tempo dalla sabbia della velocità per cogliere i piccoli istanti. Al casello dell’autostrada c’è Antonio che mi restituisce il resto del pedaggio ed esclama: “Ho lasciato la periferia di Napoli venti anni fa. Ormai in Lombardia ci sono sempre più pugliesi, calabresi e campani”. La strada è lunga, i chilometri saranno forse quasi 400, per girare in lungo e largo tutta la regione in tanti mini itinerari nelle province di Lodi, Cremona, Mantova, Brescia e Bergamo. Nel lodigiano il paesaggio è così vero e meraviglioso da nascondersi in un dipinto di Mario Mori. Nella sua bottega si vive l’essenza dell’arte, quella che non nasce tra le braccia degli snobismi intellettuali, ma in un laboratorio che fa della vita un’opera d’arte.
Ed è proprio sulle tracce di questa filosofia che mi riscopro in aperta campagna, in una cascina costruita prima dell’Unità d’Italia, in compagnia di Barbara e Alberto. Lì si erge l’albero di Irma, che quella mattina disse: “Così tutte le volte che lo guarderai ti ricorderai di tua nonna”. Barbara ti lascia addosso l’entusiasmo e la passione della vita in ogni gesto, lui le tiene stretta la mano come per dire: “Che fortuna averti incontrata, amore mio”. Alberto ha scoperto le carte e mi ha confessato il suo sogno fuori dal cassetto: cantare. Nel pomeriggio finisco ad assistere alla lezione di canto, mentre Alberto prova “Meraviglioso” per l’orgoglio della sua insegnante. Ed è proprio sulle note della canzone di Mimmo Modugno che prosegue il mio viaggio, tra strade e stradine del cremonese, i contadini che finiscono di zappare al calar del sole, quattro ragazzacci che fanno i monelli sul marciapiede di un paesotto.
Sul ciglio della provinciale, a pochi chilometri da Ghedi nel bresciano, sono sbocciate spontaneamente delle margherite selvagge: mi fermo in silenzio e ripenso al ritaglio di quel giornale, al volto di una donna che in sella ad una motocicletta è fuggita improvvisamente da questa vita. Il sole è andato a nanna e, ai confini con la provincia di Mantova, mi aspetta una buona pizza fatta in casa, un bicchiere di vino e tante chiacchiere che avvolgono una notte che sembra estiva, che si lascia andare nelle divagazioni del “dì di festa”: le campane di una chiesetta, il mormorio di una piazzetta e la passione sfrenata di Matteo per i polizieschi degli anni ’70, Jerry Calà e la mitica Alfetta, tanto che i suoi cani sono stati battezzati “Alfa” e “Romeo”. Lui, il mantovano dal cuore “terrone”, sa di essere di buona compagnia perché non ha perso di vista il segreto che agevola l’invisibile: la semplicità.
La domenica si muove a passi veloci e ci sono ancora strade da fare, quelle alternative alla monotona e trafficata autostrada, mentre il bergamasco trattiene il fiato di fronte alla quiete della sera. Accendo i fari e sopra di me c’è un manto di stelle: provo a contarle, forse sono un milione. Io non ci riesco, ma ne è capace Luisa, che è affacciata al davanzale della finestra a 800 chilometri di distanza da me. Mi sembra di vedere i suoi occhi, nascosti dentro un paio d’occhiali, attraverso lo specchietto retrovisore. Lei le ha contate ad una ad una perché è in quella galassia sterminata che finiscono “gli angeli caduti in volo”. Perciò le sue lacrime si sono sciolte in un sottile sollievo, perciò la nostra condivisione del dolore ci ha restituito “l’invisibile”.
Allora ripenso alle parole di Mario Mori, “Vediamo ciò che siamo dentro”, e prima che arrivi quel “maledetto” lunedì, capisco che a volte non siamo noi a viaggiare, ma sono i viaggi che ci fanno mutare posizione, lasciando da parte la strabica routine per sostare ad un passo dall’invisibile.

Vengo via con te: Caro Luca, nella tua culla la nostra Calabria

Lunedì sera la televisione ci ha fatto dono di un altro bagliore di levatura culturale. Roberto Saviano, nella seconda puntata di Vieni via con me, ha spiegato magnificamente agli italiani le malefatte della ‘Ndrangheta, che ha colonizzato pure la Lombardia. Quella  lezione mi ha fatto venir voglia di tornare sui banchi di scuola, ma anche di rovistare nei ricordi belli che mi uniscono alla Calabria.
Dopo aver spento il televisore, nella penombra muta del mio soggiorno, mi sei venuto in mente tu, caro Luca, piccino piccino nella tua culla. Avevo una gran voglia di coccolarti e di cantarti una ninna nanna, rannodando la mia memoria alla tua terra: quella volta su una Cinquecento rossa con mamma e papà verso Scalea alla fine degli anni ’70; le lunghe passeggiate con nonno Pasquale sulle spiagge di San Nicola Arcella; la salumiera logorroica di Schiavonea che mi conquistò tra coccole e caramelle; Franco Cutruzzulà, studente d’Ingegneria di Soverato, che mi faceva sbirciare tra i suoi progetti universitari;  i silenzi ad intermittenza rivolti al volto severo di S. Francesco da Paola; il senso di liberazione scorazzando in Sila; il faccino carino di Daniela, la bimba calabrese con cui condivisi un lecca-lecca, ma lei non si accorse che ero stracotto di lei.
Tutti questi scatti, messe in fila uno dietro l’altro, erano in netto contrasto con il racconto di Saviano, quello dell’altra Calabria, nascosta tra i bunker dell’Aspromonte; soggiogata dall’omertà; scoraggiata dal fatto che il male possa farla franca sul bene; narcotizzata da quello sconforto che ti fa associare la criminalità al potere.
Caro Luca, ha ragione lo scrittore di “Gomorra” a ribadire che “non si può asciugare l’acqua con l’acqua, non si può spegnere il fuoco con il fuoco, non si può vincere il male con il male”. Mi sono ricordato di quel pomeriggio sulla spiaggia di Scalea in cui un bimbo prepotente buttò giù il mio castello di sabbia. Lui si aspettava che io lo menassi. Guardandolo diritto negli occhi, replicai: “Perché lo hai fatto? Adesso dammi una mano a farne uno più bello. Lo costruiremo assieme”. Tonio chiamò gli altri amichetti e tutti assieme costruimmo una fortezza. Diventammo amici per la pelle e da qualche parte c’è ancora il disegnino che Tonio mi regalò prima che finisse la vacanza.
L’amore vuole amore. E tu Luca, sbucato dal pancione di mamma per un atto d’amore, sei la speranza della tua terra. Adesso è tempo di sognare, ma poi domani sarà tempo di fare bei castelli, assieme a tutti coloro che lottano per una Calabria diversa. Io continuo a sognare un’Italia migliore, anche dopo l’assoluzione vergognosa dei colpevoli della strage di piazza della Loggia a Brescia. La tua culla è la tana sicura dei miei sogni. Luca, ho deciso. Faccio le valige: vengo via con te!