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Regionali 2013: Al Pirellone the winner is Bobo. Chi, Craxi? No, Maroni!

Rosario PipoloLa fiaba “lumbard” ha un nuovo incipit: “Missione compiuta”. Bobo è il nuovo principe del Pirellone. “Bobo chi? Bobo Craxi?”, chiede un vecchio addetto alle pulizie del palazzo della Regione che, come in ogni fiaba che si rispetti, si era addormentato tra vecchie scartoffie per oltre vent’anni. No, Bobo Maroni, la faccia della nuova Lega che ha mandato a casa il vecchio Carroccio del Senateur e del Trota. Nonostante l’emorragia di voti a livello nazionale e regionale, la Lega si tiene stretta la Lombardia e Roberto Maroni si sveglia Presidente della Regione.

Gli elettori lombardi lo hanno preferito al principe poetico e sognatore Ambrosoli e hanno sbattuto la porta in faccia pure al vecchio sindaco Gabriele Albertini, che vedrà il Pirellone soltanto in una cartolina in bianco e nero della vecchia Milano. Rispetto al Lazio, la Lombardia va controvento. Nonostante gli scandali che avevano travolto il Pirellone, l’elettorato medio padano continua a veleggiare nella stessa direzione politica e non scatena nessuno tsunami come è accaduto con Zingaretti a Roma.
Anzi, Roberto Maroni può vantare anche un successo personale. Una lista civica tutta per lui che si è aggiudicata più del 10%, che si traduce in 11 seggi. Del resto perché dovremmo meravigliarci? Nella Sicilia di “Il Gattopardo” la Lega ha scippato 5000 voti non si sa a chi, segno ormai che, persino al di là dello stretto, il carroccio trova sempre un angolo per parcheggiare.

Bobo è il nuovo principe del Pirellone e lo sarà, almeno che non ci siano nuovi colpi di scena, nel fatidico 2015 in cui la Lombardia ospiterà il fantomatico Expo e il suo succulento bottino. Finita l’euforia del voto, bisogna preoccuparsi di governare e fare opposizione, senza dimenticare che anche chi sta dall’altra parte della barricata può darsi da fare per recuperare consensi.
E chissà che Umberto Riccardo Rinaldo Maria Ambrosoli non si svesta dei panni del “principe felice” in calzamaglia per diventare cavaliere agguerrito fuori dalla Tavola Rotonda.

  Io Terrùn? Tu Ladrùn…

La fine del Carroccio: Io Terrùn? Tu Ladrùn…

Mi facevano sorridere quando mi chiamavano terrùn con quell’accento stretto che faceva della Padania il fortino del populismo leghista. Mi sono trasferito da queste parti per uno scopo ben preciso: capire se i leghisti fossero fatti di pelle e ossa.
Altro che traditore del populismo borbonico, l’altra faccia dello stivale dove sono cresciuto! Chi vuole osservare e capire deve muovere il culo una volta e per sempre. L’ho fatto senza dare troppo nell’occhio, sperando che i valvassori del Senatùr non bloccassero il mio treno Espresso prima di passare il Po.

Sbarcato nella landa del Sole delle Alpi, mi sono spostato da città a paesotti, dalle colline alla campagna per vedere se il cervello e il pensiero si imboscassero nell’ano della pseudo-civiltà. La stessa che voleva discendere dai Longobardi e che, a spasso coi tempi, aveva intossicato il senso della storia, sputando negli occhi dei poveri cristi che avevano fatto dell’Italia una terra di sognatori dalle Alpi fino a Canicattì.

Pure una penna, piena di inchiostro da terrùn, poteva finire sull’ambaradan del Carroccio. “Terrùn, vieni a scrivere da noi!”, mi dissero. E io col cavolo che davo a zio Peppino lo choc di leggere la mia firma sulla Padania o traviare la povera zia Concetta: come avrebbe fatto costei a rinunciare a Radio Maria per il sound pacchiano di Radio Padania? Prima che arrivasse il trota, erano i bei tempi delle sceneggiate padane, inscenate lungo la laguna di Venezia, tra fasti e festini a furor di popolo, mentre i giovani rampanti tappezzavano sui muri “Roma ladrona!” e recitavano a memoria i dieci comandamenti del federalista-indipendentista-settentrionale.

Mi facevano sorridere quando mi chiamavano terrùn. Adesso stiamo pace. Rideranno anche loro quando li chiamerò Ladrùn, con quell’accento languido che non farà più della Padania il fortino del populismo leghista?