Il saluto di Milano a Lea Garofalo: “vedo, sento, parlo” non resti uno slogan

Rosario PipoloIl volto rugoso di Milano, invecchiato tra notti brave, cocktail e festicciole dei rampolli dell’industria padana, è ringiovanito attraverso la memoria di Lea Garofalo, la ribelle alla ‘Ndrangheta che fu ammazzata il 24 novembre 2009. Più di un ritaglio di cronaca o di una pagina strappata da un noir, la storia di Lea è quella di una donna calabrese che sceglie di stare dalla parte della giustizia, di donare alla figlia Denise un futuro diverso, di indossare l’impermeabile del testimone per porre fine all’omertà comune e uscire fuori da un’organizzazione malavitosa.

Il volto rugoso di Milano ha allievato il dolore delle sue cicatrici nel sabato mattina del funerale civile di Lea Garofalo. Un oceano di uomini, donne e bambini erano appostati lì per dare un segno concreto, riconoscere l’eroismo di chi ha detto no alle regole dei clan. Il dubbio però ci lascia un rabbioso tremolio: non facciamo abbastanza in Italia per proteggere e tutelare chi collabora con la giustizia. Chi volta le spalle ai clan mafiosi, prima o poi perisce perché resta isolato. Quanti sono quelli che in questo istante rischiano di fare la stessa fine di Lea?

“Vedo, sento, parlo” non può rimanere uno slogan destinato a sventolare su una delle tante bandiere, ma una presa di coscienza. Il gesto di Lea è il coraggio di essere donna in un territorio come la Lombardia che si affilia sempre di più al business losco dei clan. Il sorriso di Lea assomiglia a quello di tanti calabresi che, pur non avendo lasciato la loro terra, si danno da fare nel quotidiano e nel loro piccolo per graffiare la ‘Ndrangheta.

Dopo i giardini dedicati ad un’altra donna impavida e ribelle, la giornalista Anna Politkovskaya, Milano ha un altro angolo verde per dare nuova linfa alla memoria. Non abbiamo bisogno più di slogan e bandiere, ma di continuità. E questo è l’urlo di Lea Garofalo dai giardini di via Montello a Milano.