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Andrea Pazienza, fumetto rock alla Rino Gaetano

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Rosario PipoloCi sono troppi anniversari in giro, troppi compleanni mancati. Qualche volta fa moda, qualche altra volta è puro isterismo collettivo rinchiuso dietro il tanfo nostalgico. La domanda più odiosa resta questa: “Come sarebbe stato se avesse raggiunto la veneranda età di…”.

Andrea Pazienza, il fumettista cult che oggi l’Italia celebra, non li ha vissuti e festeggiati  i sessant’anni. Ne ha vissuti 32 e, per giunta così intensamenti, da lasciarci un riverbero solfeggiato tra la rabbia degli anni ’70, il riflusso del ripiego degli ann’ 80 spinta fino all’omologazione digitale del tempo odierno.

Nessun fumettista è stato così musicale come Paz: La sua matita disegna rock puro e le sue storie, i suoi personaggi, sono i versi delle canzoni di Rino Gaetano tradotti in nuvole parlanti. Ad unirli non è la morte sfacciata che se li è portati via troppo presto, né tantomeno il volto dell’attore Santamaria sia nel film Paz che nella fiction tv Ma il cielo è sempre più blu.

Il ricongiugimento di Andrea e Rino avviene lungo la sottile linea d’ombra di un’opera che non può essere catalogata, che sfugge all’archiviazione post-mortem, rinascendo accanto all’irrequietezza e sofferenza di ogni generazione, pronta a ritrovare nuove illuminazioni a seconda della prospettiva.

Oggi tutti scrivono e parlano di Pazienza, anche quelle penne che una volta erano ideologicamente sulla sponda opposta dei quotidiani che gli davano asilo, raccontando Paz e il suo mondo. Accade quando l’omologazione sottrae le parole di una canzone o i graffi di una matita dall’investitura di sciabola che difende utopie, rivendicazioni sociali.

Possiamo fare a meno di questa ricorrenza perché, come urlava il fumettista nato a San Benedetto del Tronto, “non bisogna mai tornare indietro, neanche per prendere la rincorsa”. Vi siete convinti che Rino Gaetano “non è figlio unico”? Ha un fratello gemello riconosciuto in Andrea Pazienza.
Le parole musicate di Rino ritagliano i contorni delle storie di Andrea; i disegni di Paz danno fisicità all’immaginazione del canzoniere di Gaetano.

“La verità è sempre nuda, basta questo per capire che razza di zoccola è”. Paz dixit.

Lino Toffolo, maschera goldoniana sciolta in una canzoncina

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Rosario Pipolo“Chi ha rubato la marmellata? Chi sarà? Ed un uovo di cioccolata? Chi sarà? E chi ha rotto la vetrata con un colpo di pallon? Chi ha scaldato la cassata con il fon?”.
Dietro la canzoncina di Johnny Bassotto, che ha gracchiato sul 45 giri della mia infanzia, c’è la maschera di Lino Toffolo. Maschera goldoniana in perenne evoluzione, l’attore veneziano aveva quella versatilità straripante che lo avrebbero dovuto incollare al palcoscenico della Laguna e farlo restare osservatore della realtà attraverso la giostra delle storie di Carlo Goldoni.

“Ma il bassotto poliziotto scoprirà la verità, il bassotto poliziotto scoprirà la verità. Che poliziotto Johnny bassotto con le manette arresta la tua fantasia; ti fa svegliare e confessare tutto quel che hai combinato”. La maschera galleggia tra i versi di una buffa canzoncina, una girandola nel piccolo schermo di fine anni ’70. Ci confonde senza farci notare che il sorriso sornione di Toffolo è la lama con cui il cabarettista guerreggia  contro l’ipocrita serietà della vita.

“Chi ha giocato in ascensore? Chi sarà? Chi ha legato al palloncino la cravatta di papà che ora vola sopra tutta la città, eh?”. Persino nei fotogrammi della pellicola antimilitarista Sturmtruppen, diretta da Samperi e tratta dal fumetto meraviglioso di Bonvi, Toffolo manipola la maschera d’argilla di un abile teatrante facendoci credere di essere un caratterista.

“Il bassotto poliziotto è il più in gamba che ci sia! il bassotto poliziotto è il più in gamba che ci sia!”. Persino una réclame – pardon oggi si dice spot pubblicitario – diventa con lo scanzonato Toffolo territorio artistico, senza essere con prepotenza la rincorsa verso uno scaffale del supermercato per un barattolo di marmellata.

Non esistono attori di serie A o serie B. Esistono attori, punto.

Il ferroviere Gianmaria Testa e le dimestichezze d’amor

Rosario Pipolo

Siamo diventati tutti balbuzienti quando si parla d’amore tra gli emoticon di WhatsApp e sfilate di chat accorciate dalla voglia di essere sgrammaticati per il timore di essere noi stessi. Ci vuole dimestichezza in amor come ha sussurrato Gianmaria Testa sugli accordi di una chitarra fischiettante.

Eravamo drogati dal furibondo tam tam quotidiano per accorgerci che un ex ferroviere, attraversando i binari degli acquerelli musicali di Paolo Conte sfumati nella ballata di Sergio Cammariere, ci aveva svelato il piccolo segreto: le dimestichezze d’amor sono andare oltre “la notte che si arrende”. E così lasciamo passare storie, legami, condivisioni, baci belli come la refurtiva di un tesoretto ritrovato in fondo al mare.

E’ come quando ti godi la tua estate on the road, lasciandoti dietro le carezze della borina di Trieste, pensando che quella sia la prima di tante altre. Invece no, è l’ultima estate insieme e la fine ti coglie di sorpresa come la morte che giunge senza convenevoli o preavvisi.

Ci vogliono le dimestichezze d’amor cantate da Gianmaria Testa perché, senza fare chiasso o inutile baldoria, tracciano lungo un filo di spago la vita e i sentimenti di noi gente semplice, gente comune, gente ordinaria che possiede una sola ricchezza: diluire la quotidianità in una canzone, spingerla nei suoi abissi, farla ritornare a galla e poi asciugarla al sole.

I francesi ci hanno invidiato Gianmaria Testa fin dal primo momento. Si erano accorti che le parole imbrigliate tra le corde della sua chitarra tenevano lontani i sentimenti dai fuochi pirotecnici del nostro tempo, in cui l’eternità si ammazza nel tempo di una stagione.

Ci vuole dimestichezza in amore. Il treno ha fischiato. Grazie, maestro.

Cartolina dai Campi Flegrei: Franco e i Pooh, 50 anni di vita e musica

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Rosario PipoloA Napoli porta bene se il tuo cinquantesimo compleanno coincide con quello della band musicale seguita da una vita. Mentre Roby Facchinetti, Dodi Battaglia, Red Canzian, Stefano D’Orazio e Riccardo Fogli si preparano ai festeggiamenti di mezzo secolo di Pooh, io ritrovo il fan napoletano che proprio oggi spegne cinquanta candeline.

Avevo conosciuto Franco ai tempi dell’università, si era trasferito dal Vomero nel condominio dei Campi Flegrei dove abitavano i miei nonni. Attraversando il cortile dello stabile del ’59, sentivo spesso sottovoce quelle poesie in musica composte dal compianto Valerio Negrini, al tempo in cui le canzoni in Italia non venivano prese troppo sul serio se non erano “politicamente” impegnate.

Ho imparato a conoscere le piccole storie della vita di Franco attraverso la passione per i Pooh. Quante volte ci siamo fermati nel cortile del palazzo a condividere aneddoti: un amore musicale nato nel 1978 da un juke box al lido Bikini di Minturno e poi da allora tante fughe per i concerti dei moschettieri della musica italiana.
A quindici anni Franco scappò a Roma per il primo live della band, mentre la mamma dormiva sonni tranquilli, sapendolo a casa di un amico. Si cresce con ricordi musicali come Eleonora mia madre, senza sapere che, anni dopo, avrebbe conosciuto di persona Red Canzian, voce di quella canzone.

Toccò proprio al fan partenopeo togliere una curiosità al polistrumentista trevigiano, spiegando il significato della parola napoletana cazzimma. Quando Red gli chiese cosa fosse, Franco replicò alla maniera di Alessandro Siani: “Nun t’o voglio dicere. Chest’è ‘a cazzimma.”

Le canzoni hanno il merito di avere appese al collo le pagine del diario del quotidiano, circoscrivendo gli imbarazzi della memoria nel ricordare gli amori della nostra vita. Franco ne ha avuto uno, Rosa, fidanzata di ieri, moglie per sempre, mamma di Umberto, Marco e Sara.
Oggi, nel giorno del suo cinquantesimo compleanno, posso fare una confessione a colui che è rimasto l’unico amico di quel condominio ai Campi Flegrei, custode di una parte meravigliosa della mia vita: negli anni in cui affannavo entrando in quella casa, vuota, buia, senza la luce dei nonni Pasquale e Lucia, le chiacchierate e le canzoni condivise con Franco hanno reso meno faticosa la scalinata verso il sesto piano.

E’ proprio vero, 50 anni di vita e musica quelli tra Franco e i Pooh. In mezzo è diluita anche qualche goccia della mia memoria.

Cartolina d’estate: Il Summer Jamboree di Senigallia tra sagra e dilettantismo

Rosario PipoloFa uno strano effetto alla vigilia di Ferragosto Senigallia, località balneare nelle Marche, senza i marinai e le ragazze pin up del Summer Jamboree Festival.
In Italia non abbiamo il senso della misura: apparteniamo o al popolo dei disfattisti o a quello dei buonisti. Il disfattismo è nocivo, ma il buonismo lo è ancora di più se ti avevano invitato ad un festival dal gusto retrò e ti accorgi d’essere finito ad una sagra.

“I travestiti” vintage in giro per Senigallia o le vecchie auto e motociclette a stelle e strisce spariscono tra la folla che fa fatica a riconoscere gli anni ’40 e ’50. I palchi musicali, inavvicinabili per la calca, hanno in compenso il pregio di evocare i nostri papà che negli anni ’50 scimmiottavano bonariamente le icone d’oltreoceano.
Del resto il musicista di punta porta solo il nome americano ma è un marchigiano doc che all’unanimità è un incontestabile enfant prodige. Per fortuna c’è la scuola Giovanni Pascoli che, attraverso un’emozionante mostra, ci riporta tra i banchi delle nostre mamme e delle nostre nonne

Rimunciare a portarsi via qualche souvenir dell’epoca – tra gli stand prevalgono goffe imitazioni cinesi – ed imbattersi nel viaggio notturno della speranza sull’affollata LINEA 4: gli autisti dell’azienda di trasporto locale si attengono al comandamento Non parlare al conducente, sono sgarbati e ti fanno sbagliare fermata, lasciandoti alla fine della Marzocca.
I veri anni ’50 sono proprio sull’autobus dove la gente sgomita, evocando in un deplorevole episodio di becero razzismo all’italiana, l’America degli anni di Martin Luther King: un turista “cafone” dà a spintoni una donna di colore, interviene il marito e si rischia la zuffa.

Altro che festival! Chi aveva chiesto in prestito al Doc di Ritorno al Futuro la DeLorean DMC-12 per rivivere gli Happy Days dei Fifty americani in trasferta nelle Marche, si ritrova  in un’affollata Notte Rosa, versione summer in stile romagnolo della Notte Bianca, che per fortuna porta a commercianti ed albergatori un bel sold out.

Il vero pregio del Summer Jamboree di Senigallia è farci indietreggiare nell’Italietta provinciale di sessant’anni fa, “povera ma bella”, autentica, fatta di dilettanti allo sbaraglio che sognavano l’America come terra promessa.
La musica siglò parte del manifesto del cambiamento e ciò non avvenne solo con il rock chiassoso e grezzo di Celentano. Lo stile e l’eleganza del Modugno di Volare non fecero rumore quanto gli ancheggiamenti dell’Elvis di Hound Dog ma dimostrarono che il nostro temperamento latino di sognatori e romantici poteva far breccia nel cuore del mondo senza scomodare i principi di Memphis.

Disco difettoso nel cofanetto in vinile di John Lennon. Universal Music, cosa si fa?

Rosario PipoloTanto rumore per nulla. L’atteso cofanetto in vinile di John Lennon, messo in vendita poco più di un mese fa, ha una pecca imperdonabile. Nonostante la Universal Music si fosse affidata alla tedesca Optimal Media, tanto decantata per le riproduzioni in LP, il misfatto c’è stato.

Appena ricevuta la mia copia di LENNON, mi sono messo all’opera per la verifica: il difetto non riguarda solo i primissimi pezzi ma tutta la tiratura. Ascoltando la facciata A del disco Rock ‘N’ Roll, ho ritrovato ripetuta due volte la celebre cover di Berry Sweet Little Sixteen. Insomma, gli osannati ingegneri del suono, che hanno lavorato al progetto, hanno lasciato fuori You Can’t Catch Me.

Per non parlare dele riproduzioni delle copertine degli LP, alcune davvero inguardabili: scolorita quella di John Lennon Plastic Ono Band o alterata la cromatura di Milk & Honey. Inoltre, quelli della Optimal Media hanno usato un tipo di carta per gli inserti – vedi Imagine –  che fa perdere l’effetto degli originali.

Non tutti i remake musicali riescono “con il buco” e sicuramente questo omaggio “commerciale” a Lennon non ha niente a che vedere con il lavoro certosino fatto per il Mono box in vinile dei Beatles, uscito nel settembre 2014. John Lennon meritava unicità anche nel packaging, ahimé identico al cofanetto in vinile degli ABBA.

Ci sono cascati anche i miei colleghi delle riviste specializzate nella presentazione del prodotto: le hanno mai viste le ristampe EMI/Capitol degli anni ’80? E’ tempo di rimpiangerle. Scoperto il form dedicato da Universal Music (claim.lennonvinylbox.com) per richiedere la sostituzione del “disco avvelenato”, già una rarità, mi consolo con un ricordo estivo da liceale.

Nel 1988 riuscii a farmi finanziare da mamma l’acquisto dell’audiocassetta di Rock ‘n’ Roll di Lennon. Una mattina non entrammo a scuola e il mio compagno di classe Alessandro mi invitò a casa sua. Prendemmo due panini con affettati in salumeria e poi ci sparammo ad alto volume Let It Be dei Beatles, nella versione in audiocassetta importata da sua madre dalla Francia.
Io ricambiai tirando dallo zaino l’album in questione di Lennon e chiudemmo con queste meravigliose cover rock. La buona musica sa come farti stare bene, oggi come allora, meglio se con la compagnia giusta.

Napoli senza Pino Daniele è come il golfo senza il suo Vesuvio

Rosario PipoloOggi non posso che attraversare Spaccanapoli, perché quando nell’81 persino la casa dei miei nonni ai Campi Flegrei tremò per il concerto di Pino Daniele in piazza del Plebiscito, una voce urlò alla finestra: “Quando il cuore di Pino smetterà di battere, tu dovrai essere a Napoli, ccà”.
E così è stato. La profezia si è avverata. Sono qui, nella Napoli “nera a metà”, che nonno Pasquale mi portò a scoprire alla fine degli anni ’70 mentre dai balconi della Bagnoli di allora si udiva la voce del primo Pino Daniele.

A ciascuno una “terra mia”. A me toccò quella alle falde del Vesuvio, dove il blues di Pino Daniele fu tappeto per srotolare dense storie di denuncia attraverso la Napoli appena uscita dal tunnel dello zarismo populista di Achille Lauro.

La mia generazione fu “nera a metà” quando il blues napoletano e il contrappunto melodico del “mascalzone latino” fecero della world music l’apogeo del Mediterraneo; quando le strofe di Pino Daniele trasfigurarono in musica la poesia di Salvatore Di Giacomo e la teatralità del vico di Raffaele Viviani; quando il suo canzoniere ci diede le chiavi dell’inquietudine per raccontare il mondo attraverso gli occhi di Napoli; quando uscimmo sconfitti dalla grande illusione e delusione bassoliniana perché capimmo che i “mille culure” di Napule è… vendemmiavano l’amaro destino della nostra città, abbandonata dagli dei: “Napule è ‘na carta sporca e nisciuno se ne importa e ognuno aspetta a’ ciorta.”

E forse ‘a ciorta è toccata a noi napoletani, popolo condannato a vivere tra speranza, dolore e malinconia, perché altrimenti Dio non avrebbe mandato quaggiù lo scugnizzo Pino Daniele, le cui canzoni resteranno l’unico specchio in cui è riflessa l’intimità della nostra storia contemporanea.

E se si avverasse la profezia apocalittica dell’anziana mendicante conosciuta da studente a piazzale Tecchio – “Guagliò, ‘nu juorne Napule schiatterà sotte ‘a lava d’o Vesuvio” – rinasceremo da sotto la lava del vulcano buono grazie a questi versi che faranno da mantra per riacquistare la memoria: “Chi tene ‘o mare ‘o ssaje porta ‘na croce, chi tene ‘o mare ‘o ssaje nun tene niente.”

Oggi contano solo le lacrime di Napoli, perché noi napoletani abbiamo il pregio di essere carnali e fatalisti strafottenti.

Gianna Chillà e Debby Lou, le “escluse” di The Voice of Italy senza “il cognome” alle spalle

Rosario PipoloCon la bomba ad orologeria del “televoto” a The Voice of Italy siamo entrati ufficialmente nell’inevitabile tunnel di malessere e malumore. A risollevarci dallo sconforto potevano essere “i coach” ma per fortuna le loro scelte “infelici” non sempre coincidono con quelle del popolo dei social network. Noemi manda a casa Gianna Chillà, l’indiavolata Janis Joplin romana, e J-Ax butta nelle fiamme Debby Lou per tenere stretto a sé la garbata Carolina Russi.

A questo punto, come direbbe un mio compaesano, “la domanda nasce spontanea”: Gianna e Debby, nella logica che mette in moto la miccia nel Belpaese, sarebbero andate avanti nel talent show musicale con “un cognome” diverso? Nel bel mezzo dell’ultima puntata di The Voice of Italy scopriamo con imbarazzo che Carolina è figlia di una mitica speaker radiofonica. Si tratta di Anna Pettinelli, che tra l’altro adoro, perché mi riporta ai tempi dell’infanzia con la pausa musicale di Discoring, all’interno del contenitore di Domenica In.

I dubbi restano così come l’amarezza che, all’avvicinarsi del “verdetto”, può fallire persino il coach dal pellicciotto di “anarchico” e “indipendente”, finendo tra le grinfie del condizionamento.
Mi torna in mente una bella intervista fatta ad Annie Lennox, in cui l’ex Eurythimics mi disse: “Non credo nei talent show. Sono solo uno stress emotivo inutile per tantissimi ragazzi”.

Sono convinto che se Gianna Chilla e Debby Lou organizzassero una settimana di vacanza insieme a Nashville, troverebbero la strada del meritato exploit. Negli USA i talent scout esistono per davvero e lì non serve “il grado di parentela” per salvarsi sull’orlo del precipizio. Ve le immaginate Gianna e Debby duettare in strada nella capitale del Tennessee con la loro grinta ed energia? Finirebbero subito in uno studio di registrazione.

Tornando a The Voice of Italy, Gianna Chillà si sarebbe salvata se avesse avuto come coach il compianto Rino Gaetano. Lui avrebbe riconosciuto in lei la sua “Gianna” che “non cercava il suo pigmalione e difendeva il suo salario dall’inflazione”.

Altri articoli:

TISCALI.IT – The Voice of Italy si scatena con suor Cristina e maledice il “televoto” per l’amara esclusione di Gianna Chillà

La primavera del copyright su Internet tra rischi e pericoli

Rosario PipoloLa libertà su Internet è un valore sacrosanto ma stiamo attenti a non farla passare per libertinaggio dentro lo slogan abusivo “Musica e film gratis per tutti”. Chi fa la faccia storta alle restrizioni imposte da Agcom sulla violazione del diritto d’autore, tenga a mente questo: non si tratterebbe di una battaglia contro i portatori sani di informazione online, bensì una guerra a viso aperto ai “pirati della rete” che fanno quattrini sul lavoro di altri.

Questa ce la ricorderemo come la “Primavera del copyright su Internet”, perché da oggi 31 marzo scatta il regolamento per cui potremmo vedere oscurare il nostro sito, se usiamo materiale audio e video non autorizzato. Il manifesto si chiama www.ddaonline.it. Se portare in tribunale un pirata scoraggia per i tempi annacquati della burocrazia italiana, non dovrebbe esserlo riempire un form. La nostra segnalazione finirà davanti ad un giudice nel giro di 35 giorni? Staremo a vedere.

Hoster, uploader e pirati finiranno tutti nell’occhio del ciclone e avranno 5 giorni di tempo per correre ai ripari. A questo punto scatta il dubbio: chi stabilisce realmente il confine della violazione del diritto d’autore?
Faccio una dedica musicale in video a mia moglie per il nostro anniversario di matrimonio ed ecco il patatrac. Addio blog, au revoir sito. Regalo all’amico di infanzia una locandina taroccata del film “Ritorno al Futuro” con le nostre facce in ricordo dei bei tempi da teenager. Cosa replico all’Agicom? Mi diletto a ridoppiare una sequenza di un cartone animato in occasione del compleanno di mio figlio. Oscureranno anche il party del pargolo?

Chi fa il mio mestiere dovrà barcamenarsi tra i pericoli che corre sul blog personale e quello della testata giornalistica per cui scrive. Giornalisti e non solo sono accerchiati da una perplessità enorme. Non ha la puzza di conflitto di interessi che la posizione di “arbitro” spetti ad un’autorità amministrativa e non ad un tribunale? Il filo del buonsenso è stato già tagliato in due, soprattutto se la riduzione dei tempi di attesa di giudizio assomiglia all’anticipo della campagna elettorale.

Natale low-cost: Chef stellati e concerti svenduti su Groupon e Groupalia

Rosario PipoloA dicembre dell’anno scorso erano in tanti ad urlare che finire in pasto alla ferocia dei deal – Groupon e Groupalia in pole position – significava calarsi le brache. Un anno dopo, a ridosso del Natale più sottotono dell’ultimo decennio, ci sono finiti i concerti e le cene blasonate degli chef stellati. E così in saldi ci sono Nina Zilli, i Tiromancino, Fabio Concato e tanti altri. Mettere sotto l’albero un coupon da 10€ per un concerto potrebbe essere una proposta regalo e rialzare l’intrattenimento dall’orlo del precipizio. Ormai le proposte del giorno contano sempre meno e si finisce come al supermercato: adattiamo il nostro menu del giorno al volantino del sottocosto.

E a proposito di cibo, anche gli chef stellati hanno dovuto ripiegare: Claudio Sadler è in saldo su Groupalia a 199 euro con cena per due. In un momento di crisi come questo, neanche le vecchie glorie del food possono permettersi il lusso di facilonerie snobistiche. E nonostante i maestri stellati dei fornelli  abbiano conquistato le casalinghe di Real Time, i prezzi sono ancora alti.  In Italia abbiamo 3 milioni di disoccupati, la maggior parte dei quali non riesce neanche a sostenere le spese di un’alimentazione dignitosa. E se un invito a cena da uno chef resta cosa d’elite, non è stralunato pensare ad un’alternativa.  Se facciamo noi la spesa al supermercato, riusciremo mai ad abbassare il cachet di Sadler e compagnia bella?

Diciamo fesserie? Mai dire mai.  L’anno scorso tutto questo si chiamava “calarsi le brache”, oggi  “sopravvivere alla crisi”!