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L’ergastolo per Piazza della Loggia con le coscienze in ammollo


Quelli della mia generazione, che si muovevano a carponi nel giorno della strage di Piazza della Loggia a Brescia, sono cresciuti aspettando questa sentenza. Pensavano che l’esito della tragica vicenda del 28 maggio 1974 si chiudesse una volta e per tutte nel raggio del maledetto decennio di piombo.

No, la mia generazione è cresciuta con il fiato sospeso, ha visto i tentennamenti della giustizia, ha mandato giù i bocconi amari della Prima Repubblica complice dello stragismo, si è riconosciuta allo specchio con i capelli brizzolati.
Oggi, nel 21 giugno che ci restituisce l’agognata estate, ci risvegliamo con una sentenza in mano arrivata troppo tardi: ergastolo confermato dalla Cassazione per Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, i due neofascisti artificieri di uno dei momenti più bui e tormentati della storia della Repubblica italiana.

I due condannati, il primo ultra sessantenne e il secondo ottantenne, sono riusciti a fare un lungo zigzag per scampare una vita dietro le sbarre. Lasciamo in ammollo le nostre coscienze con questo ritardo cronico della Giustizia italiana, incapace di far luce sulle ombre che hanno disegnato la geografia stragista in Italia: Brescia come Bologna, Ustica, piazza Fontana a Milano.

A Maggi e Tramonte, prima o poi, sarà riconosciuto “il diritto alla salute per avvicinarsi ad una morte dignitosa”; ai complici e protettori degli ultimi quarant’anni è stato concesso il diritto di svignarsela; ai parenti delle vittime di piazza della Loggia di continuare a sprofondare in un dolore, in una mortificazione della dignità umana che non passerà perchè nessuno meritava di vivere in uno Stato che fece finta di non vedere.

Sabato di merda: L’addio a Morosini dall’Italia che sputa su Piazza della Loggia

L’Italia è ammutolita, tifosi e non, per la scomparsa in campo di Piermario Morosini. La morte del centrocampista venticinquenne del Livorno sabato a Pescara ha fatto il giro dei social in fretta e furia e su alcune bacheche di Facebook in molti si chiedevano: “Si può morire alla sua età faccia a faccia con un pallone?”.

Dall’altra parte della barricata era già bella e pronta la ramanzina. La prevenzione ha motivo di esistere quando si tratta di un arresto cardiaco? Mettendo da parte l’intralcio dell’auto dei vigili urbani, è legittimo un dubbio. All’interno di una macchina da guerra, pardon “da business”, come il calcio, quanto impegno spendiamo nel nostro Paese per tutelare la salute dei calciatori? Le malelingue risponderebbero che, con tutti i quattrini in tasca, i giocatori potrebbero permettersi il lusso di avere mezza clinica mobile ad personam.
Ci chiediamo se gli stadi siano davvero attrezzati come dovrebbero – senza distinzione di serie A o B – e quali siano in realtà gli investimenti in tal senso. Purtroppo viviamo in un paese in cui si agisce quando scatta l’allarme e può scapparci il morto. Senza mettere in conto l’adeguata formazione che manca ai soccorritori, in difficoltà al momento dell’insorgenza della criticità.

Tuttavia, nei tanti minuti di silenzio dedicati a Morosini lungo tutto lo stivale, ci siamo dimenticati delle vittime dell’attentato a piazza della Loggia a Brescia, i cui assassini l’hanno fatta franca una volta e per sempre. Quei morti, accartocciati nella memoria sbiadita degli Anni di Piombo, hanno subìto gli sputi dell’Italia assassina, quella ammantata nella stessa nonchalance di chi non avrebbe voluto sospendere il campionato, perchè dopotutto i calciatori devono essere macchine da guerra. E’ stato un sabato di merda, perchè siamo stati incapaci di unire un lutto sportivo a quello della nostra memoria civile.

Diario di viaggio: io autista di autobus per un giorno sulla linea 10 di Brescia

Rosario PipoloDa bambino sognavo di fare il conducente di autobus. Oggi sono una frana alla guida, ma all’epoca mi bastava avere un volante tra le mani per salire al settimo cielo. Così in un sabato mattina uggioso di Novembre mi sono detto: o adesso, o mai più. Dall’armadio tiro fuori giacca e pantalone blu, creandomi la divisa. Per farvela breve, pedino un autista a Brescia per fare assieme a lui tutto il turno lavorativo dalle 4.43 alle 10 del mattino. Sono assonnato e la città è deserta. Dopo una colazione fugace alle macchinette, osservo i miei pseudo-colleghi nel gabbiotto che compilano il foglio di marcia. Mi apposto davanti al deposito di Brescia Trasporti, la società di mobilità della città lombarda, e alla prima fermata salgo sul numero 10, quello che fa la tratta Concesio-Poncarale. L’autista ha una faccia simpatica, è della periferia di Napoli.
Mi siedo dietro di lui e cerco di monitorare tutti i suoi movimenti, quasi come a voler dire: “Ehi, collega. Se sei stanco, passo io alla guida”. Alle 5.16, alla fermata di Triumplina, sale il primo passeggero, una signora sulla quarantina. Non ha il biglietto e le offro l’ultimo che mi rimane, tanto mi dico : “Stamattina gioco a fare il conducente. Mica il controllore mi farà la multa?”. Poco prima delle 6 sale un altro collega. Dall’accento è palese, è un siciliano. Parlottiamo, lui è di Termine Merese e mi racconta del suo trasferimento al Nord, della famiglia che gli manca, della crisi e dei soldi che non bastano mai a fine mese. I miei pensieri divagano in questa Brescia nottambula, che improvvisamente lascia la sua multietnicità per restituirmi alcuni ricordi: la mia prima volta a piazza della Loggia avvolto da quel silenzio tombale “per non dimenticare quel tragico 28 maggio del 1974”; la mia prima volta a Brescia 2 alla ricerca di Lara e del suo mondo; la mia prima volta a fare colloqui con la laurea fresca di giornata. Alle 7 spunta la luce e l’autobus si anima di studentesse. Carine, scherzano, bella gioventù! Mentre la città sbadiglia e si sveglia, arrivo al capolinea a Flero. Ci sono venti minuti di pausa prima di ripartire. Vado al bar a fare colazione: brioche e cappuccino. Pago anche per l’autista alla guida del numero 10, ma lui non si accorge di niente.
Poi si riparte, la stanchezza inizia a farsi sentire, mentre le lancette dell’orologio si rincorrono fino alla fine del turno. Sono stanco, ho i piedi congelati e riesco a malapena ad arrivare nei pressi del deposito di Brescia Trasporti.  L’autista scompare col suo autobus, mentre io alzo gli occhi al cielo. Gli schizzi di pioggia mi pizzicano il viso e io ripenso a tutti gli autisti che ci scarrozzano in giro ogni giorno: ai giovani, ai meno giovani, ai pensionati, a quelli che non ci sono più. A tutti i conducenti che ci trasformano, al costo di un biglietto, in padroni delle nostre città, perché solo un servizio efficiente di trasporto pubblico può farci sentire “turisti inconsapevoli” del nostro territorio. Persino quando certi posti non ci appartengono, perchè le nostre radici sono altrove. Autista per un giorno? Sì, per raccontare tutti coloro che si nascondono dietro quel volante, tutti i giorni, a tutte le ore, col sole e con la neve.

Vengo via con te: Caro Luca, nella tua culla la nostra Calabria

Lunedì sera la televisione ci ha fatto dono di un altro bagliore di levatura culturale. Roberto Saviano, nella seconda puntata di Vieni via con me, ha spiegato magnificamente agli italiani le malefatte della ‘Ndrangheta, che ha colonizzato pure la Lombardia. Quella  lezione mi ha fatto venir voglia di tornare sui banchi di scuola, ma anche di rovistare nei ricordi belli che mi uniscono alla Calabria.
Dopo aver spento il televisore, nella penombra muta del mio soggiorno, mi sei venuto in mente tu, caro Luca, piccino piccino nella tua culla. Avevo una gran voglia di coccolarti e di cantarti una ninna nanna, rannodando la mia memoria alla tua terra: quella volta su una Cinquecento rossa con mamma e papà verso Scalea alla fine degli anni ’70; le lunghe passeggiate con nonno Pasquale sulle spiagge di San Nicola Arcella; la salumiera logorroica di Schiavonea che mi conquistò tra coccole e caramelle; Franco Cutruzzulà, studente d’Ingegneria di Soverato, che mi faceva sbirciare tra i suoi progetti universitari;  i silenzi ad intermittenza rivolti al volto severo di S. Francesco da Paola; il senso di liberazione scorazzando in Sila; il faccino carino di Daniela, la bimba calabrese con cui condivisi un lecca-lecca, ma lei non si accorse che ero stracotto di lei.
Tutti questi scatti, messe in fila uno dietro l’altro, erano in netto contrasto con il racconto di Saviano, quello dell’altra Calabria, nascosta tra i bunker dell’Aspromonte; soggiogata dall’omertà; scoraggiata dal fatto che il male possa farla franca sul bene; narcotizzata da quello sconforto che ti fa associare la criminalità al potere.
Caro Luca, ha ragione lo scrittore di “Gomorra” a ribadire che “non si può asciugare l’acqua con l’acqua, non si può spegnere il fuoco con il fuoco, non si può vincere il male con il male”. Mi sono ricordato di quel pomeriggio sulla spiaggia di Scalea in cui un bimbo prepotente buttò giù il mio castello di sabbia. Lui si aspettava che io lo menassi. Guardandolo diritto negli occhi, replicai: “Perché lo hai fatto? Adesso dammi una mano a farne uno più bello. Lo costruiremo assieme”. Tonio chiamò gli altri amichetti e tutti assieme costruimmo una fortezza. Diventammo amici per la pelle e da qualche parte c’è ancora il disegnino che Tonio mi regalò prima che finisse la vacanza.
L’amore vuole amore. E tu Luca, sbucato dal pancione di mamma per un atto d’amore, sei la speranza della tua terra. Adesso è tempo di sognare, ma poi domani sarà tempo di fare bei castelli, assieme a tutti coloro che lottano per una Calabria diversa. Io continuo a sognare un’Italia migliore, anche dopo l’assoluzione vergognosa dei colpevoli della strage di piazza della Loggia a Brescia. La tua culla è la tana sicura dei miei sogni. Luca, ho deciso. Faccio le valige: vengo via con te!