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Diario da Mosca: il mio 41° compleanno alla Novaja Gazeta per Anna Politkovskaja

Insieme a Vitalij Jaroshevskij, vicedirettore di Novaja Gazeta, nell'ufficio di Anna Politkovskaja.

Rosario PipoloMosca è sveglia e il sole è spuntato da un pezzo. Butto l’occhio in un’edicola della stazione dei treni di Belorusskaja. Guardo la data dei quotidiani: è giovedì 17 luglio. Lo stesso giorno di quarantuno anni prima ero sbucato fuori dal pancione di mia madre. E’ il mio compleanno. Sono irragiungibile. Niente auguri, niente regali, niente candeline. Mi congedo giusto una doccia pr togliermi di dosso la stanchezza del viaggio e poi subito a vagabondare tra le strade della capitale russa.

Al numero 3 di Potapovskiy Pereulok c’è un volto scolpito accanto a una targa che mi indica l’arrivo a destinazione. E’ il viso sorridente di Anna Politkovskaja, la giornalista russa assassinata nel 2006 che, attraverso le pagine del periodico della Novaja Gazeta, si fece notare per l’impegno civile, per le scomode inchieste sulla Cecenia, facendo tremare il Cremlino di Vladimir Putin. Ad accogliermi nella redazione del famoso giornale moscovita c’è Nadehzda. Lo sguardo si posa su ritagli di giornale, su i colleghi in riunione con la porta semiaperta, su una vecchia foto in bianco e nero che ritrae un’intervista a Michail Gorbačëv.

Nadehzda apre la porta di una stanza. Mi coglie di sorpresa. Mi trovo accanto alla scrivania di Anna. Tutto è rimasto come allora: gli attrezzi del mestiere, alcuni postit attaccati alla parete, il telefono in un angolo. Appoggio i gomiti su quella scrivania, resto in silenzio e mi tornano alla mente alcuni passaggi del bel libro Anna è viva di Andrea Riscassi, a cui l’Italia deve tanto: fondando l’Associazione AnnaViva, il giornalista milanese custodisce la memoria della Politkovskaja e ci mette in condizione di lasciarci a più riflessioni.

Poi arriva Vitalij Jaroshevskij, vicedirettore di Novaja Gazeta. C’eravamo conosciuti a Milano l’anno scorso in occasione dell’inaugurazione dei giardini dedicati da AnnaViva e Comune di Milano alla giornalista moscovita.  Mi abbraccia, mi fa gli auguri di compleanno e, regalandomi un libro che raccoglie tutti gli articoli di Anna, sottolinea: “Questa è una buona occasione per imparare il russo”. Io e Vitalij chiacchieriamo in privato per più di un’ora. Elena ci fa da interprete. Sembra un’intervista ma in realtà non lo è. Parliamo di Anna, del suo lavoro, delle sorti dell’editoria al di là degli Urali, ripercorriamo a stralci gli ultimi quarant’anni di storia di quella che oggi chiamano Federazione Russa.

Che strano modo di festeggiare un compleanno, da solo in una città che non mi appartiene. “L’unico dovere di un giornalista è scrivere quel che vede”, ribadiva Anna Politkovskaja. Quanti si sforzano di farlo davvero nel tempo in cui il giornalismo politico è colluso con il gossip? Camminando per le strade di Mosca, mi chiedo perché mai ci sottomettiamo al gioco crudele dei poteri forti, pronti a corromperci per tagliare il filo che ci lega agli eroi invisibili. Perciò ho scelto di dare un significato a questo mio 41° compleanno e condividerlo con il ricordo di Anna, nella stessa Mosca che dovrebbe calpestare l’omertà. Piantare un alberello dedicato alla Politkovskaja in ogni angolo della città mortificherebbe il mandante di questo pietoso delitto politico e culturale.

Per fare il futuro ci vuole impegno civile; per fare impegno civile ci vuole memoria, per fare memoria ci vuole il coraggio di uomini e donne come Anna Politkovskaja. Non ho più paura di questa fitta solitudine a Mosca, perché è una forma di strana libertà.

 

Diario di viaggio: il finlandese “5 stelle” che sognava la telefonata di Luigi Di Maio

Rosario PipoloC’è chi sogna una telefonata di Papa Francesco, c’è chi quella di Luigi Di Maio, il vicepresidente della Camera, tra i volti giovani e più popolari del Movimento 5 stelle. Ville, finlandese trapiantato in Italia dal 2003, è un attivista del movimento di Grillo dall’anno scorso e stima molto Di Maio. Non ha velleità politiche, ma ama ripetere che l’impegno civile non ha colore e bisogna rimboccarsi le maniche per dare un contributo fattivo. In questo suo pensiero c’è molto dell’approccio scandinavo alla politica anti-poltrone.

Chissà che un giorno non capiti davvero che Di Maio alzi il telefono e faccia felice Ville. Del resto il grillino campano è un tipo alla mano e non ha niente a che vedere con le vecchie volpi della Prima Repubblica alla Giovanni Leone, a cui la sua Pomigliano D’Arco ha dedicato pure una piazza, senza tener conto di cosa sia la storia e il disprezzo per la corruzione del Belpaese.

Faccio un giro nei dintorni di Lecco, convinto che la Lega avesse preso in ostaggio Renzo e Lucia. Invece no. I “promessi sposi” manzoniani strizzano l’occhio agli attivisti 5 stelle della zona. Sono in auto e faccio quattro chiacchiere con Ville. E’ uno spasso osservarlo battibeccare con la moglie, una salernitana simpatica con cui è felicemente sposato dal 2001. Mentre Ville mi racconta la triste storia dell’amica Grazia Mennella, la radiologa grillina licenziata dall’ ospedale di Lecco per le sue denuce, ecco che squilla il telefono.

Carramba, che sorpresa! E’ proprio Luigi De Maio al telefono. L’attivista finlandese e il politico napoletano si parlano come se si conoscessero da sempre. Ville è contento e nei suoi occhi c’è quel pizzico di temerarietà che si portò appresso quando, dopo aver rinunciato al suo lavoro di ingegnere ad Helsinki, si trasferì nel nostro Paese. A Ville continuano a ripetere che i movimenti in stile “Grillo” in Italia sono mode temporanee. Il finlandese “5 stelle” insiste e resiste. Non molla.

Berlinguer, ti voglio bene

Rosario PipoloBerlinguer ti voglio bene, perché l’11 giugno del 1984 rubai a papà un giornale. Sulla copertina primeggiava un sorriso, il tuo, e la scritta “Ciao, Enrico”. Cosa si poteva chiedere ad un ragazzino, a ridosso degli esami delle Elementari, a cui gli anni del riflusso avevano messo in mano i robot giocattolo di Goldrake e Jeeg Robot? Conservare quelle pagine di carta e sfogliarle quando sarebbe cresciuto.

Berlinguer ti voglio bene perché, quando malavitosi e criminali nascondevano sotto le acquasantiere delle chiese “i pizzini” con le istruzioni per votare i papponi democristiani, l’Italia fetida abbassò lo sguardo davanti al sequestro di Aldo Moro: “da una parte l’uomo inserito, che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana, e dall’altra il gabbiano, senza più neanche l’intenzione del volo. Perché ormai il sogno si è rattrappito. Due miserie in un corpo solo”.

Berlinguer ti voglio bene, perché in quella chiacchierata con Giuseppe Bertolucci ritagliai tante piccole storie accadute sul set che trasformarono un film con Roberto Benigni nel manifesto di una generazione.
Ed io, allevato da un operaio e una casalinga al tempo dei misfatti del Pentapartito, me la giocai all’università tanti anni dopo, durante l’esame di Storia Contemporanea. Da dilettante azzardai in quella seduta le orme di una partita scacchi per un confronto di crescita con il compianto Aurelio Lepre, non in qualità di professore della Federico II di Napoli ma di uno dei più grandi storici marxisti del nostro Mezzogiorno.

Berlinguer ti voglio bene, perché la classe politica di questa Seconda Repubblica sembra uscita dal deposito di un burattinaio, confermando il presagio che “I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela”.
“Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona”,
canticchiava Gaber sulle note della sua chitarra. E chi non era comunista allora – aggiungerei oggi – era un sognatore, perché Berlinguer era una brava persona.

Berlinguer ti voglio bene, perché le ideologie prima o poi finiscono in pasto al revisionismo, a differenza delle persone che si sono messe di traverso al destino, facendo dei sogni la profezia per avere un mondo più giusto, umano, equo, vivibile, in cui l’essere protagonisti non riguarda una ristretta minoranza.

Caro Babbo Natale, mi regali Dudù?

Rosario Pipolo“Trottolino amoroso dudu dadadà”, cantarono Amedeo Minghi e Mietta nel bel mezzo degli anni ’80. E noi italiani, storditi dal benessere fasullo del decennio del riflusso, non ci accorgemmo che in quella zuccherosa canzoncina in stile sanremese si nascondeva la vera star di questo Natale 2013: Dudù.

Dudù, il cucciolo di casa Berlusconi, ha spento la prima candelina. Rotocalchi e social network non fanno altro che parlar del cane di Arcore, innescando la probabile incazzatura degli animalisti che dicono basta ai “cani da salotto” e vorrebbero le copertine dedicate agli anonimi randagi.

Dudù lo conosco in tanti e persino Emilio Fede ci mette la mano sul fuoco. “Lo conosco ed è molto simpatico”, ha dichiarato l’ex direttore del TG4 al Corriere della Sera. E chi non lo conosce, farebbe a cazzotti per stringergli la zampa, adesso che è una star tra cinema e tv. Maurizio Crozza lo ha inserito nel cortometraggio Berlusconi-Padrino che sta facendo crepare il popolo social nei giorni prenatalizi.

Dudù, chi era costui? Il primo pet a quattro zampe ad avere una frequentatissima pagina Facebook tutta per lui. Ahimé è stata chiusa e non sapremo mai quando arriverà la prossima scorreggia “profumata” del cane che fa più rumor nel Belpaese cialtrone.

Altro che le urla dei Forconi. Altro che legge di stabilità, Trise, rimonta dei renziani e la nuova fogna del calcio scommesse. Dudù sa come far parlare di sé e potrebbe essere la mascotte della partitocrazia che vuole tornare protagonista della Terza Repubblica con la stessa deplorevole logica degli ultimi vent’anni: scambiare la politica per una serata goliardica in compagnia, tra tette, un bicchiere di vino e quattro canzonette.

“Trottolino amoroso dudu dadadà”, cantarono Amedeo Minghi e Mietta nel bel mezzo degli anni ’80. E adesso come replichiamo a chi ha scritto “Caro Babbo Natale, mi regali Dudù”?

Il videomessaggio di Berlusconi come su un vecchio nastro VHS

Rosario PipoloNella landa dei social network e della viralità il videomessaggio di Silvio Berlusconi sembra venuto fuori da un vecchio nastro in VHS, sepolto in chissà quale soffitta impolverata della Prima Repubblica. Assomiglia ad un fuori onda montato sulle ceneri del primo video che vent’anni fa alzò il sipario sul berlusconismo in Italia. Tra gli sfottò in formato social, le analisi degli intellettuali, gli editoriali dei giornalisti e le opinioni degli avversari politici, il Cavaliere e i suoi cortigiani, che non si sono sentiti mai a proprio agio su Internet, hanno puntato ancora sulla scatola magica televisiva, quella che fece la fortuna di Forza Italia.

Tanto rumore per nulla, urlerebbe in sordina la vecchia canaglia di Shakespeare, per una sequenza di immagini che inciampano su contenuti prevedibili – il solito attacco ai giudici – scivolando sulla buccia di banana nel finale nazionalista. Un bollito di rancido populismo, con quella mano sul petto dedicata ai fedelissimi nostalgici che hanno associato erroneamente in questi lunghi anni il liberalismo al berlusconismo.

Quando nel 1990, grazie alla legge Mammì fatta su misura per il Cavaliere, i Socialisti craxiani si preparavano ad occupare il suolo dei nascenti notiziari della tv privata, chissà se avevano imparato a pappardella la predizione di Nostradamus: il monarca assoluto della Seconda Repubblica sarebbe stato un ometto, deus ex machina dell’invasione delle antenne nel Belpaese del Pentapartito che giocava a nascondino dietro le tette e i culi di “Drive in…”.

Nostradamus non si era lasciato scappare il finale della profezia. L’Italia, traghettata verso il berlusconismo, sarebbe stata abitata da una classe politica incapace di sconfiggere l’avversario alle urne elettorali e con proposte di legge in grado di rendere questo Paese vivibile e civile. E tra coloro che oggi sezionano il videomessaggio di Berlusconi come un cadavere ci sono anche i parolai di quella Sinistra pantofolaia a cui il berlusconismo ha fatto comodo su diversi fronti.

Divo Giulio, ora pro nobis!

Rosario PipoloDivo Giulio, ora pro nobis. Qui, sul suolo dell’inferno terrestre, sono rimasti gli eredi. Non vestono in doppiopetto blu, non vanno a messa tutte le mattine, non hanno chiuso gli occhi con la corona del Rosario tra le mani. Sono i più insospettabili. Non li vedi mai in giro, ma agiscono in silenzio come gli amici falchi di Cosa Nostra. Rimpiangono le vacche grasse della Democrazia Cristiana, ripetono a pappardella lo slogan “Ambrosoli se l’è cercata”, fanno finta di dormire sonni tranquilli mentre scacciano il fantasma di Pecorelli. “Nessuna regola è infallibile. Ci sono solo errori da non commettere”.

Divo Giulio, ora pro nobis. Chi pittore riuscirà a ritrarre quel “bacio”, flagello della Prima Repubblica che trasformò un figlio della Costituzione in “punciutu”? Mentre l’elettorato generoso di gran parte della Ciociaria allunga il minuto di silenzio, le vecchie scuole feudatarie del Sud Italia, che hanno allevato i pargoli dei fedelissimi, si prendono tempo per onorare la tua memoria. Accadde anche in Campania, in uno degli istituti di cui fosti tanto benefattore, dove io non ci misi mai piede. “Meglio tirare a campare, che tirare le cuoia”.

Divo Giulio, ora pro nobis. La storia giudica solo con il tempo, lasciando indenni i sospetti e le alleanze trasformiste nel sottosuolo per mantenere il potere con liberali, comunisti e socialisti. Il ghigno malefico dei nemici a piazza del Gesù a Roma ora è un pianto continuo e le macchie dei complotti si sono sbiadite in tanti dossier seppelliti, senza risparmiare nessuna domenica delle salme, come quella di Aldo Moro. “A pensare male si fa peccato, ma spesso si indovina”.

Divo Giulio, ora pro nobis. Mai nessuno percorse a tutte le ore – scalzo, in ginocchio, in abito da cerimonia – via della Concilazione, quando al di là del Tevere fu siglato il patto con gli alti prelati. Mai nessun politico fu così papalino, tenendosi stretta la cordata che stringeva il clero e la Chiesa tra le mani del potere occulto. La tua seconda casa era sotto il Cupolone. “La ragione non basta averla, ci vuole anche qualcuno che te la dà”.

Divo Giulio, ora pro nobis. Finiti i tempi del monarca assoluto dentro e fuori le mura dello Scudo Crociato, tra burocrati e piazzamenti di poltrone minesterali per i cortigiani, perché gli andreottiani erano una cosa, il resto dei democristiani un’altra.Finiti i tempi delle censure culturali per frantumare lo specchio cinematografico del Neorealismo sotto lo pseudonimo che “i panni sporchi si lavano in famiglia”. Finiti i tempi delle prescrizioni che sibillano tacite assoluzioni. Il feretro se ne va nel mistero, nell’oscurità, nel più buio cono d’ombra della storia plurimillenaria di questo Paese. “La cattiveria dei buoni è pericolosissima”.

Divo Giulio, ora pro nobis.Il potere logora chi non ce l’ha”, ma spedisce all’inferno chi lo ha avuto e lo ha gestito male, finendo per essere un mancato protagonista della storia di un Paese civile.

Habemus il Presidente: Re Giorgio e la disfatta della classe politica di Pierluigi Bersani

Un caricatura dal web

Rosario PipoloNella nostra storia repubblicana non si è mai visto un teatrino così ridicolo come questa elezione del Capo dello Stato. Giorgio Napolitano, l’ultimo volto istituzionale, ritratto in questa vignetta di Portoscomic.org, sopravvissuto ai balletti del Belpaese movimentista, ci ha salvati dal naufragio. Ha accettato di essere rieletto Presidente della Repubblica. Speriamo che il Quirinale non prenda esempio del Vaticano e che “Re Giorgio” non segua le orme di Papa Ratzinger per un ritiro anticipato.

Su tutto questo ambaradan si sono espresse troppe voci, persino quelle discordanti che vacillano fuori dal coro, ma nessuna ha centrato la stonatura. Lo ha fatto invece con la classe e l’ironia di sempre Lady Luciana Littizzetto, che ieri sera a “Che tempo che fa” ha letto a “Re Giorgio” una letterina con un post scriptum emblematico: “Napolitano torna al Quirinale, si mormora di Amato come Presidente del Consiglio, se le gemelle Kessler accettano una prima serata su Rai Uno, siamo veramente un paese proiettato verso il futuro!”.

Dall’altra parte dell’ambaradan ci sono le “lacrime” romanzate di Pierluigi Bersani, dimissionario in esilio dopo aver ridicolizzato Marini e Prodi , che ci hanno rimesso la faccia cascandoci come due pesci lessi: i due santini della Prima Repubblica pensavano davvero di poggiare il culo sulla poltrona del Quirinale. Questa elezione presidenziale ha dimostrato con i numeri alla mano che in Italia, con il tiro alla fune tra Destra e Sinistra, siamo in pasto ad una grande armata Brancaleone. Neanche un pianto alla Fornero, potrebbe convincerci del contrario.

Mentre il PD cerca alla svelta la scorciatoia di un congresso per farsi passare il più dolorso mal di pancia degli ultimi vent’anni, qualche vecchia volpe socialista se la ride e se la canta. E’ come dire che la storia repubblicana è una ruota che gira e i tradimenti prima o poi si pagano. La classe politica che, dopo l’uragano di Tangentopoli, intortò il Belpaese confezionando le vecchie falce e martello con il decalogo del socialismo europeo e lo scudo democristiano, è pronta per andare in pensione. Basta vedere le facce trafitte di un Massimo D’Alema o di una Rosy Bindi.

Consoliamoci. Abbiamo un Presidente della Repubblica quasi novantenne, la cui autorevolezza non basta a far sentire l’Italia un Paese “ringiovanito”. Ammettiamolo. Viviamo in un Paese ammalato di nostalgia cronica per gli inciuci in stile Pentapartito, che non sa affrontare le sfide del futuro. E l’ironia sopra le righe di Luciana Littizzetto ce lo ha ricordato con garbo.

Bufera Monte dei Paschi di Siena e il ritorno della banda Bassotti

Rosario PipoloQualche mese fa mi capitò uno spiacevole episodio in una filiale campana del Monte Paschi e inoltrai un reclamo formale, visto che il famigerato istituto di credito fugge dal confronto sui social network. Mi hanno inviato indietro le scuse con l’algida “formalità” che fa incacchiare ancora di più l’utente comune. A distanza di tempo, come ho già tweettato, la vicenda mi è sembrata quasi profetica: “i numeri” che non rilasciava la filiale per mettersi in fila, li hanno dati a Siena “a sorpresa” in questo gelido Gennaio.

Questo non è lo spazio adatto né per ricostruire lo scandalo che sta facendo affondare il Monte dei Paschi né per radiografare le malefatte di Mussari e compagnia bella. Metterei tra virgolette “compagnia bella” perché “nel mezzo del cammin di nostra campagna elettorale” si incrocia malvolentieri la combriccola di scellerati che avverte di non strumentalizzare il caso. Come se poi il legame subdolo in Italia tra politica e istituti di credito fosse la grande scoperta dei Servizi Segreti.

Nella bufera che investe la banca più anziana del mondo – e pensare che era stata messa in piedi per dare aiuto alle famiglie disagiate di Siena venti anni prima che Colombo finisse per sbaglio in America – si nasconde l’ennesimo vezzo ipocrita del politico medio italiano: non prendere mai una posizione netta di fronte ad uno scandalo di tale portata, per paura di passare come lo scolaretto di Montecitorio della Prima Repubblica. E’ più facile pensare che lo “smemorato” sia Mussari e che non ci sia assieme a lui una “banda Bassotti”, da far invidia al Belpaese del tempo in cui era un vanto il legame pappa e ciccia tra potere politico ed economia occulta.

La sede centrale del Monte Paschi di Siena mette soggezione. Ci sono passato davanti l’estate scorsa. Mi scappava la pipì ed ho evitato di farla lì. Ho evitato per non passare come il turista cafone che oltraggiava un santuario dell’economia italiana, senza sapere che “l’oltraggio al pudore civico” è un altro: l’attesa interminabile dei parenti delle vittime di Ustica per avere il risarcimento dallo stesso Stato che, con l’altra mano inguantata, copre le malefatte interminabili della banda Bassotti. La stessa gang ladra della dignità dei piccoli risparmiatori, che quasi sempre ci rimettono la tasca.

Campagna elettorale: La goffaggine dei nostri politici su i social network

Rosario PipoloLe tipografie piangono e in giro, soprattutto nelle grandi città, non tira aria di campagna elettorale: niente santini, pochissimi maxi cartelloni con gli abominevoli faccioni lustrati. I politici e gli aspiranti candidati sono in fuga dalla carta stampata –persino nelle edicole sono scomparsi gli espositori con le prime pagine da campagna elettorale – e stanno sgomitando per ritagliarsi un posto su i social network.

In Italia se ne sono accorti troppo tardi che una condivisione facebukiana o una tweettata lungimirante potevano essere un boomerang contro la solita promessa, il contratto ingiallito o l’orazione funesta. C’è stato pure chi si è sforzato di scimmiottare Barack Obama, ma la nostra classe politica in veste “social” è davvero goffa. E il misuratore di tale goffaggine non sta tanto nel modo in cui si presenta il canale social presidiato , ma come si tenti di portare l’elettore dalla piattaforma social all’unico posto, testimonial della grande illusione del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica: la televisione.

Nei ridicoli profili di Google+, spuntati come funghi da un giorno all’altro (Il gigante dei motori di ricerca ricambia la fiducia accordata con uno speciale elettorale), l’unico update più frequente è: “Stasera ti aspetto in tv”. Il teatrino cambia poco o niente: l’altro ieri c’era il salottino di Vespa con il contratto degli italiani, ieri l’agorà di Santoro con il duello da 9 milioni di telespettatori, in cui a parte sguazzi di istrionismo e le solite accuse, non si intravede all’orizzonte nessun programma.

Tornando alla smania social dei nostri politici, mi vien da dire che l’Italia continua ad essere un paese di minestre riscaldate: per certi versi lo sono pure i rottamatori, gli urlatori e gli ammalati di vendolismo. E’ un paese di minestre riscaldate quando il gossip delle veline candidate oscura l’alta percentuale di poveri in Italia; è un paese di minestre riscaldate quando il piagnucolio della banda dei disonesti esclusi dalle liste prende il sopravvento sulle lacrime dei giovani che non trovano un lavoro; è un paese di minestre riscaldate quando il più piccolo dei luoghi comuni diventa una voragine e sgomita con la rassegnazione dei più disagiati che pagano le tasse dei ricconi; è un paese di minestre riscaldate quando i camaleonti vorrebbero darci la lezioncina che non fa più gola a nessuno.

Se questa campagna elettorale avesse davvero una sostanza più “social” e uno sguardo allargato sulla presa di coscienza di una solitaria resistenza da “indignados”, noi elettori non saremmo trattati più come una ciurma di numeri amorfi in balia delle onde.

Bersani-Renzi: L’Italia delle “Primarie” è un paese per vecchi?

Dai risultati della primarie del Centrosinistra verrebbe da dire: l’Italia è un Paese per vecchi. Pierluigi Bersani stacca di quasi dieci punti Matteo Renzi. Così la vecchia guardia, acclamata soprattutto nel Centro-Sud, si lascia dietro il guascon fiorentino, senza cantar vittoria: il ballottaggio penserà al resto, accompagnato dalle alleanze insidiose che determineranno l’identikit dell’aspirante Premier.

Niente vittoria netta insomma e, nonostante Nichi Vendola sia fuori dal gioco, vedremo quanto costerà numericamente la confluenza dei suoi voti: se li papperà sicuramente Bersani.
C’è chi parla di dati ballerini, c’è chi è poco convinto che tutte le votazioni siano andate lisce. Un numero è davvero importante: visto il disinteresse e la delusione degli italiani nei confronti della politica, queste Primarie sono in controtendenza. Hanno attirato e armato l’elettorato, al di là dei siparietti folk e delle insinuazioni da fantapolitica di infiltrati di altri schieramenti a danno dei big in pole-position.

Dicevamo all’inizio che l’Italia è un Paese per vecchi. E se fossi Matteo Renzi, ritratterei la dichiarazione che ad “un ballottaggio si parta da zero a zero”. I politici della vecchia guardia sanno bene come smorzare l’entusiasmo di un guascon. Gli slogan non funzionano più e “sono da rottamare”, prima che la patata diventi bollente. E gli italiani disinteressati alla politica dove sono finiti? Li ho visti stamattina in metropolitana a dibattere con accanimento sul litigio pacchiano di X-Factor tra Arisa e Simona Ventura. Hanno la stessa faccia di chi si lamenta che in Italia la politica sia un insulso spettacolo di marionette.

Bersani e Renzi vanno al ballottaggio…