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Jobs Act, buonanotte articolo 18 e sogni d’oro Italia!

Rosario PipoloBuonanotte, Italia. Habemus il Jobs Act. Ci siamo allineati all’Europa. Siamo un paese moderno e con lo sguardo al futuro perché abbiamo reso il fardello dell’articolo 18 una vecchia foto in bianco e nero.
Buonanotte, Italia. Habemus il Jobs Act. Noi che siamo il Belpaese dei farabutti e degli eroi alla Schettino, noi che sappiano chiudere un occhio, anzi due fino alla cecità, se si tratta di tutelare caste o l’insidioso fancazzismo cronico, all’ombra di posti di lavoro fatti di poltrone e poltroncine assegnate.
Buonanotte, Italia. Habemus il Jobs Act e siamo costretti a traslocare sui manuali di storia per restituire una fisionomia all’articolo 18, alle lotte e ai rantoli sessantottini per tutelare un diritto che, in pasto a partiti e sindacati, con il passare dei decenni si è ridotto a strumentalizzazione politica. Il lavoro non è né di Sinistra né di Destra ma è un diritto di tutti.
Buonanotte, Italia. Habemus il Jobs Act perché da una parte si dà e dall’altra si riceve. E ci è toccato vedere certe sceneggiate in Senato, attuate da molti di quei politici cresciuti nello stagno dove le assunzioni facevano parte di un sistema clientelare, macchina del mammasantissima che macinava voti per il seggio elettorale.
Buonanotte, Italia. Habemus il Jobs Act e siamo destinati al Pronto Soccorso per pagare le ustioni lasciate sparse dai nullafacenti, infiltrati negli apparati pubblici, che hanno fatto del badge la carta di credito della bella vita da burocrate.
Buonanotte, Italia. Habemus il Jobs Act e ci tornano utili i versi di quella canzone di Enzo Jannacci che non smetteremo mai di cantare: “Quelli che votano scheda bianca per non sporcare, oh yeh; quelli che organizzano la marcia per la guerra, oh yeh; quelli che puttana miseria, oh yeh; quelli che l’ha detto il telegiornale, oh yeh; quelli che da tre anni fanno un lavoro d’equipe convinti d’essere stati assunti da un’altra ditta, oh yeh”.

Buonanotte, Italia. Habemus il Jobs Act. Sogni d’oro, oh Yeh!

Quelli che…il sabato prima di Pasqua si svegliano senza Enzo Jannacci

Rosario PipoloOgni volta che sbucavo in camerino, mi ripeteva con il suo tono ironico e scanzonato che ero “una persecuzione”. Che cosa ci avrei fatto mai con quelle firme di Enzo Jannacci spiaccicate su vecchi 45giri e cd? Niente, mi sarei messo ad osservare la traiettoria dell’inchiostro, le curve, le microscopiche sbavature della penna che filtravano la consistenza del suo essere artista.

Enzo Jannacci è morto ieri in tarda sera, all’ombra di un Venerdì Santo. Milano resta davvero sola. Si sentiranno più soli quelli che come me sono venuti a cercar fortuna nella città che lo ha allevato ed ha fatto da sfondo alle sue storie. Jannacci, il medico chirurgo che sotto il camice aveva l’estro di un giullare, il cuore di un jazzista, l’anima del cantautore, ha cantato gli ultimi e i dimenticati, i poveri ed emarginati Lo ha fatto senza prendersi mai troppo sul serio. Quelli che come “Vincenzina” andavano in fabbrica, quelli che portavano “le scarp da tennis”. Jannacci le aveva sfilate zitto zitto alla borghesia invaghita che aveva rinchiuso la terra ambrosiana nel sogno fasullo della Milano da bere.

Le canzoni di Enzo Jannacci, da “Quelli che…” a “Vengo anch’io. No, tu no”, hanno investito la nostra anima della tipica teatralità che non puoi condividere con una persona qualunque. Devi sottrarla al torpore della massa e ficcarla nell’immaginario di chi continuerà a sognare da solo, attraverso le storie di Milano, diluite nel suo repertorio che recupera anche la bellezza e la magia del dialetto. Grazie ai fotoromanzi musicati di Jannacci abbiamo abbattuto gli stereotipi e avvistato lo stupore in certi angoli nascosti di questi luoghi, i suoi. E persino Rogoredo, sfinita nel tanfo della periferia, resta l’angolo popolare che dalla crudele realtà metropolitana gioca a nascondino nei versi dell’omonima canzone.

Se dobbiamo dire addio a Enzo Jannacci, facciamolo pure con una certezza: da oggi, ad un passo dalla Pasqua, assieme a Giorgio Gaber canterà le storie di noi umani al popolo di angeli, che forse ha perso da un pezzo le contraddizioni strampalate dell’umanità. Per fortuna, non siamo tutti uguali e pochi di noi hanno la fortuna di potersi incontrare nei versi di quella canzone: “Son s’cioppaa… son scoppiato dal ridere ma che pena vederti, fare finta di piangere. Son s’cioppaa, tu che neghi le Marlboro, tu che adesso hai capito come nascono i comici”. Abbiamo imparato la lezione di “come nascono i comici”, proprio quando ci ostinavamo a stare lontano dai nostri simili.

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