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O mare nero, tu eri bianco e trasparente come me senza trivelle

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Rosario Pipolo“O mare nero, mare nero, mare nero, tu eri bianco e trasparente come me”, mi viene da canticchiare dopo che si è spento il battiquorum per il Referendum delle trivelle. Il verso di Giulio Rapetti veniva cantato da un giovanotto riccioluto, per cui una ragazza liceale si è presa quattro la settimana scorsa per aver dichiarato che “fosse fascista”.

Non mi ha sorpreso più di tanto questo ritaglio scolastico di colore. Nel nostro Belpaese ciarlatano si va ancora avanti a connotare destra o sinistra per capire il valore di una presa di posizione. E’ vero che l’astensione è prevista dalla Costituzione Italiana, ma d’altro canto si creano le condizioni per non andare a votare.
Ahimè, finiti i tempi delle Balene Bianche che, una trentina d’anni fa dalle mie parti, galleggiavano tra parrocchie e Caritas regalando borse zeppe di spesa per una settimana, scampando il pericolo di astensionismo alle amministrative.

I tempi sono cambiati. Se avessimo messo i seggi nel nuovo Centro Commerciale di Arese, alla periferia di Milano, avremmo abbattuto l’astensionismo? Forse sì, avremmo raccattato preferenze tra tutte le auto in fila in autostrada. Ecco il nuovo cliché dell’italiano medio nell’agorà dello shopping: prendersi a mazzate per un coscetta di pollo fritto. Quanto ci vuole poco per barattare l’ultimo barlume di senso civico.

Dopotutto, come ha twittato qualche piccolo “saggio”, ci sta pure che gli italiani volessero le famigerate trivelle senza passare per ambientalisti radical-chic.
Non c’è da meravigliarsi e qui mi viene in aiuto Lucio, non quello paventato all’inizio di questa riflessione, ma Dalla: “La spiaggia di Riccione, milioni di persone le pance sotto il sole, il gelato e l’ombrellone abbronzati un coglione, non l’hai capito ancora che siamo stati sempre in guerra.” Non ci spaventavamo le bombe del conflitto serbo-bosniaco dall’altra parte dell’Adriatico, figuriamoci se la prossima estate ci impressioneranno una paio di trivelle in mezzo al mare mentre ci rifacciamo la nuova tintarella.

“O mare nero, mare nero, mare nero, tu eri bianco e trasparente come me”.
Mannaggia, questo motivetto è diventato un tormentone. Scusi, professore, mette anche a me un 4 pieno se dico che Mogol era un ambientalista? Pensi un po’, prima che arrivassero le trivelle. In alternativa la tintarella ce la rifaremo a Sharm.

Rivolta Battiquorum? No, Maestà. Questa è rivoluzione social!

Luigi XVI fu sciocco fino alla fine. Quando il popolo riuscì a mettere le mani sulla Bastiglia il 14 luglio 1789, chiese con quella flemma disgustosa: “E’ una rivolta?”. Gli risposero: “No, Maestà. E’ una rivoluzione”. Mi sembra che certi umori si ripetano. L’urlo della rete che ha sognato il Battiquorum è stato ridimensionato. Tolta qualche riflessione sparsa, dilaga una convinzione: la rivolta digitale ha fatto da supporto ai metodi tradizionali per il raggiungimento del quorum (non accadeva da 16 anni), quelli dei movimenti referendari, dei partiti politici o dei volontari sparsi in Italia sotto i gazebo.
Non è così, nonostante si voglia ridurre tutto nell’ottica di uno sgambetto al governo. Per qualcuno sarà stato pure uno sbalzo di pressione anti-berlusconiana, ma non commettiamo l’errore del sovrano francese. Questa è una rivoluzione social. Di mezzo non c’è semplicemente Internet, ma la sfera social del web, che mette a tacere chi spaccia ancora i social network per covi di ragazzini o fancazzisti. Intanto, i numeri ci dicono che in Italia il popolo di Facebook abbia raggiunto i 20 milioni di utenti unici. Tolti da mezzo coloro che si dilettano a postare inutili o mielose frasette fatte, c’è una popolazione consistente che davvero potrebbe decapitare i sovrani sgraditi. Diciamoci le cose come stanno. Noi italiani non siamo né i francesi delle banlieue né gli indignados di Porta del Sol per restituire alla “piazza” il valore di unione che abbatta ogni frontiera sociale, culturale, politica, religiosa.
Tuttavia, nella rete sociale si è riversato quella radice civica, che va oltre il nostro naso. Nelle settimane precedenti al Referendum del 12 e 13 giugno  a palleggiare il battiquorum da una bacheca all’altra di Facebook si sono ritrovati leghisti e comunisti, fricchettoni di destra e anarchici, bigotti clericali e proletari, bacchettoni e smanettoni, italiani e stranieri trapiantati nel nostro Paese.  Luigi XVI non distinse una rivoluzione da una rivolta e fu decapitato.  Sotto a chi tocca?

Referendum: Le lacrime dell’operaio Fiat di Mirafiori

A quest’ora le lacrime dell’operaio Fiat di Mirafiori avranno fatto il giro del mondo. Nella grande abbuffata degli anni Ottanta, sull’onda del rampantismo aggressivo dell’Italia gaudente, ce n’era per tutti: per gli operai come per i sindacalisti. Nell’ingrandimento vintage di quella grande abbuffata pseudo-proletaria, c’è pure da dire che “la casata” automobilistica italiana i sostegni dallo Stato italiano se li prendeva. E adesso sull’orlo del precipizio, impreziositi da qualche starnuto di ascendenza sabauda, ci diciamo tutti: “Arrivederci e grazie”.
Tutto con una miserevole tranquillità, come se non fosse accaduto niente, come se tutte quelle automobiline che circolavano nel Belpaese del Boom economico del secolo scorso non le avessero fabbricate gli operai. La storia delle quattro ruote in Italia l’ha scritta la Fiat, ma siamo stati tutti noi ad aver contribuito a darle credibilità.
E’ inutile piangere sul latte versato, gli errori li abbiamo commessi tutti quanti, incluse le famiglie dall’inclinazione assistenzialista: “Compriamo la macchinina Fiat, così diamo una mano all’economia italiana”. A chi abbiamo dato una mano ai servi o ai padroni? Forse a tutti e due, perché negli ultimi decenni gli errori diventati orrori sono quelli che hanno trasformato a lungo raggio i servi in padroni e i padroni in servi. Tutti ci siamo alternati da entrambe le parti della barricata, a ricattare o ad essere ricattati.
Adesso c’è un referendum e la faccenda è molto più seria di quello che pensiamo: se chiude lo stabilimento di Mirafiori, un lungo e controverso capitolo della storia del lavoro in Italia andrà a farsi benedire. Se il pianto dell’operaio Fiat fosse una manciata di lacrime di coccodrillo, allora potremmo otturarci il naso e far finta di niente. Se quelle lacrime fossero invece una presa di coscienza o una dolorosa riflessione, un Paese civile e democratico ha il sacrosanto dovere di prenderne atto.