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Il ritorno di Obama, da Superman a Peter Parker

Lo sciamano ci aveva azzeccato. Barack Obama è stato rieletto alla Casa Bianca. Il buongiorno dell’America intona “Working on a dream” di Bruce Springsteen e fa scivolare la speranza e la fede in questa preghiera ruggente, piuttosto che nelle intuizioni di uno stregone qualunque che vide Romney messo in un angolo.
I social network sono stati decisivi in questa campagna elettorale: hanno smascherato i numeri gonfiati di una  “rincorsa affannata” alla Casa Bianca; hanno permesso agli americani di spiaccicare le loro piccole storie quotidiane in faccia ai due candidati; hanno filtrato in un ring alternativo l’atteso duello televisivo che forse non ha più ragione di esistere; hanno allungato fino all’ultimo spicciolo il fund-raising elettorale.

Non hanno vinto né Democratici né Repubblicani, perchè l’America disillusa dalla recessione agghiacciante non pende più da nessuna parte. Ha vinto Barack Obama, il presidente che ha appeso al chiodo il mantello e la calzamaglia da supereroe, ammettando le sue colpe e rafforzando il coraggio che manca in questo momento all’Europa: tornare a puntare sul “Pubblico”.

Passata la baraonda elettorale però, gli americani dovranno convincersi che il Presidente degli USA non è più il Superman dai superpoteri stratosferici. In questo secondo mandato gli toccherà essere Peter Parker, il volto umano dell’Uomo Ragno di Stan Lee, perchè “da un grande potere derivano grandi responsabilità”. E adesso abbiamo la certezza che la “sedia vuota”, a cui si è rivolto Clint Eastwood nella folcloristica sceneggiata repubblicana, era già occupata da Peter Parker, l’alter ego a fumetti del neo vincitore.

Che senso ha un sequel di “Dallas”? Forse meglio un prequel…

Torna Dallas, di martedì e su Canale 5. Per la generazione 2.0 rappresenta forse solo la città dove assassinarono John Kennedy; per le nostre mamme invece è il titolo di uno dei serial televisivi più famosi al mondo. Spopolò negli anni ’80 e si contese con l’altra saga, Dinasty, lo scettro del prime time.

Torna il malefico J.R., interpretato dall’impeccabile Larry Hagman, ma ormai i tempi sono cambiati per loro come per noi. Torna lo stesso giorno, proprio di martedì come allora, ma in una tv che affoga nell’ingordigia e nello spaesamento del digitale terrestre. L’America degli Ewing, sciabordante dal tubo catodico, rifletteva l’irrefrenabile rampantismo del repubblicano hollywoodiano Ronald Reagan.
Quell’America è roba da libri di storia ormai: siamo in piena recessione, la classe media è stata spazzata via e il Presidente dalla pelle nera, icona del “New American Dream, sta rincorrendo con il fiatone il rivale repubblicano, pronto a scippargli il trono alla Casa Bianca tra meno di un mese.

Il Southfork Ranch di Dallas, location del serial, che ho visitato nel 2005, si è trasformato in un mini resort per cerimonie e meeting, nonché meta di pellegrinaggio per i più fanatici. I curiosoni, attratti dalla mega piscina in cui Bob e Pamela si tuffavano, si sono dovuti ricredere. Tanto rumore per nulla. Si trattava di piccola pozzanghera nel cemento, simile alla piscina gonfiabile della mia vicina di casa.

Nelle nuove puntate la famiglia Ewing è quasi decimata e dei nuovi rampolli forse non ce ne fregherà più di tanto. Forse più di un sequel, sarebbe stato proficuo scrivere e mandare in onda un “prequel”, per capire come i petrolieri più famosi del piccolo schermo yankee fossero arrivati al potere e con quali appoggi. Avremmo riletto l’America degli anni ’70, flagellata dai traumi post-Vietnam, dando una bella lezione anche all’oratore Clint Eastwood. Il monologo della sedia vuota, inscenato alla Convention Repubblicana, avrebbe dovuto dedicarlo a Richard Nixon. E un prequel di “Dallas” gli avrebbe dato indicazioni precise.

Riforme e Sanità, svolta storica negli USA

“Ama il medico come te stesso e metti mano al portafoglio” poteva essere uno dei comandamenti dell’America graffiata dalle lobby e dalle compagnie assicurative. Giù le mani della Sanità privata perchè dopotutto “la salute non è un diritto di tutti” e nella lotta alla sopravvivenza si salvi chi può. E dei 50 milioni di americani senza copertura sanitaria? Per decenni l’America ha sentito fiumi di parole al Congresso;  ha sperato nell’indignazione di alcuni Presidenti che promettevano, ma poi cedevano al ricatto delle lobby;  ha messo a tutto volume le canzoni di Dylan e Baez, illudendosi che la musica potesse essere ancora l’unica arma di protesta; ha cacciato dalla Casa Bianca il guerriero George W. Bush dopo gli sprechi enormi di velleità belligeranti e colonizzatrici. E venne un uomo, lui il primo Presidente afro-americano, che di fegato ne ha avuto. La riforma voluta da Barack Obama non è più l’ombra di un manifesto da campagna elettorale sotto il tormentone “Yes, we can”, ma è il primo passo di una svolta. Non illudiamoci che gli USA si convertano ad una Sanità Pubblica sul modello europeo. Scordiamocelo, è utopia, pura demagogia.  La Camera dice sì ad una legge che partorisce finanziamenti pubblici e incentivi rivolti a oltre 30 milioni di cittadini che non possono permettersi di sottoscrivere una polizza. Obama e i Democratici fanno bene a festeggiare perchè questa è una data storica, ma con le dovute cautele:  il percorso è ancora tortuoso e le insidie sono dietro l’angolo perchè potrebbero venire dal basso.