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Iole Di Lauro, la mia maestra e quei 21 scalini

E pensare che a separarmi da Iole Di Lauro, in quella mattina del settembre del 1979, c’erano soltanto 21 scalini, quelli della Scuola Elementare di via Dei Mille ad Acerra. Li salii uno ad uno con mia mamma e in spalla avevo la cartella. Era il primo giorno di scuola. Seconda porta a sinistra, in un’aula soleggiata del II Circolo Didattico e lei era lì. Sussurrai a mia madre: “Mi piace, mi fa impressione”, questa era la mia espressione infantile per indicare che una persona mi aveva folgorato. In un angolo della classe, c’era un bimbo che singhiozzava perché voleva tornarsene a casa. Mi sedetti accanto a lui e, dandogli una pacca sulla spalla, gli dissi: “Perché fai così? Guarda che bella maestra che c’è capitata”. Lui mi sorrise e da allora io e Giuseppe Scolaro diventammo amici per la pelle. La classe si riempì e iniziò il nostro viaggio. Sì, un bel viaggio durato cinque anni che trasformò quell’aula in una piccola grande famiglia, decifrando il ciclo della nostre vite.
Iole Di Lauro era una giovane maestra venuta da un piccolo paese dell’avellinese. Era moderata nell’animo, era modesta, romantica e sentimentale nel suo stile di vita, ma perspicace nell’essere precorritrice, anticipando i tempi e costruendo una congiuntura tra la scuola del passato e quella del futuro. Ha puntato, nelle vesti di educatrice, su una formazione che avesse alla base la creatività, lo slancio verso l’innovazione, la multimedialità, nell’uso dei diversi linguaggi. Iole Di Lauro fu una convinta ambientalista quando ancora esserlo non era di moda; fu una profonda sostenitrice della ricchezza della diversità e dell’integrazione razziale prima ancora che l’Italia si svegliasse meticcia; rinunciò al solito canzoniere per bimbi,facendoci cantare i grandi cantautori come Sergio Endrigo. Fu coraggiosa quando strinse un patto d’acciaio con i nostri genitori e trasformò la nostra vita da scolari nel prolungamento di quello che eravamo a casa. Fu un modo intelligente per difenderci dal grigio che c’era fuori, per mettere il silenziatore agli spari dei mostri della Gomorra di allora, che spargevano sangue nella nostra città, mentre l’Italia si illudeva di cancellare,attraverso l’euforia degli anni ’80, lo shock per il buio del decennio precedente, sulla zattera che da Piazza Fontana si era spinta fino al cadavere di Aldo Moro.
Iole Di Lauro segnò il mio destino negli anni delle scuole elementari, nel giorno in cui le regalai “Il giornalino di Pinocchio”, disegnato in un pomeriggio in cui sbuffavo davanti alla noiosa matematica o forse l’8 marzo del 1982, quando mi ritrovai con un fiocco blu sul braccio destro come premio per aver scritto un tema, che oggi penso sia stato il mio primo articolo: un bambino spiegava al suo cagnolino il significato del giorno della Mimosa.
Poi arrivarono gli esami e, nel luglio del 1983, fu la volta della nostra ultima pagella. In tutti quegli anni mi sentii un burattino come Pinocchio, ma fu lei, la mia maestra, a trasformarmi in un bambino vero. Sulla mia guancia c’è ancora il segno della sua ultima carezza  e quella raccomandazione con il tono severo e dolce di una mamma: “Non sarete mai soli, ci sarà sempre qualcuno a preoccuparsi di voi”.  Uscito da scuola, fui preso da un groppo in gola, mi voltai indietro, non c’era più lei e neanche i miei compagni di classe di cui non potevo fare a meno. Come avrei fatto senza Paola che, appena spuntava la primavera, diventava smaniosa perché avrebbe voluto mandare all’aria il grembiule; come avrei fatto senza Giuseppe e Mimmo con cui ne avevo combinate di cotte e di crude; come avrei fatto senza Marco che arrivava  puntualmente di corsa con il fiocco messo al contrario; come avrei fatto senza Laura che sgranocchiava patatine fin dalle nove del mattino; come avrei fatto senza Carmela che percorreva con me un pezzo di strada fino a casa; come avrei fatto senza Margherita e quella sua gentilezza che ti acquietava; come avrei fatto senza gli occhi azzurri di Angela o senza Stefania che si improvvisava con la matita una stilista di moda; come avrei fatto senza Lilly che mi passava caramelle e gomme da masticare; come avrei fatto senza Orsola con cui condividevo la passione sfrenata per il teatro; come avrei fatto senza Luisa (Tassari) che sbraitava perché non voleva fare i riassunti;  come avrei fatto senza Loredana, la bambina che mi aveva rapito il cuore fin dalla prima elementare: non feci in tempo a dirle che finalmente “mi ero tolto quel maledetto bendaggio che mi faceva sentire un pirata”, che lei poteva aspettarmi perché, quando saremmo stati più grandi, io sarei passato con un cavallo bianco a prenderla come nelle fiabe e l’avrei sposata. Io non ho mai dimenticato tutto questo, nonostante il passare degli anni, nonostante i continui vagabondaggi da randagio in giro, nonostante tutto.
E oggi risalgo quei 21 scalini per tornare da te, Maestra, per restituirti quel fiocco blu e quel grembiule che non erano per me una fastidiosa divisa, ma rappresentavano il significato di uguaglianza che solo la Scuola Pubblica può e deve garantire. E tu, Maestra, sei il fiore all’occhiello di questa Scuola Pubblica, a volte distratta nell’attribuire riconoscimenti, a volte maltrattata da chi non si accorge che essa alleva anche gli educatori per vocazione.  Le maestre non vanno mai in pensione, ma restano sempre protagoniste in un armonioso intermezzo tra il banco e la cattedra, come il buon profumo di una pagina stagionata del libro Cuore. Grazie  perché nel primo verso di quella canzone c’era la profezia: “Per fare un albero, ci vuole un seme…”. E noi tuoi ex alunni se oggi siamo diventati degli alberi robusti è perché alla nostra radice c’è quel seme, tu maestra. Goditi la meritata pensione, ma restaci accanto.

Tania, l’insegnante con i sogni lasciati al vento

Il Presidente Giorgio Napolitano ha firmato la nuova manovra finanziaria del governo, ricordando a tutti gli italiani che è il momento di “fare sacrifici”. Cosa abbiamo fatto fino a questo momento? Il commento che Tania ha lasciato al mio post sulla nuova Finanziaria 2011-2012 mi ha colpito e mi sono detto: per una volta voglio bloggare con le parole di una lettrice. Ho conosciuto Tania su un autobus che ci portava a scuola alla fine degli anni Ottanta. Poi ci siamo persi di vista e il web ci ha fatto ritrovare. Quella di Tania non è una lamentela, è un’amara presa di coscienza che si rifugia in quella che appare come la pagina da strappare di un vecchio diario di scuola. Questa pagina va conservata alla luce dei fatti di questi giorni:

“In questi giorni avverto una strana sensazione di impotenza dinanzi a cotanta indifferenza, a scuola tutti proseguono per la loro strada come se nulla accadesse, qualcuno sibila un piccolo e rassegnato “mamma mia”. Personalmente ho una rabbia tremenda, è stato già difficile accettare che nonostante la fatica, l’impegno, non ho potuto fare il tanto ambito scatto sociale: io figlia di un autista dell’Atan con madre casalinga e proveniente da una cittadina di periferia non ho mai sognato di diventare ricca. Anzi ricordo le battaglie al liceo quando il prof mi replicava che l’insegnamento mi avrebbe relegato ad una vita di stenti. Io ostinatamente urlavo la mia voglia di dedicare l’esistenza alla conoscenza esplorata ma anche tramandata, speravo al contempo di non condurre una vita tanto sacrificata, mi dicevo tra me e me che comunque avrei avuto un lavoro,ambivo,forse ingenuamente, ad entrare nella così detta classe media, quella che poteva permettersi le vacanze, il cinema ed una pizza al sabato sera.
Oggi a 34 anni, sono insegnante, mio marito è capo stazione, ho due bimbi, un mutuo trentennale per un alloggio di 80 metri quadri. Non posso certamente andare al cinema neanche una volta al mese, abbiamo una piccola utilitaria e ringrazio già Dio perché posso pagare le attività sportive ai bimbi e fare un po’ di mare (in campeggio però!). Poi ad un tratto mi viene chiesto di fare ancora sacrifici. Mi chiedo: o sono l’unica sfigata di Italia che non ha rendite, che ha una famiglia d’origine amorevole, ma che può donarle solo aiuti morali – essendo anche loro solo pensionati a stento ci invitano a pranzo un paio di volte l’anno – oppure qui il Paese è in uno stato remissivo e non si rende conto che l’Italia sta andando alla deriva”.

Caro Presidente Napolitano, mi scuso per la sfacciataggine: ci pensa lei a rispondere a Tania? Io non ne ho né il coraggio né l’autorevolezza. Tania ha un sacrosanto diritto, quello di riprendersi i sogni lasciati al vento.

Scuola, caro o maledetto maestro unico?

Non vuole essere uno sdolcinato incipit da libro “Cuore”, ma io sono figlio della generazione che alle Elementari si è formato con la maestra unica. Il mio primo giorno di scuola? Settembre 1979, in cattedra la dolcissima maestra Iole e al mio fianco il compagno di banco Giuseppe. Quei cinque anni al II Circolo Didattico di via dei Mille ad Acerra, ad una manciata di chilometri da Napoli, sono stati davvero idilliaci. Quando “il maestro unico” è stato abolito, io avevo lasciato quei banchi da qualche anno, ma dal punto di vista sentimentale non l’avevo mandata giù! Lungo il percorso mi sono convinto che “il maestro multiplo” avrebbe colmato alcune mie lacune e avrebbe indicizzato la mia conoscenza su diversi fronti. Adesso, per tagliare i costi della “scuola sprecona italiana”, il Ministro Gelmini vuole fare un passo indietro e tornare al maestro unico. Mentre il mondo della scuola protesta (i sindacati hanno appena proclamato uno sciopero generale in data da definire), la Camera dice sì al nuovo decreto legge. Non devono essere né gli alunni né le famiglie a pagare questo scotto, ma i fannulloni. Per ridurre le spese inutili, Mariastella Gelmini dovrebbe puntare il dito contro gli sfaticati della scuola pubblica italiana: gli invalidi fasulli che sono balzati in vetta alle graduatorie; i supplenti che fanno tre giorni di annualità e poi si mettono in maternità; gli assenteisti che usano i certificati medici per fare “i cazzi loro”; o alcuni delle segreterie che si scaccolano il naso per metà giornata. Per fortuna, il corpo docenti come il resto del personale non è tutto così. Giù le mani dalla mia maestra Iole, ma per mio figlio non voglio inciampare nella nostalgia: un solo insegnante è roba da libro Cuore!