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Professò, lo sapete dei cinque arresti al Villaggio dei Ragazzi di Maddaloni?

Non c’era via di scampo perché la provincia pacchiana era lì che ti spediva. Quando nei paesotti alla periferia di Napoli si chiedeva ai santoni locali quale fosse il miglior percorso di studi per i figli, ‘o Professore rispondeva: “A Maddaloni al Villaggio dei Ragazzi”. L’unica alternativa poteva essere il liceo “Giordano Bruno” e nessuno poteva fiatare. Per fortuna c’era chi come me aveva una mamma napoletana, guerriera tra l’altro, che in una furibonda litigata con mio padre nel 1987 si fece afferrare per pazza. Per mio figlio nessuna divisa, nessuna scuola privata, nessuna atmosfera soffocante e limitata nel feudo della periferia casertana tra i vassalli e i valvassori delle scolette locali. Mamma picchiò duro e alzò la voce: “Piuttosto se ne vada al Garibaldi o al Genovesi a Napoli, ma io lì non ce lo mando”.
E adesso chi glielo dice a ‘o Professore che il mito del Villaggio dei Ragazzi di Maddaloni è crollato con un soffio di vento? Lunedì scorso la notizia è balzata sulle cronache di tutti i giornali, incluso il Corriere del Mezzogiorno: Abusi al Villaggio dei ragazzi, i prof cattolici chiedono la testa di don Cavallé, il presidente della fondazione dell’istituto casertano. La sconfortante notizia corre veloce e lascia tutti sotto choc, soprattutto il mondo cattolico e clericale. E adesso stanno sbiancando tutti i genitori sbruffoni, figli della piccola borghesia locale, che una ventina d’anni fa lasciavano con orgoglio i  pargoli “in divisa” sulla banchina delle stazioni della linea Napoli-Caserta via Cancello. Far frequentare quell’istituzione voleva dire appoggiare la religione meschina  “del vivere per apparire”, che nei piccoli centri si trasforma in sindrome che ammazza e mortifica le coscienze e gli intellettuali autentici.
Ahimè, caro Professore, mammà ci aveva visto lungo e lei si è fatto mettere in saccoccia da una casalinga, una croce per mio padre  in 36 anni di matrimonio, perché è stata capace di smantellare uno per uno i falsi miti paesani, inclusa un’istituzione scolastica che per fortuna non compare nel mio percorso di studi.

Caro Babbo Natale, ecco perchè non ti ho scritto più!

Caro Babbo Natale,
in giro sento dire che non servi più, che anche per te è arrivata l’ora della pensione: la previdenza sociale di quest’Europa traballante potrà sostenerti? Secondo me ti rinchiudono in una triste casa di cura per anziani e ti liquideranno così: “Era troppo stanco, si sentiva inutile”. Macché, questa è la solita frase fatta per tenere a bada i rimorsi delle nostre coscienze quando sbattiamo gli anziani negli ospizi.
Ho visitato la prima casa per anziani, nei primi anni ’80, durante le scuole elementari. La maestra ci disse che avremmo adottato un nonno per Natale. Io allora ne avevo già uno e credevo che tutti i vecchi avessero una bella nidiata di nipotini. Mi sbagliavo così come sugli spot che mi facevano vedere le case di cura come degli alberghi.  Il mio “nonno per un giorno” si chiamava Vincenzo e ti assomigliava tanto. Per un periodo mi convinsi che fossi davvero tu, quell’anziano signore sulla sedia a rotelle, prigioniero in quell’ospizio alla periferia di Napoli. Tentai invano di persuadere i compagni di classe a liberarlo e a portarlo a casa con noi. Nessuno mi diede ascolto.
La maestra mi suggerì di scriverti una letterina per chiederti di prenderti cura di Vincenzo. Ed io che pensavo tu portassi solo i doni ai bambini! Qualche mese dopo tornai dal mio nonno adottivo, ma lui non c’era più. Mi fecero credere che la mia calligrafia era così pessima che tu non avessi letto la mia richiesta. Per tanti anni ce l’ho avuta con te ed ecco perché non ti ho più scritto.
Caro Babbo Natale, torno a scriverti dopo trent’anni: puoi caricare sulla tua slitta più bambini possibili e fare in modo che trascorrano il giorno di Natale con i tanti nonni e nonne dimenticati?
Chissà che non sia il Natale giusto che io ritrovi pure Vincenzo, quel vecchietto sulla sedia a rotelle che ti assomigliava tanto.