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Russia e Ucraina nella guerra dei social media tra fake news e amare verità

Illustrazione Cover di The Daily Beast


La guerra tra Russia e in Ucraina si sta combattendo anche con i social media, da Telegram a TikTok, paradossalmente lanciati da Russia e Cina, i due nemici più temuti dalla NATO. Agli inviati di guerra dei media tradizionali, che in questo conflitto spesso sono stati ostacolati nel reperimento di notizie in loco, si è affiancato il citizen journalism. Da una parte, il giornalismo partecipativo ha fatto della gente comune uno dei protagonisti della narrazione di questa guerra sanguinosa, dall’altra si è assiepato tra fake news e amare verità.

GUERRE INTELLIGENTI

Se faccio un passo indietro e ripenso alle pagine di Guerre Intelligenti, il volume che mi portò a lavorare a fine anni ’90 alla Federico II di Napoli nel team della sociologa Rossella Savarese, sembrano trascorsi anni luce dalla Prima Guerra del Golfo, nell’evoluzione dei sistemi di informazione e delle loro relazioni con la politica locale. La Russia di Putin ha fatto scricchiolare lo slogan “si vince senza combattere” e sta trascinando l’Europa in una guerra che convoglia strategie militari tradizionali.

MOSCA E LO STILLICIDIO DELL’INFORMAZIONE LIBERA

A livello mediatico cosa accade? Se allora Peter Arnett, il celebre giornalista della CNN, si fermò a Baghdad per raccontare le notizie censurare da Saddam Hussein, oggi gli inviati delle maggiori testate del mondo a Mosca hanno dovuto preparare “i bagagli” dopo la decisione della Duma di imbavagliare l’informazione libera.
La Russia è tornata indietro ai tempi del Muro di Berlino con la pena di 15 anni di carcere, voluta per fare uno stillicidio della stampa libera e indipendente.
Al di là dei nostri corrispondenti messi con le spalle al muro, restano i social media a far dannare Putin e il Cremlino. Nonostate la chiusura dei rubinetti di Facebook, Twitter e Instagram al di là degli Urali, l’mbarazzo per gli orchi dell’ex Unione Sovietica è tanto: da una parte l’indignazione per l’uccisione in Ucraina di diversi messaggeri dell’informazione, tra cui l’ex collaboratore del New York Times Brent Renaud, il cameran di Fox News Pierre Zakrzewski e la collega ucraina Alexandra Kuvshynova, dall’altra lo sputo in faccia alla censura della giornalista russa della Televisione di Stato Marina Osiannykova.

GUERRA E SOCIAL: DA TELEGRAM A TIKTOK

Nessuno avrebbe immaginato che proprio Telegram, la piattaforma di messaggistica fondata nel 2013 da un russo, Pavel Durov, sarebbe diventato il principale veicolo di informazioni e propraganda al tempo stesso del governo ucraino nella guerra che sta tenendo il mondo intero con il fiato sospeso.
Gli stessi inviati in Ucraina delle grandi e medie testate giornalistiche hanno dovuto cedere al ripiego della citazione Fonte: Telegram per completare i loro reportage.
TikTok, lanciato in Cina solo sei anni fa e in voga tra i giovanissimi per creare video musicali bizzarri, si è trasformato invece dal social della goliardia allo spacciatore dei video dei crimini di guerra.

IN TRAPPOLA TRA FOTO RITOCCATE E VIDEO RICICLATI

Nella guerra tra Russia e Ucraina che impedisce in tutti i modi ai giornalisti inviati di spostarsi con agilità e andare fino in fondo – chissà cosa direbbe il primo inviato bellico della storia William Russell (per The Times nella guerra in Crimea del 1853-1856) – i social media stanno dando un grande supporto.
Il rischio della fake news e della propaganda bellica da entrambi gli schieramenti tra foto ritoccate e vecchi video riciclati – come in ogni conflitto del passato tra l’altro – resta al centro del dibattito e non è l’unico prezzo da pagare per l’informazione. A quasi un mese di guerra sono state prese diverse cantonate, anche dai media più autorevoli, dalla messa in onda di una sequenza di un videogame al posto di un borbardamento ad un missile lanciato nel Donetsk fatto passare per un attacco a Kiev.
Del resto come amava ripetere il saggio Winston Churchill:

Una bugia fa in tempo a compiere mezzo giro del mondo prima che la verità riesca a mettersi i pantaloni.

Alluvione, i social media tolgono fango a Genova e Parma. I bonus dei manager no!

Rosario PipoloIl Nord Italia è stato travolto dal fango tra Genova e Parma piegate in due dall’alluvione. All’inizio del 2014 scrivevo su questo blog: “L’Italia non è un paese di prevenzione, non lo è mai stato e non riesce ad esserlo al tempo in cui le casse degli enti locali si svuotano per i rimborsi truccati di qualche scellarato che collezione scontrini di carta igienica e albi a fumetti”.

Non è cambiato nulla e, per dimostrarlo,  bastarebbe fare un copia e incolla di vecchie conversazioni disperse tra Facebook e Twitter. Riscriveremo pari pari lo stesso copione. Amarezza e rabbia, basta. Le istituzioni, incapaci di prevedere e tutelarci da catastrofi ambientali di questa portata, dovrebbero prendere lezioni dai social media. In stato di emergenza sanno come far ritrovare uomini e donne di tutte le età, mettendoli di fronte al fatto compiuto.

Mentre a Genova “i manager dei disastri passati”, elencati da Corriere.it, si godono i premi ricevuti tra i 6 mila e i 17 mila euro, i genovesi tolgono il fango con la cantilena della voce da megafono in stile arrotino ambulante: “Non vi lasceremo soli”.
Piuttosto a non lasciare sola la città ligure sono i presidi social efficaci, dalla pagina Facebook Angeli col fango sulle magliette all’account twitter @farmaciaserrage, eccellenza digitale e caso unico in Italia di Farmacia social che fornisce continui aggiornamenti utili alla community in ambito salute.

In questo momento Genova e Parma sono travolte dall’insolito destino, quello di far parte di un Paese come l’Italia in cui il business del cemento prevale sulla politica della sicurezza del territorio e sulle bonifiche che non saranno mai compiute.