Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Archives Giugno 2018

Cartolina da Johannesburg: ho paura degli orrori dell’Apartheid

Dicono che gli italiani si limitino ad uno stopover a Johannesburg, quella che passa per la città più pericolosa del Sudafrica, per poi dirigersi nel Parco Nazionale del Kruger. In realtà a Joburg – questo il nomignolo dato alla città più grande del Sudafrica – c’è poco da scherzare in centro quando la luce affonda nel buio della sera.

I turisti e gli ospiti li sloggiano nei quartieri residenziali per dare loro la solita minestra riscaldata condita dallo “stiamo tutti bene”. I viaggiatori come me, fuori dal gregge, restano in centro perché è qui che si concentrano le ferite da leccare dell’Apartheid.

Le gang attaccabrighe, che si aggirano sulla De Kort street dopo il tramonto, trovano qualsiasi scusa per coinvolgerti in una rissa. C’è ancora tanta rabbia verso chi ha la pelle bianca, anche se alcuni dei residenti di Johannesburg mettono il dito sul fuoco perché ai criminali non interessa il colore della pelle, ti pisciano proiettili in faccia comunque anche per una manciata di grana addosso.

Il mio viaggio a Joburg inizia all’alba su Constitution Hill, il luogo simbolo degli orrori dell’Apartheid chiusi con il lucchetto nella prigione in cui fu detenuto Nelson Mandela. Roy che lavora in questo complesso mi racconta di quando da piccolo sentiva parlare dell’attivista dei diritti dei neri, destinato a diventare il primo Presidente del Sudafrica “libero”.
La censura governativa non faceva circolare alcuna foto. Il viaggio nell’ex prigione è emozionante, la mano di ferro dell’Apartheid discriminava i detenuti per il colore della pelle, rendendo a Mandela e compagni la vita un inferno.

Poi si vagabonda a Joburg tra le strade del centro per ricostruire le tappe del colonialismo olandese e inglese che sfregiò il volto di questo Paese del continente nero. Il Museo dell’Apartheid raccoglie memorie e ce le sputa in faccia, lasciando l’ennesimo rimorso di non aver fatto abbastanza e non averlo compiuto nel tempo giusto.

Il tramonto si scioglie come la sera su Joburg. Io ho paura degli orrori dell’Apartheid e dei governi criminali che ne sono stati complici.

Sudafrica on the road: anche gli elefanti hanno un’anima

Una mattina avevo tracorso più di un’ora con l’elefantessa Thandi. Il Santuario degli elefanti nell’Eastern Cape è stata una tappa importante per imparare qualcosa sul loro piccolo grande mondo, prima di vivere l’emozione di un’intera mattinata nell’Addo Park in Sudafrica.

Non essere africano significa aver vissuto i traumi dello zoo e del circo. Sì, oggi dico “trauma” perché, finché non li osservi nei loro habitat naturale, non puoi capire cosa hanno dentro. Non è questione di essere animalista sfegatato o non,  è questione di prendere coscienza della loro anima.

Ti segna osservare da vicino una ciurma di elefanti passeggiare, raccogliere nella lentezza dei loro movimenti il senso della vita, oltre la buffa proboscite che ci aveva conquistato guardando Dumbo della Disney negli anni della nostra infanzia.
Quando di sbieco vedi l’elefantino inciampare e non riuscire a rialzarsi, sei abbagliato dalla bellezza suprema della maternità. Resta una delle sequenze più emozionanti di questo mio on the road sulla Garden Route la cucitura di istanti in cui  mamma Elefante fa di tutto per aiutare il suo cucciolo.

Thandi e il suo piccolo grande mondo di elefanti hanno ancora tanto da insegnare a noi uomini assuefatti dalla ferocia. Ci sono gesti, come quello di una mamma che fa rialzare il proprio figlio, che non sono rimasugli degli animali addomesticati di un circo.

In quella parte del Sudafrica ho ascoltato la voce di una natura così armoniosa e di Dio capace di aver fatto dell’amore l’unico senso alla nostra vita.

 

E ricorda… un elefante non dimentica niente. (R. Kipling)

Sudafrica on the road: noi un pezzo di mondo in un van sulla Garden Route

Ci avevano piazzato in un van senza sapere quali fossero i nostri punti di contatto. L’unica cosa che sapevamo erano le nostre provenienze: Italia, Inghilterra, Olanda, Stati Uniti, Nuova Zelanda e Sudafrica. Quando percorri in lungo e largo la Garden Route, fioriera sudafricana tra Western e Eastern Cape, ti immergi dietro un sipario della natura.

Tra una remata e l’altra in quella canoa lungo uno dei fiumi del Garden Route National Park avevo trovato briciole della storia personale di Gareth, la nostra guida,  infanzia e adolescenza a Port Elizabeth, nonna scozzese, una nuova vita a Città del Capo.
La natura ti fa ritrovare i tuoi simili, perché durante una lunga scarpinata, incantato di fronte a un panorama, ascoltando la voce fragorosa dell’oceano puoi riconoscere chi affronta la quotidianità con quel pizzico di strafottenza e legarti inevitabilmente a lui.

Quei duemila chilometri on the road assieme a  Gareth, Sue, Eddy, Hanne, Bodhi, Lana e Sarah, mi avevano restituito il clima di condivisione tipico dei tempi in cui vai via da casa e ti barcameni in uno stile di vita autonomo.
La casa di Mark a Sedgefield era diventata, nel giro di qualche giorno, il punto di partenza e ritorno dalle nostre scorribande. Mark, nato e cresciuto a Johannesburg, era un perfetto padrone di casa: ospitale, accogliente, capace di preparare ghiottonerie con pochi giochi di prestigio ai fornelli.

Era la sera, dopo cena, sotto le stelle del Western Cape che ci aprivamo sorseggiando un bicchiere di vino, eravamo così lontani geograficamente ma vicini nel nostro modo di essere, frantumando le pareti che, a differenza di tanti, non ci hanno mai sottratti all’essenza di crescere come autentci esploratori della libertà.

Ci sentimmo un pezzetto di mondo, dentro e fuori quel van, guardando diritto negli occhi il crepuscolo oceanico di Jeffreys Bay, sperando che tutto questo non finisse mai. L’ingrata consapevolezza da quarantenne che non avrei rivisto più Gareth, Sue, Eddy, Hanne, Bodhi, Lana e Sarah fece improvviso spazio alla lucida speranza del instancabile viaggiatore: non li avrei dimenticati mai più.

 

Le persone non fanno i viaggi, sono i viaggi che fanno le persone. (J. Steinbeck)