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3 serie tv cult di Netflix da vedere almeno una volta nella vita

Netflix, la piattaforma americana di streaming più famosa del pianeta, ha frantumato il perimetro del piccolo schermo tradizionale. Negli ultimi dieci anni ci ha offerto serie televisive che hanno lasciato il segno.
Non siete stati ancora in Spagna, Corea del Sud o Gran Bretagna? Prendete il telecomando, radunate un gruppo di amici per una bella maratona e buon viaggio.

LA CASA DI CARTA

Netflix e la Spagna alla riscossa con La casa di carta (2017-2021), una delle serie tv più amate che in 48 puntate ha conquistato il pubblico di mezzo mondo. Non mi dite che non avete sentito dei colpi alla Zecca di Stato e alla Banca Centrale a Madrid per opera di folli rapinatori mascherati da Dalì e capeggiati dal geniale Professore Salvador?
Gli episodi sono da mandar giù tutti d’un fiato e in una decina di giorni riuscite a farli fuori tutti, o quasi. I protagonisti, interpretati da un cast di alto livello, si portano con loro storie di vita intriganti e commoventi che filano un plot pieno di colpi di scena. Così questa ciurma di criminali, agli occhi dell’opinione pubblica, diventerà uno nuovo squadrone di “partigiani” alla ricerca della libertà lontano dalle logiche di potere e dalle contraddizioni dello Stato. La versione spagnoleggiante della nostra antifascista Bella Ciao sarà un vero hit della colonna sonora, con impliciti riferimenti agli anni bui della Spagna franchista.
La casa de papel, questo è il titolo originale, ha dato via allo spin-off Berlino (2023) del quale è disponibile già la prima stagione interpretata dal bravissimo Pedro Alonso.

SQUID GAME

Netflix vi farà preparare il bagaglio per un viaggio in Corea del Sud con Squid Game (2021), la pluripremiata e criticata serie tv. Nove episodi mozzafiato da vedere in una giornata scritti e diretti magistralmente dal sudcoreano Hwang Dong-hyuk. Con un ottimo cast asiatico, Il gioco del calamaro – questo è il titolo tradotto in italiano – ha alzato un polverone di polemiche ovunque perché colpiva il target fragile adolescenziale, istigandolo ad uccidere.
Cosa succede se c’è in palio un premio da quasi 5 milioni di dollari per partecipare a un gioco spietato dove vince chi prevarica sull’altro, ammazzando tutti gli altri concorrenti? Una fotografia contemporanea che denuncia la sfrenata competetività che sta mettendo tutti noi stupidi essere umani gli uni contro gli altri. Chi guarda la serie con il solo focus del game si perde il risvolto critico verso la società sudcoreana e i suoi fallimenti di politiche sociali tra collassi economici e inflazione sulla coda del ‘900.
Squid Game ha il merito di far tornare a galla la rinascita della cinematografia coreana tra stile e poesia a partire dagli anni ’90, da A Petal di Jang Sun-Woo al più recente Parasite di Bong Joon-ho.

BLACK MIRROR

Black Mirror (2011-2023) è tra le serie tv più longeve trasmesse da Netflix e ogni episodio è autoconclusivo. Pertanto, potete mandarli giù come mini film di poco più di un’ora nell’ordine che volete. Un viaggio in Gran Bretagna per la maggior parte delle sceneggiature che affrontano il tema dell’invasione delle nuove tecnologie e l’impatto che stanno avendo sulle nostre vite.
Black Mirror è una vera e propria sfera di cristallo perché diverse puntate sono state profetiche rispetto ai tempi con finali che ci hanno lasciato a bocca aperta.
Le prime due stagioni, arrivate in Italia tra il 2012 e 2013, sono quelle rimaste nel cuore degli appassionati: girate a budget ridotto attirano per quella fotografia grezza che, solo in apparenza, li fanno apparire come dei vecchi B-Movie. Ecco la mia playlist da “vedere assolutamente”: The National Anthem (Stagione 1), Be Right Back (Stagione 2), White Christmas (Speciale 2014), San Junipero (Stagion 3), Black Museum (Stagione 4), Striking Vipers (Stagione 5) e Joan is Awful! (Stagione 6).
In tutto questo tempo Black Mirror è cambiata molto passando dalle remote minacce dei social network a quelle più attuali dell’Intelligenza Artificiale, che può rendere l’unicità della persona umana nella frantumazione di uno, nessuno e centomila. Le riflessioni abbondano, nonostante la serie abiba perso la fragranza degli esordi, così come i dubbi su ciò che sia etico.

20 anni di Facebook tra innovazione, trappole e poca vita

I 20 anni di Facebook dovevano ridursi al passaggio del vecchio “libro delle facce” delle università americane ad uno strumento online per tenere in contatto gli studenti degli atenei d’oltreoceano. Non è stato così perché Zuckerberg e la sua brigata smanettona hanno cambiato le nostre vite, nel bene e nel male.
Cosa stavate facendo mercoledì 4 febbraio 2004? Scavate nella memoria perché quel giorno avrebbe riscritto le pagine della storia dei nuovi mezzi di comunicazione, più di quello in cui la carcassa di un televisore in bianco e nero aveva prodotto nel soggiorno dei nostri nonni nelle seconda metà del Novecento.

FACEBOOK E LA PRIMA ISCRIZIONE

20 anni di Facebook diluiti in una gelida domenica d’inverno del 2008, il 13 gennaio per l’esattezza, a casa della mia amica Valeria nel centro di Milano, a pochi passi dalle guglie del Duomo. Accesi il PC, eravamo seduti al tavolo in cucina con un gruppetto di amici. Davide, allora studente di giurisprudenza alla Statale, mi disse: “Cosa stai combinando?”.
In realtà completavo l’iscrizione a Facebook, il social network di cui mi aveva parlato la mia amica e che aveva conosciuto durante un’esperienza di vita in Australia dell’anno precedente. Gli iscritti in Italia si contavano, per la maggior parte eravamo presenti all’appello noi addetti ai lavori della comunicazione, geolocalizzati soprattuto in Lombardia.

IN PRINCIPIO NON C’ERANO I FEED

20 anni di Facebook all’alba senza feed, in lingua inglese, con i tuoi contenuti che poteva vedere soltanto l’amico facebookiano, consultando la singola timeline. La prima richiesta di amicizia di Facebook la inviai a Valeria e la seconda a Elena, collega in comune, iscritta al social network di Zuckerberg dall’estate del 2007.
Ci avrei messo almeno un paio d’anni prima di ritrovare gli ex compagni di classe e gli amici lasciati a Napoli. Nel frattempo mi divertivo ad aggiungere nel network coloro che avevano lo stesso cognome mio. Non si sa mai avessi trovato un lontano parente nell’America attraversata da vagabondo su un bus della Greyhound?


FACEBOOK TRA DOPPIA VITA E IDENTITA’ SEGRETE

20 anni di Facebook, le nostre vite sotto i riflettori e con il tempo stritolate dall’orco orwelliano del Grande Fratello. E poi tutti travolti dal vortice del cambiamento delle nostre relazioni nella vita e nel lavoro, all’ombra delle nuove tecnologie che hanno condizionato persino il modo di divertirsi o la smania di raccontarsi a tutti i costi, fingere di essere ciò che non eravamo nella vita reale, trasformare la prima puzzetta di nostro figlio in un evento mediatico per metterlo già sul seggiolone della competizione.
Perché correre il rischio di ritrovarsi come l’ultimo scemo del villaggio?
Per essere tutti surrogati di un eroe, come cantava Bowie nei versi profetici “We can be heroes just for one day“, prima che la famiglia si allargasse con le abbuffate di gallerie fotografiche su Instagram o la messaggeria di Whatsapp in coda allo sfinimento dei gruppi morbosi.

IL GOLPE INFAME DEGLI ALGORITMI

20 anni di Facebook e lo strapotere degli algoritmi che, attraverso un golpe infame, hanno messo fine alla democrazia dei social network, già prima che ci accorgessimo di cyberbullismo, fake news, odio e violenza, censure, messa alla gogna della nostra sacrosanta Privacy.
Si è dovuto ricredere chi pensava di entrare da protagonista nelle nostre vite con l’emoticon di un cuoricino o con una sfilza temporanea di like. La vita si alimenta, per fortuna, ancora fuori dai recinti dei bunker facebookiani e lontano dagli spioni. L’accesso non è consentito a tutti, proprio come quello alle nostre case, ultima spiaggia di riservatezza e intimità, al contrario di chi ha scelto di svendere vita privata e ambiente domestico in cambio di una manciata di polvere di popolarità.

FACEBOOK TRA I NUOVI SOLI E L’INVASIONE DEGLI IMBECILLI

20 anni di Facebook oggi. Ci abbiamo perso o guadagnato? Siamo onesti con noi stessi. Nelle partite di ping pong da una bacheca all’altra in cui palleggia la solitudine, echeggiano i versi saggi del Teatro-Canzone di Giorgio Gaber e Sandro Luporini: “Soli e le sole ormai sono tanti Con quell’aria un po’ da saggi, un po’ da adolescenti A volte pieni di energia, a volte tristi, fragili e depressi.”
Si consoli chi non è finito nella morsa della frustrazione collettiva senza la tentazione di strizzare l’occhio ai permalosi che ancora giocano a fare gli offesi sotto il tuono della parole dell’unico professore che ancora rimpiango, Umberto Eco: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli.”

Il bicchiere mezzo pieno c’è? Sì, ma lo capiremo meglio nei prossimi vent’anni.

Sanremo Rewind in 5 canzoni anticonformiste

IL Festival di Sanremo è sempre stato caratterizzato dalla melodia fin dalla sua età della pietra. Eppure il Belpaese “canzonettaro” ha barattato il suo cliché melodico con l’anticoformismo. I tempi erano davvero maturi per captare le canzoni ribelli sottopelle?
Il tempo è galantuomo anche con i brani anticonvenzionali e così accade che facendo un rewind sanremese ritroviamo piccoli gioielli. Queste 5 canzoni anticonformiste lo sono anche per voi?

PAPAVERI E PAPERE

Il Festival di Sanremo si ascolta ancora alla radio quando salta fuori Papaveri e Papere, brano interpretato dall’allora reginetta della canzone italiana Nilla Pizzi. Siamo nel 1952, l’Italia si avvia sulla salita del Boom economico con ancora lo spettro della bombe della passata guerra. Panzeri, Rastelli e Mascheroni ci regalano la prima canzone davvero anticonformista della storia sanremese.
Altro che la favoletta dall’incipit scherzoso “Su un campo di grano che dirvi non so Un dì Paperina col babbo passò.” Dietro la melodia allegra si nasconde una satira feroce contro il potere politico di allora, incarnato dalla vecchia Democrazia Cristiana. I “papaveri alti” sono gli uomini del presidente del sesto governo De Gasperi e “le papere” tutti quelli sottomessi al potere. La canzone ottiene un successo strepitoso. In tanti non colgono il vero significato tanto che la censura feroce della vecchia Balena Bianca resta a guardare, o quasi.

CIAO AMORE CIAO

Il Festival di Sanremo del 1967 è sotto choc alla notizia del suicidio di Luigi Tenco dopo l’eslusione del suo brano Ciao amore ciao. Questa volta l’anticonformismo di polso del cantutore genovese è tutto in una canzone in cui si esplicitano la voglia di cambiamento, l’irrequietezza di una generazione e la consapevolezza di mollare la propria donna per una nuova vita: “Andare via lontano A cercare un altro mondo Dire addio al cortile Andarsene sognando.”
Il festival di allora viaggia sulle onde di sentimentalismi in stile Io, tu e le rose cantata da Orietta Berti. Tenco è troppo avanti, ha una sensibilità cantautoriale più contemporanea e ci vorranno decenni e decenni prima di dare il giusto valore a questo piccolo capolavoro.

GIANNA

Il Festival di Sanremo del 1978 si veste dell’anticonformismo di Rino Gaetano e della sua Gianna che “sosteneva tesi e illusioni, prometteva pareti e fiumi, aveva un coccodrillo e un dottore, non perdeva neanche un minuto per fare l’amore.”
Un inno sfrontato alla liberà femminile e strafottente dei luoghi comuni che fa balzare l’album da cui è tratta, Nuntereggae più, in vetta alle nostre classifiche.
Eppure dietro la canzone del cantutore crotonese, che fa tremare il palco dell’Ariston, si nasconde una girandola di interpretazioni. C’è chi vorrebbe Gianna semplicemente come manifesto della libertà sessuale, chi invece la innalza a simbolo dell’ipocrisia politica e alla sua corruzione o chi la elegge a rappresentare di chi non rinuncia alle ideologie illusorie. Nel testo ironico di Rino Gaetano alcuni vedono allusioni al vecchio potere della massoneria in Italia.

VITA SPERICOLATA

Al Festival di Sanremo del 1983 nessuno scommette una cippa su Vita spericolata, senza capire che la canzone Vasco è destinata a diventare l’inno di una generazione: “Voglio una vita che non è mai tardi Di quelle che non dormi mai Voglio una vita, la voglio piena di guai.”
L’anticonformismo del Blasco, sulle onde di un rock grezzo e provinciale, non attecchisce su critica e platea dell’Ariston, ma si fa strada piano piano. Attraverso l’urto delle onde radiofoniche sprofonda nell’immaginario di una generazione che riconosce nel rocker di Zocca il suo paladino.
Nel 1992 la canzone ottiene un bel riscatto ed è riconosciuta persino dalla vecchia guardia del cantautorato genovese. Infatti, Gino Paoli chiude il suo brano Quattro amici con l’inciso di Vita spericolata dove interviene la voce dello stesso Vasco.

LA TERRA DEI CACHI

Il Festival di Sanremo del 1996 è sconvolto da La terra dei cachi. L’anticonformismo di Elio e le Storie Tese è demenziale tra musica rocchettara e testo irriverente, mancando per un pelo il podio dell’Ariston. Nel bel mezzo della Seconda Repubblica, dopo il terremoto di Tangentopoli e la fine della Prima Repubblica, quale Italia ci resta tra le mani? Quella dei “Parcheggi abusivi Applausi abusivi Villette abusive Abusi sessuali abusivi Tanta voglia di ricominciare, abusiva.”
Si ride per non piangere con il rock demenziale di Elio e compagnia bella, tanto si sa che il Belpaese dobbiamo tenercelo così. Si facciano avanti delusioni, omissioni, indignazioni, nuovi santi corrotti, melodrammi dei giorni nostri. Il nonsense fa la sua parte in pieno stile zappiano e il brano continua a brillare nella costellazione del Sanremo off: “Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè C’è un commando che ci aspetta per assassinarci un po’.

Buon 2024 a piedi nudi sulla speranza

Lasciandoci alle spalle un 2023 affollato da tanti impostori, guardiamo con ottimismo all’anno nuovo senza leggere gli oroscopi. Sì, questo è un atto di fede. Ahimè, è cronica la mia strafottenza (tu chiamala se vuoi libertinaggio) e allergia al buonismo e alla luce artificiale di questo tempo annacquato da affanni e corse inutili. E la vostra?

Anche per il 2024 l’augurio è mettersi al riparo da ritualità inutili, convenzioni, sbaciucchi e brindisini per festeggiare poi cosa? Le lacrime di coccodrillo del cigno nero, spennacchiato dallo scandalo del pandoro benefico? Le fette griffate sono andate di traverso agli influencer di cristallo, rivelandosi il replay di Maria Antonietta di Francia: “Se il popolo ha fame, date loro brioche.”

Senza “la noce” sentimentale dell’alberello pubblicitario in tasca, mi sono incamminato tenendo a bada le urla dell’ortopedico e reumatologo per salvare il mio ginocchio consumato dai viaggi di una vita vissuta fino al crollo di un menisco. Dopo aver percorso migliaia di chilometri, lontano dai bagordi, sono giunto nello stesso posto dove ero più di un anno fa: al di là del kibbutz di Nir Am, bloccato da un filo spinato sulla Striscia che mi impediva di uscire da Israele per proseguire verso Gaza.

Ho trovato un Bimbo dalla pelle bruna che mi ha detto: “Aiutami a tornare nella mia Palestina. Non ricordo più neanche come mi chiamo.” Mentre l’Erode dei nostri tempi sta collezionando un numero di morti pari a un nuovo genocidio, dopo essersi sbiancato la coscienza nel giorno dello Shabbat, gli ho risposto: “Duemila anni fa ti saresti chiamato Gesù.”
Il bambino mi ha sorriso e mi ha stretto la mano con la stessa intensità dell’abbaglio di una stella cometa che ha oscurato i lampi dei missili all’orizzonte. Datemi pure per disperso, tanto io e il piccolo resteremo seduti qui, in un fienile del Medio Oriente senza bue e asinello, in attesa di un lieto fine.

Buon 2024, a piedi nudi sulla speranza.

No al Femminicidio. Il ricordo tenero della mia Laura per l’ultimo saluto a Giulia Cecchettin

Non bastano le dita delle mani per contare i casi di femminicidio in Italia. La morte di Giulia Cecchettin (Art Cover: Antonio Federico) ha scosso tutti. Oggi Padova le tributa l’ultimo saluto mentre in ogni angolo del nostro Paese si continua ad urlare: “No al femminicidio”.
La violenza non è questione di genere o sesso, appartiene alla razza umana. La storia tragica di Giulia mi ha ricordato però che non tutti gli uomini sono violenti, riportando a galla la mia storia adolescenziale con Laura.

STORIE DI PERIFERIA TRA TENEREZZE E OMERTA’

All’alba degli anni Novanta io e Laura eravamo due ragazzi occhialuti di periferia. Ci innamorammo su una panchina mentre io ero alle prese con la maturità e lei, di qualche anno più piccola, in preda all’ansia delle ultime interrogazioni di fine anno.
La aspettavo sotto casa di Donatella, fidata compagna di classe che, assieme alle sorelle, proteggeva la nostra tenera clandestinità. Quando accompagnavo Laura a scuola in Vespa, facendo attenzione che non ci vedessero, lei mi infilava nello zaino letterine d’amore imbevute dei suoi profumini.
Non ho mai capito perché in paese scandalizzasse più il bacio di due adolescenti anziché l’omertà delle generazioni precedenti di fronte al femminicidio, alla violenza subita da tante donne nel lurido piccolo mondo antico della famiglia patriarcale di stampo maschilista.
Mia zia Lilina, che nel Secondo Dopoguerra aveva lavorato nei campi alla periferia di Napoli, mi raccontò di fattori violenti, di mogli contadine pestate, di violenze taciute dietro i sacchi di patate per paura di perdere il lavoro stagionale o essere isolata dal resto della comunità per aver fatto “la spia”.

IL NO DI LAURA MI FECE CRESCERE

In una giornata uggiosa di novembre Laura decise di mettere fine alla nostra storia da ragazzini. Mi sentii crollare il mondo addosso, per la prima volta avvertivo un tremendo senso di abbandono. Come avrei fatto senza le sue coccole, la passione per Freddie Mercury infilata nelle musicassette che mi registrava, le passeggiate mano nella mano lungo i binari della ferrovia guardando i treni che portavano nei vagoni i nostri sogni di un’adolescenza ribelle, i progetti comuni, la promessa che un giorno con i risparmi l’avrei portata a Londra a un concerto dei Queen, magari a dicembre per il compleanno?
Non ebbi nessun raptus di violenza, anzi il sentimentalismo prese il sopravvento sulla rabbia.
Con una videocamera me ne andai in giro a filmare i nostri luoghi, sovraincisii delle musiche, le feci recapitare una videocassetta, con la speranza che infilandola nel videoregistratore la nostalgia riaccendesse il cuore.
L’indomani Laura mi restituì la VHS e, guardandomi con gli occhioni lucidi, mi salutò con una carezza come per dire “non cambiare per gli altri, resta te stesso”. Il suo No mi fece crescere e io senza rancore decisi che non avrei rinnegato l’indole di sentimentale, nonostante quelli come me ai tempi erano additati come “mezze femminucce”.

NO AL FEMMINICIDIO SENZA SLOGAN

Cara Giulia, se da una parte oggi essere uomo mi fa vergognare per le violenze che in tante subiscono, dall’altra ho una consolazione. Laura e le donne avute accanto nella vita, attraverso il bene che mi hanno voluto, mi hanno insegnato che senza l’universo femminile la nostra esistenza sarebbe una nullità.
Baci, carezze, amore, rispetto reciproco e cuore ti portano lontano se combatti fianco a fianco e giorno dopo giorno i luoghi comuni, i pregiudizi, i soprusi. Oggi dico “No al femmicidio” senza slogan, lasciando che questi pensieri aggrovigliati con i ricordi si alzino in volo verso di te come palloncini colorati.

30 anni senza Frank Zappa in oltre 120 dischi tra rock e avanguardia

Frank Zappa ce lo portò via il 4 dicembre 1993. Noi studenti universitari di allora piangemmo la dipartita prematura del genio musicale del XX secolo per un tumore alla prostrata. Frank in realtà ci beffò tutti perché aveva lasciato in buone mani un archivio stratosferico di registrazioni, inclusi sorprendenti inediti, che gli avrebbero allungato la vita.
30 anni senza FZ? Macché, con tutto questo bendidio che abbiamo ascoltato decennio dopo decennio è come se lui fosse ancora lì, rinchiuso nel bunker di registrazione con le sue Mothers of Invention.

DAL LABIRINTO LETTERARIO DI JOYCE A QUELLO MUSICALE DI FRANK ZAPPA

A vent’anni ero troppo beatlesiano per andare oltre la coltre degli album più digeribili di Zappa come Apostrophe (‘), Overnight Sensation e Grand Wazoo. I quarant’anni, nel mezzo del cammin di nostra vita vagabonda, mi resero zappiano ortodosso. Il labirinto musicale della sua opera complessa mi illuminò come aveva fatto quello letterario dell’Ulisse di Joyce durante i giorni ribelli dello “studio matto e disperatissimo” di gioventù.
Del resto gli album di Zappa sono stati complici del mio giro del mondo in una vita di viaggi spericolati. Da Dussmann a Berlino mi trovarono in chiusura, a tarda sera, addormentato su una poltrona, con tanto di cuffia, ad ascoltare Civilization Phase III, l’album di inediti uscito postumo alla morte. All’aeroporto londinese di Gatwick restarono sconcertati al check in per i panni sporchi in un sacchetto perché il minuscolo bagaglio a mano era occupato da vecchi vinili di Zappa scovati a Londra. Senza dimenticare le tiepide mattinate canadesi in un vecchio negozio di Toronto alla ricerca degli introvabili CD pubblicati oltreoceano dalla Ryoko Disc. Poi la Zappa Records firmò un accordo milionario con la Universal per riordinare e ripubblicare tutto l’ambizioso catalogo, rendendoci la vita più semplice (o quasi) ma non per le nostre tasche.

FRANK ZAPPA, INCARNAZIONE DELLA MUSICA


I sacrifici di una vita per raccogliere tutti i 127 dischi ufficiali, di cui oltre sessanta pubblicati postumi dalla famiglia negli ultimi trent’anni senza Frank, hanno indispettito la mia fidanzata di allora, oggi moglie rassegnata. Pensavo che non si sarebbe presentata all’altare quando scoprì che, per mancanza di spazio, avevo imboscato chili e chili di cd di Frank Zappa provenienti da mezzo mondo nei cassetti del comò, sotto la biancheria intima. Ne è valsa la pena?
Sì, perché Frank Zappa non è stato soltanto una virtuosa chitarra rock o l’ultimo antifricchettone convinto sulla coda del Novecento. Frank Zappa è stato l’incarnazione della musica, dal rock al blues, dal fusion al progressive, dal jazz alla classica, viva nella sua complessità e imperabilità tra le ispirazioni elettriche di Edgar Varèse, lontano dai clichè del divo o del rockettaro maledetto che per essere creativo deve fare uso di sostanze stupefacenti.
Per noi apostoli zappiani la sua opera complessa di andate e ritorni, al di là della circolarità della stessa opera d’arte, si è rivelata la filosofia della musica stessa. Genio, incompreso dalla miope industria discografica, è stato messo alle strette dalla censura e da quelle intimidazioni dei poteri occulti che però hanno scatenato effetti al contrario: la riconoscenza planetaria del talento di ricercatore e testardo avanguardista.

MUSICA, MAESTRO

Chissà cosa direbbe oggi il buon vecchio Frank, alla veneranda età di 83 anni, del nostro tempo brancolante nel buio tra il regime degli algoritmi e lo schiavismo dell’occhio del Big Brother orwelliano, tra guerre feroci, femminicidi e ipocrita buonismo, tra la smania collettiva di apparire nel mainstreaming e privarsi di tornare ad essere noi stessi nella quotidianità reale. Il vecchio saggio starebbe zitto, impugnerebbe la chitarra. E noi, oggi come allora, chiederemmo sottovoce: “Musica, maestro.”

Riverdale e il giorno dei morti nell’addio commovente a Luke Perry

La celebrazione del giorno dei morti del 2 novembre ci appartiene come ai messicani e neanche l’infatuazione dei più piccoli per Halloween potrà convincerci del contrario. Riverdale, la serie tv americana disponibile su Netflix e ispirata ai fumetti d’oltreoceano di Archie, fa spesso i conti con il dolore per la perdita di una persona cara. Perché vale la pena rivedere la prima puntata della quarta stagione, addio commovente all’attore Luke Perry?

DA BEVERLY HILLS 90210 A RIVERDALE

Per quelli della mia generazione Luke Perry, scomparso prematuramente nel 2019 all’età di 52 anni, ha prestato il volto al Dylan di Beverly Hills 90210. Chi non ricorda la serie televisiva ambientata in California che in dieci memorabili stagioni ci ha fatto cavalcare gli anni novanta?
Prima di vestire i panni di Fred Andrews in Riverdale, Perry ha reso cult l’interpretazione giovanile di Dylan. Il suo personaggio in Beverly Hills 90210 aveva contribuito a far tornare in noi giovani di allora la voglia di continuare ad essere noi stessi. Sì, perché da ragazzi di periferia potevamo starcene alla larga dai primi ricatti dell’altra vita in Internet, felici anche senza i soldi, le macchine e le bellezze di plastica che circolavano sulle strade californiane della televisione di allora.
Per i teenager di oggi il ricordo di Luke Perry è ancora vivo nella fisionomia di Fred Andrews, il papà premuroso e onesto di Riverdale, che gli autori della popolare serie hanno dovuto cancellare dalla sceneggiatura per la morte improvvisa dell’interprete.

DOLORE TRA FICTION E REALTA’

La penna dello sceneggiatore di Riverdale Roberto Aguirre-Sacasa è stata abile, per tutta la durata della puntata commovente dedicata alla scomparsa del papà di Archie, a farci chiedere per l’ennesima volta: è legittimo provare dolore per la perdita di qualcuno mai conosciuto di persona che ha dato vita ad un personaggio che non smetteremo mai di amare?
Sì e questo va oltre l’espediente narrativo di far apparire per l’occasione Shannen Doherty, la Brenda protagonista di Beverly Hills 90210, che in Riverdale interpreta la donna per cui è corso in aiuto Fred ed è stato investito da un’auto.
Gli attori Luke e Shannen, vecchi compagni di set, non si incontreranno mai in Riverdale e questo poco importa. Ciò che conta è aver ufficializzato il legame e l’eredità tra due serie televisive, tra due generazioni che, dentro e fuori il piccolo schermo, oggi giocano a ricoprire i ruoli complicati di genitori e figli.

IL GIORNO DEI MORTI NELL’ADDIO A FRED/LUKE

I funerali di Fred Andrews in Riverdale e la partecipazione commossa di tutta la comunità ci ricordano quelli di Luke Perry e di tutti i papà che sono andati via, lasciando noi figli senza il braccio e la gamba supplementari per affrontare meglio la vita.
Fanno bene gli sceneggiatori a suggerirci che un funerale di un padre come il 2 novembre, il giorno dei morti, può diventare una festa quando un figlio si sente il più fortunato del mondo per avere avuto un papà che lo ha reso migliore. E così un addio resta un arrivederci.

Museo Immigrazione

Memoria e commozione al Museo dell’Immigrazione di Ellis Island

IL portale immigrazione degli USA si trova all’Ellis Island. L’isolotto nella baia di New York fu tappa obbligata per tutti gli immigrati in entrata negli Stati Uniti d’America. Il ritorno al Museo dell’Immigrazione mi ha ricordato che anche noi italiani lo siamo stati.

DA LADY LIBERTY AL PORTALE IMMIGRAZIONE

L’apnea della memoria ti costringe a vedere tutto quello che c’è intorno a te attraverso un ponte che collega presente e futuro. La mia prima volta sotto e dentro la Statua della Libertà, nel lontano 1992, non fu il vezzo di uno studente. Fu il desiderio di un ventenne di allineare il proprio sguardo agli emigranti che scorgevano dalle navi, in arrivo da mezza Europa, quello accogliente e rassicurante di Lady Liberty.

ISOLA DI LACRIME E SPERANZA

Entrare nel corpo della Statua della Libertà è come rientrare nel ventre materno, dare calci al sogno antico di partire alla conquista di una nuova vita. Essere traghettato su Ellis Island, oggi casa del portale immigrazione degli Stati Uniti d’America, è cogliere un’occasione unica e irripetibile. Sì perché il Museo dell’Immigrazione è la testimonianza concreta di un Paese che fa i conti con la storia. Atto coraggioso è anche riconoscere i costruttori dell’American Dream nel lavoro di tutti gli immigrati passati fino al 1954 sull’isola di lacrime e speranza

SILENZI E MEMORIE AL MUSEO DELL’IMMIGRAZIONE

Le gigantografie fotografiche di uomini, donne, bambini, gli sguardi desolati dopo aver lasciato la terra natale, commuovono noi viaggiatori mentre ci soffermiamo nella sala a piano terra dove si registravano i bagagli degli immigrati.
L’ansia per la paura dell’espulsione cominciava nella maestosa Registry Hall dove, superati i controlli e la visita medica, si scampava il pericolo di essere rimandati indietro. Il silenzio e il vuoto di questa sala vi accompagneranno per tutto il percorso e se finirete a mangiare un hamburger nel vecchio refettorio vi sembrererà di rivedere i volti di allora. Emozioni che sentirete addosso persino nell’ultima parte di traghettata fino a Battery Park.
E lo spettrale incubo che il nostro tempo avido di futuro strappi all’improvviso queste pagine di storia? Non accadrà finché ci saranno nuove generazioni ad affollare musei come questo.

Viaggi al cioccolato: i 20 anni di Le Caméléon Chocolate

Cioccolato e viaggi, due passioni intense, che filano il mio incontro con le Maître Chocolatier Sophie Vanderbecken. Quale modo migliore per festeggiare i vent’anni Le Caméléon Chocolates a Città del Messico?
Farsi offrire un bel posto letto per dormirci sopra e scoprire i piccoli segreti del famoso laboratorio artigianale della capitale messicana al numero 87 di Manuel Payno.

CIOCCOLATO E RICERCA

Sophie, belga d’origine e messicana d’adozione, mi ha confessato durante il nostro primo incontro a Oaxaca de Juárez qualche mese fa: “La passione per il cioccolato appartiene agli anni dell’infanzia. Dopo il trasferimento in Messico ho capito che potevo farne un mestiere ad un patto. Mettere la ricerca al centro della mia nuova attività.” Sophie non era stata la classica bimba golosona che svuotava la dispensa della nonna. Era cresciuta incuriosendosi piuttosto su cosa ci fosse dietro quei sapori e i vari equilibri.

CIOCCOLATO E VIAGGI

La Vanderbecken, attraverso il successo di Le Caméléon Chocolate, ha contribuito a frantumare nel suo piccolo l’odioso maschilismo di cui è infestata l’industria del cioccolato. Le sue ricerche la portano in giro tra le migliori piantagioni, dal Venezuela alla Colombia.
Competenza e conoscenza in anni di lavoro sodo fanno delle fiere di mezzo mondo la seconda casa di Sophie così come le competition. Penso a quelle bandite dall’Università di Londra sulle sculture di cioccolato o agli International Chocolate Awards in Perù.
La partecipazione a conferenze in prestigiose cornici di settore, dal Salone del Cioccolato e Cacao di Città del Messico al Festival del Cioccolato di Tabasco, hanno spinto Sophie Vanderbecken a salire “in cattedra”.

LE CAMELEON CHOCOLATE

Il valore aggiunto della conoscenza sta anche nella condivisione e così il laboratorio Le Caméléon Chocolate si trasforma spesso in aula per interessentanti workshop e aggiornamenti su questo affascinante mondo.
Nei giorni messicani delle mie incursioni dietro le quinte della bottega artigianale del quartiere di Obrera, ho avuto modo di apprezzare e capire da più vicino determinate scelte. Produrre del cioccolato di alta qualità con i grassi vegetali non rispetta soltanto la salute alimentare ma anche la natura stessa.
E poi sia cioccolato al peperoncino a Nogada o deliziose praline al gianduia l’assaggio contiene storia e radici, memorie culinarie che fanno del cacao e della sua lavorazione un patrimonio dell’umanità da salvaguardare.


Palestina Terrasonora

Viaggi e musica: Dalla Palestina di Faisal Taher alla periferia di Napoli dei Terrasonora

La musica può fare ancora tanto per unirci. La Palestina di Faisal Taher, classe 1959 ed emigrato in Italia nel 1986, si scioglie nelle sonorità di una delle band più affermate del “Niù Folk” del Sud Italia: i Terrasonora. Gennaro, Raffaele e Antonio Esposito, Antonello Gajulli, Gaia Fusco, Vincenzo e Davide Maria Laudiero ritornano sulla cresta dell’onda con Malevera, un brano convincente sui disagi della contemporaneità attraverso la metafora dell’erbaccia che può crescere dentro e fuori di noi.
Scritto a sei mani da Gennaro Esposito, Saverio Carpine e Davide Maria Laudiero, il testo e la musica di Malevera si nutrono del cartone animato del bravo Andrea Sirignano e della voce palestinese di Faisal Taher.

LA PALESTINA DI FAISAL

Il timbro vocale pacifico di Faisal mi riporta al viaggio in Palestina dell’anno scorso. Mi trovavo ad una sessantina di chilometri da Yabad, la sua città natale costretto a lasciare a 27 anni nel pieno del conflitto israelo-palestinese. Faisal assomiglia a Malik, uno dei protagonisti del video musicale di Malevera, immigrato in Italia alla ricerca di un futuro diverso. Quanti suoi coetanei rimasti lì non ce l’hanno fatta?
Non fu il capriccio di un giornalista l’ostinata discesa in Israele. Un autobus mi portò da Ascalona sulla Striscia di Gaza, pochi mesi prima che ricominciasse il palleggio delle bombe.
Era piuttosto la voglia di guardare all’orizzonte i territori visti nella tv dell’infanzia. Non ho mai smesso di contare i miei coetanei diventati angeli prematuramente mentre giocavano sotto quei bombardamenti tremendi.

LA PERIFERIA DI NAPOLI DEI TERRASONORA

Carmine, l’altro protagonista del video musicale di Malevera, rappresenta bene chi cerca di fuggire dalle tentazioni della malavita e dai ricatti della criminalità organizzata:

So’ lloro… so’ padrune ca se venneno ‘o sudore… Spaccianno ‘na speranza ca s’avota e so’ dulure. Malevera che cresce, Malevera dint’a ll’osse… Malevera è ccà… Malevera è ccà…

Le canzoni sanno essere dolorosamente profetiche senza guardare nella sfera di cristallo. I fatti di cronaca di questi giorni al Parco Verde di Caivano hanno riportato la periferia di Napoli nel ciclone mediatico.
Le parole e le musiche dei Terrasonora schiaffeggiano l’infamia e le mostruosità insidiate nel quotidiano. Malevera ci lascia una legittima speranza, la stessa che brilla nella Palestina di Faisal o nello sguardo luminoso del prete napoletano di frontiera don Maurizio Patriciello:

Ah! Fa’ ‘na grazia a sta gente, ca’nun tene cchiù niente: sulo ‘o mare ‘a guardà! Ah! Puorte dinto ll’addore, viento tocca stu’ ciore, ca’ me fa’ respirà!

La musica può fare ancora tanto, anche per smuovere dal torpore le nostre coscienze in qualsiasi parte del mondo, in una trincea di guerra così come in una zolla di terra di frontiera.