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Ninna nanna per nonna Angelina, altra vittima della pessima Sanità in Campania

Mi vergogno della mia regione d’origine, la Campania, quando mi capitano sotto gli occhi ritagli di notizie sulla cattiva sanità come questa: nonna Angelina di Sant’Antonio Abate, in provincia di Napoli, è morta all’ospedale Maresca di Torre del Greco per incuria secondo le accuse, come riportato in un articolo dal quotidiano IL Mattino.
Ricoverata per occlusione intestinale, la donna ottantenne è deceduta poche ore dopo. La Procura di Torre Annuziata ha aperto un’indagine per omicidio colposo mentre l’ASL Napoli 3 Sud ha avviato degli accertamenti per valutare eventuali responsabilità.
Per dovere di cronaca, rinfreschiamo la memoria con il report del Ministero della Salute dell’estate 2024 secondo cui la regione Campania, per alcuni indicatori della Sanità Pubblica, risultava fanalino di coda.

LA SANITA’ IN CAMPANIA NELL’OCCHIO DEL CICLONE

La settimana precedente all’increscioso episodio di incuria subito da nonna Angelina, la Sanità in Campania era finita nell’occhio del ciclone attraverso la denuncia del programma televisivo “Fuori dal Coro” di Rete 4. L’inchiesta “Ladri di salute: gli ospedali dello scandalo” aveva puntato il dito contro il Ruggi d’Aragona di Salerno e il San Giuseppe Moscati di Avellino, affossati senza sconti per incuria cronica, strafottenza nei confronti dei pazienti abbandonati al proprio destino, tanti dei quali dimenticati sulla barelle nelle corsie del Pronto Soccorso.
Oggi tocca al Maresca di Torre del Greco, tra l’altro finito nel salotto televisivo Rai di UnoMattina nell’autunno del 2024 per la fantomatica “infermiera cartomante”: chi non ricorda la tragicommedia surreale che ha indignato i pazienti del Maresca e la cateogoria degli infermieri campani? L’operatrice sanitaria tiktoker se ne andava dispensando profezie ai malati oncologici e non solo.

DIGNITA’ PER ONORARE LA MEMORIA DI NONNA ANGELINA

Nonna Angelina apparteneva alla stessa generazione di mio padre ed era cresciuta negli anni ’40 del secolo scorso tra le bombe della Seconda Guerra Mondiale e i lapilli delle ceneri dell’ultima eruzione del Vesuvio. In quella zolla di pianura campana dominata dai monti Lattari aveva sposato Gerardo, un commerciante negli anni del Boom del Belpaese in bianco e nero.
Rimasta vedova giovanissima con tre figli da crescere, guardò diritta negli occhi i suoi cuccioli e disse trattenendo le lacrime: “Non resterete mai soli, mai. Nessuno mi fermerà. Vi farò da mamma e da padre.” Così nel Sud Italia maschilista e patriarcale Angelina appese al chiodo la gonna da casalinga e si infilò i pantaloni della commerciante, attraversando impavida gli anni Settanta ingrigiti dal piombo, il riflusso degli anni Ottanta, la coda del secolo dei Novanta, l’alba del nuovo millennio con i nipotini che la incoronarono nonna per sempre.

UN MILIONE DI PAZIENTI VITTIME DI ERRORI SANITARI

Questa sembra una pagina strappata a un racconto del nostro Mezzogiorno, ma in realtà è la storia di una donna del Novecento. Questa donna di Sant’Antonio Abate, in silenzio e nell’intimità lontana dai clamori e dalle buffonerie dei social, ha pagato tasse e contributi per una vita intera a sostegno del sistema della Sanità Pubblica e, nel momento del bisogno, si è trovata le spalle voltate in faccia.
Tra dolore e rabbia quanto tempo dobbiamo attendere affinché nonna Angelina sia annoverata nel milione di pazienti vittime di errori sanitari?
I dati diffusi dall’ARIS (Associazione Religiosa Istituti Socio-Sanitari) nel 2024 confermavano proprio questo, oltre la crescita dei casi sbattuti in tribunale.

FAREWELL, ANGELINA

Mentre la giustizia farà il suo corso, oggi tutti noi “indignati” ci sentiamo un pochino nipoti legittimi di nonna Angelina, a cui dedichiamo una ninna nanna: i versi di Farewell, Angelina, donati da Bob Dylan a Joan Baez per il suo album del ’65, li vogliamo incidere sul bianco e nero del finale poetico del film Tempi Moderni di Charlie Chaplin.
E così ci piace pensare a Charlot mano nella mano della sua amata verso un domani migliore come Gerardo e la sua adorata moglie Angelina, finalmente di nuovo insieme, in direzione di quella luce accecante che cancella improvvisamente la squallida barella di un ospedale.
A quest’ora Angelina e Gerardo hanno cominiciato un nuovo viaggio, quello che noi romantici e sognatori non smetteremo mai di chiamare eternità.

Eleonora Giorgi cara, a te leggera nell’eternità

Eleonora Giorgi cara, a te leggera nell’eternità, dedichiamo questo inizio di marzo primaverile che profuma d’inverno. Noi di quella generazione innamorata di te sulla spiaggia cinematografica di Sapore di Mare rivendichiamo il romanticismo testardo: ti abbiamo voluta bene come la ragazza dell’ombrellone accanto che, nonostante il cambio dei lidi e litorali della vita, ti porti nel cuore nella cornice di una vacanza memorabile.

LACRIME E BOROTALCO

Eleonora Giorgi cara, per te leggera nell’eternità, ci inebriamo di Borotalco per provare ad asciugare le lacrime nel mezzo di uno dei siparietti mitologici tra Nadia e Sergio:
– Ma al Louvre ci sei stato?
– Sì, caro arrabbiato pure quello!
– Ma ci si mangia bene?
– Senza infamia e senza lode…così.

LEGGEREZZA NON E’ SUPERFICIALITA’

Eleonora Giorgi cara, leggera nell’eternità, ad applaudire e a sostenere i tuoi personaggi, che ti hanno incoronata icona del Romanzo Popolare all’italiana, c’eravamo noi degli anni ’80 bullizzati dagli intellettuali, pronti a massacrarti se non guardavi soltanto “il cinema impegnato”.
Sei arrivata al cuore di tutti, incluse le casalinghe come mia madre che leggevano fotoromanzi. Hai insegnato a chiunque ti sia venuto incontro, dentro e fuori lo schermo cinematografico e televisivo, che leggerezza non è superficalità, bellezza non è essere svampiti, femminilità non è questione di impegno o disempegno civile. Piuttosto la verità della tua essenza femminile si è nascosta dietro il vivere la vita tenendo stretto ogni istante per poi mollare la presa e lasciarlo andare al largo senza rinnegare mai nulla, senza perdere di vista il lungo attimo dell’esistenza.

ATTACCATA ALLA VITA FINO ALL’ULTIMO RESPIRO

Eleonora Giorgi cara, a te leggera nell’eternità, il nostro pianto sincero in cui affoghiamo come quando, dal finestrino del treno, vedevamo scomparire la spiaggia delle nostra estate più bella e in un puntino la ragazza minuta sotto l’ombrellone che guardava ancora il mare, anche per noi.
Chi vive la vita con passione accettando le proprie fragilità e resta attaccato a lei fino all’ultimo respiro è destinato a rinascere un milione di volte, nell’eternità.

Il Santuario di Pompei ha il suo Bartolo Longo santo

IL Santuario della Madonna del Rosario di Pompei avrà finalmente Bartolo Longo (1841-1926) santo, a cui il mio nome Rosario mi lega dal giorno del battesimo. Papa Francesco, in queste ore difficili per la sua salute, riconosce la santità all’uomo del nostro Sud Italia che rinunciò alla vita agiata di famiglia per dedicarsi alle opere di carità.

I MIRACOLI NON SONO SOLO SOPRANNATURALI

Nel 1876 Bartolo Longo, quindici anni dopo l’unità d’Italia, con i fondi del patrimonio della moglie contessa cominciò a costruire il Pontificio Santuario mariano sulle ceneri della pagana Pompei romana. Ricordo ai tempi delle elementari il giorno in cui Papa Wojtyla lo beatificò.
Abbiamo atteso 45 lunghi anni da allora e questo momento tardava ad arrivare, perché il Beato di origine pugliese non aveva compiuto alcun “miracolo”, nel senso di evento soprannaturale.
I prodigi sono anche quelli di aver diffuso scritti e scritti di evangelizzazione e fare tanta carità.

BARTOLO LONGO E LA CASA PER GLI ORFANI

Bartolo Longo ha donato una casa a migliaia e migliaia di orfani per tutto il XX secolo. Andavo ancora all’asilo quando, tenendo per mano nonno Pasquale, mi fermai di fronte ad un grande edificio a pochi passi dal Santuario di Pompei.
A 5 anni se hai la fortuna di avere un papà e una mamma fatichi a capire che i tuoi coetanei, affacciati alla finestra di quell’orfanotrofio, vivono il dolore di un vuoto immenso. Nel 2017 scelsi di cresimarmi nel Santuario di Pompei perché il mio nome, Rosario, custodiva la riconoscenza per aver scampato la morte due volte: la prima, ancora nel pancione di mia madre, la seconda a vent’anni, vivo per miracolo, a seguito di un incidente stradale per un colpo di sonno.

LA SUPPLICA ALLA MADONNA TRA LETTERATURA E FEDE

C’era una volta un avvocato del nostro Mezzogiorno, Bartolo Longo, uno di noi, finalmente Santo anche per noi gente del Sud. Per noi la preghiera non è una superstizione folcloristica, come criticano alcuni, ma è un atto di fede anche nel mezzo di una processione o di una fiaccolata nel buio della notte.
Con gli occhi pieni di speranza, ogni anno puntualmente l’8 maggio e la prima domenica di ottobre, recitiamo la Supplica  alla “Augusta Regina delle Vittorie” che la sua penna da letterato e il suo cuore di fedele ci hanno donato: 

“Se tu non volessi aiutarci, perché figli ingrati ed immeritevoli della tua protezione, non sapremmo a chi rivolgerci.”

Siamo felici e orgogliosi. 

Viaggio in Egitto come un vero egiziano

L’Egitto mio in un viaggio come un vero egiziano è terminato all’aeroporto del Cairo dopo oltre 2.000 chilometri on the road da Nord e Sud. Al ritorno hanno aperto i miei bagagli e mi hanno tenuto fermo per quasi un’ora. Pare che le statuine dei tre faraoni fossero un buon escamotage per nascondere chissà quali sostanze.
Dopo la lunga attesa è arrivato un alto funzionario e mi ha chiesto: “Perché tornerebbe nel nostro Paese?”. Io ho risposto di getto: “Per la generosità degli egiziani. Sono convinto che se perdessi l’aereo per ulteriori controlli, mi ospiterebbero anche a casa se fossi in difficoltà.” E lui sorridendo mi ha congedato così: “Vada e torni a trovarci presto.”

IN DIREZIONE OSTINATA E CONTRARIA AL TURISMO DI MASSA

L’Egitto mio, in un viaggio tanto desiderato, in un lungo flashback. Rivivo l’altro Egitto, il mio, sognato seguendo il dito di mamma su un sussidiario dell’elementari nei giorni dell’infanzia. Ci arrivi dopo 45 anni per viverlo come volevi tu, in fuga dagli orrendi recinti social di un selfie fuggiasco o dalla stregoneria dell’intelligenza Artificiale usata per fingere di essere ciò che mai sarai.
La libertà è la fuga da tutto questo e il viaggio ti restituisce la padronanza del tempo, ti rende libero nel pieno godimento della realtà.Il mio “Esodo” egiziano di 16 giorni da Nord a Sud, provenendo da Cipro, è stato in direzione ostinata e contraria.
Affacciato al terrazzino di una casa a Giza, ho promesso a me stesso che mi sarei fatto trascinare come dalla corrente di un fiume in piena: niente taxi, nessuna consultazione di guide turistiche, niente google map, niente idiosincrasie del turismo di massa. Così tra trasporto pubblico e pizzini scritti a penna in arabo dagli egiziani conosciuti per strada, ho vissuto da egiziano in tutto e per tutto.

DAL CAIRO ALLA NAVIGAZIONE DEL NILO PER 250 CHILOMETRI

L’Egitto mio mettendomi nelle mani del Cairo, sorella gemella della mia #Napoli. Nella capitale ho ritrovato la vita mia napoletana all’ombra del Vesuvio e nel chiasso stratosferico della capitale, accompagnato dal ricordo dei nonni Pasquale e Lucia, ho vissuto ogni zona della Capitale gemellata con Fuorigrotta, Arenella, Vomero, piazza Carlo III, via Carbonara e potrei andare avanti all’infinito.
Dall’Egitto gate del Medioriente, rotolando verso Sud al confine pericoloso con il Sudan, ho ritrovato la mia Africa negli occhi di Assuan e nell’accoglienza della gente nubiana.
Il trofeo di tanta strada è stato un altro grande fiume che volevo navigare dopo Rio delle Amazzoni, Rio Ucayali, Gange, Mekong e Mississippi: il Nilo che, negli oltre 250 chilometri di percorso, ha fatto dell’equipaggio di una nave egiziana la mia nuova famiglia e di storie di vita tanta ispirazione per i miei diari di viaggio.

EGIZIANI NEL CUORE

L’Egitto mio tra gli egiziani. Ripenso alla storia d’amore di William e Rona, giunti al secondo matrimonio, perché c’è sempre tempo per tornare ad essere felici ma bisogna avere coraggio, tanto. La bellezza, l’intelligenza e i progetti futuri di Nourhan mi hanno spalancato le porte dell’universo femminile mediorientale, riflesso nello specchio luminoso delle donne del Sud del mondo, oltre la corteccia di un velo, oltre la separazione religiosa e culturale che non può impedire a un cristiano e a una musulmana di innamorarsi ed essere felici senza imposizioni, senza reciproche rinunce.

I HAVE A DREAM: L’ANTICO EGITTO E IL MAR ROSSO

L’Egitto mio dall’affetto dei bambini nubiani ai tesori dell’Archeologia dell’Antico Egitto sparsi nel Paese per sentirmi archeologo e “ghostbuster” di memorie remote prima studiate, poi sognate, oggi vissute tra il vecchio museo egizio del Cairo, la folgore di Abu simbel, le gigantesche Piramidi di Giza e l’accecante bellezza di Luxor e di tutto il mondo intorno alla Valle dei Re, dopo essermi lasciato alle spalle Edfu e Kom Ombo.
Lo sbarco sul Mar Rosso egiziano e la navigazione in stile libero della #BarrieraCorallina sono stati un modo per sgomberare dell’immaginario collettivo i cataloghi dei grandi Tour Operator e vivere da egiziano con semplicità e pochi soldi: così Mohamed e sua moglie sono diventati nuovi amici tra una chiacchiera e l’altra, con la speranza di rincontrarli prima o poi nel viaggio futuro in Arabia Saudita.

DEDICATO ALLA MEMORIA DI GIULIO REGENI

L’Egitto mio sul lungomare della meravigliosa Alessandria d’Egitto, metà napoletana e metà palermitana, che mi ha conquistato per la bellezza fatiscente, le memorie archeologiche e il futuro remoto della Bibliotheca alexandrina. E con lo sguardo rivolto al Mediterraneo, il mare crocevia di civiltà in cui è riflessa la mia essenza di uomo del Sud, ritrovo i viaggi musicali dei tempi andati  in compagnia di De André e Pagani in contrasto con quelli odierni, perché “il mio maestro (Battiato) m’insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire.” Questo viaggio è dedicato alla memoria di Giulio Regeni  (1988-2016).

65 giorni in viaggio nel Sudest asiatico

Sessantacinque giorni in viaggio nel Sudest asiatico mi tornano in mente uno per uno nel volo di ritorno. I volti dei miei compagni di viaggio, lasciarsi trasportare dal “tragitto” senza le ansie della meta finale, quasi 70 tappe che hanno dato forma a questo pellegrinaggio poetico tra terra, cielo e mare.

DA SINGAPORE AL LAOS

Migliaia e migliaia di chilometri alla Forrest Gump in posti che sono stati casa mia nel flirt tra passato e futuro di Singapore; dal finestrino di un treno dove ho raccolto l’Indonesia da Bali a Java; nel ricordo televisivo e letterario del Sandokan di Salgari che mi ha spinto laggiù in Malesia; nell’omaggio a un popolo che mi sta particolarmente a cuore, i Filippini, attraverso la scoperta delle Filippine tra sorprese e bellezze nascoste lontano dal turismo di massa; nel Vietnam tra paesaggi, memorie belliche e tante meraviglie da Nord fino all’estremo sud del Delta del Mekong; nelle scorribondande attraverso la Cambogia e il miracolo del Parco Archeologico di Angkor Wat (quando vi decidete a eleggerlo tra le meraviglie del mondo?); nella Thailandia tra il mare del Sud, i templi del centro e le montagne del Nord; nella rivelazione del Laos, uscito con discrezione e senza smancerie come da un vecchio film del neorealismo.

VIAGGI DELLA MEMORIA

Il viaggio nel viaggio è stato nei miei “viaggi della memoria” desiderati e realizzati: dal tributo alla memoria delle vittime dell’attentato terroristico di Bali del 2002 al richiamo degli orrori della Guerra del Vietnam tra luoghi, incontri con rifugiati politici, la mia amata Saigon e i tunnel di Cu Chi con il rumore delle bombe di “Apocalypse now” nella mente, dallo spettrale museo del genocidio in Cambogia all’incontro con i rifugiati politici in Thailandia scappati dalla dittatura militare della Birmania a metà degli anni ’90. Infine, da un ex forte militare in Laos ho pianto in silenzio i morti per le bombe sganciate dagli americani qui, che sono state più di quelle in Vietnam ma nessuno ne parla. 

RISVEGLIO DELLA COSCIENZA CIVILE

Svegliare dal torpore la coscienza civile è stato il filo conduttore di questo pellegrinaggio laico. La navigazione del Mekong in Vietnam, Thailandia e Laos è stata la mia sentinella così come la spiritualità e le preghiere nei templi del Sud-Est asiatico mi hanno restituito il ricordo dei miei cari defunti, ritrovati nel volo suggestivo delle lanterne tra i cieli thailandesi di Chiang Mai. A Giacarta, nel giorno del mio onomastico, ho ritrovato la mia professoressa Rosalba Caruso e il dono di un racconto di Buzzati. Entrato nella cattedrale della capitale indonesiana, mi sono sentito illuminato come il protagonista di “L’arcivescovo e il suo segretario”, che pensava di essere solo ma non lo era. Ho messo alla prova l’altruismo delle persone incontrate dandomi varie identità per tutelarmi, raggiungendo il culmine nel Nord della Thailandia: alleggerito dopo aver lasciato il bagaglio a Bangkok, sono entrato in un ristorante e ho chiesto un sacco di immondizia gigante. Ho infilato tutto il necessario lì dentro in modo che da viaggiatore diventassi un vagabondo di nome e di fatto.

GRAZIE

Ringrazio tutti coloro che mi hanno aiutato in questi 65 giorni, un grazie speciale a mia moglie Luisa per il supporto e per aver capito quanto questa lunga assenza da casa diventasse presenza nel viaggio della (ri)scoperta e della (ri)nascita. Un grazie di cuore a una famiglia speciale delle Filippine. Grazie a Glaiza, Karen , Ariel e nonna Corazon per l’accoglienza e avermi fatto sentire uno di voi nel vostro Paese a cui mi sento particolarmente legato. Grazie a chi mi ha tenuto compagnia atteaverso la finestra dei canali social. Da un viaggio così non si può tornare più come prima.

RADICI

Mi allontano volentieri su una zattera dalle imposizioni, dallo stress, dalla routine della quotidianità con la consapevolezza che un pezzo del mio Natale me lo ha regalato in anticipo Giacarta il mese scorso: la vista commovente di un mendicante disteso su una panchina a cui gli uccelli tenevano compagnia. Avvicinandomi mi sono reso conto che era una bella scultura e quell’uomo aveva il volto di Gesù. Su quella panchina ho ritrovato le mie radici cristiane, italiane, europee, di cui non smetterò mai di essere orgoglioso.

Michaela, papavero per l’eternità tra noi narcisi

Michaela (DePrince all’anagrafe americana) non abbiamo sentito il tuo ultimo passo di danza perché troppo affaccendati, di corsa, mentre alla tv i Trump e le Harris duellano e se le danno di santa ragione.

Hai scampato la morte nella tua terra natale, nello scenario sanguinario della guerra civile in Sierra Leone passata inosservata persino a quelli della mia generazione con un piede di gioventù dentro gli anni ’90.

TU SPLENDI COME SIRIO

Dall’Africa occidentale agli Stati Uniti d’America presa per un capello dall’amore della tua nuova famiglia, tra rinascita e crescita, nello slancio artistico che ha fatto di te una stella luminosa della danza.
Non un’etoile, narcisa e snob come tante, bensì una stella appartata come Sirio, il cui fascio luminoso spesso passa inosservato di fronte alla bellezza dominatrice di Venere o della Luna.

CHI E’ NERO E’ DESTINATO A NON AVERE VITA FACILE

Ad Harlem hai imparato una cosa: chi è nero è destinato a non avere una vita facile. Lo ha capito persino l’America degli slogan elettorali alla “Yes, You Can” o quella nostalgica dei sermoni di Martin Luther King. Io l’ho capito con delusione nell’estate del ’92, su una panchina di Central Park, mentre nel tuo angolo d’Africa colava sangue, i guerriglieri abusavano di bambini e facevano scomparire uomini, donne, anziani. Su quella panchina mi dissero : “Ad Harlem non ci puoi andare, sei un bianco, ti fanno la pelle. Vacci con con un tour organizzato.”

PAPAVERO TRA NOI NARCISI

In una domenica americana della scorsa estate, mentre partecipavo ad una messa cantata in una chiesa imboscata di Harlem, pensavo a quelli come te vittime di sberleffi, insulti razziali. Persino “la vitiligine” sulla pelle di colore può trasformarsi nel bersaglio del guardone frustato che, sul divano di casa, con lo smartphone in mano prova a sentirsi padrone del mondo.

Perdonami, a cinquant’anni neanche io so più a chi credere. Respira leggera e danza tenendo per mano mamma Elaine, volata in cielo insieme a te. C’è una lucciola accesa in questa estate invernale. Sei stata speciale per pochi o tanti, non importa. E a noi che ti abbiamo voluto un pezzettino di bene resta il tuo bisbiglio che morde le nostre coscienze assuefatte: “Non avere mai paura di essere un papavero in un campo di narcisi.”

Alain Delon in 5 citazioni

Addio ad Alain Delon (1935-2024), il principe della bellezza al cinema, tra polemiche, faide ereditarie e fedeltà ai suoi cani: si farà seppellire insieme ai suoi amici a quattro zampe nella meravigliosa tenuta a un centinaio di chilometri da Parigi. Quale modo migliore per ricordarlo se non attraverso le sue parole?

Felicità


Ho conosciuto tutto e ricevuto tutto dalla vita, ma la vera felicità è donare.

Premi

I premi alla carriera ti fanno capire che hai un piede nella fossa.

Attore

Io non sono una star: sono un attore. Ho combattuto per anni per far dimenticare alla gente di essere un bel ragazzo con un bel viso: è una dura lotta, ma ci riuscirò.

Tempi moderni

La vita non mi dà più molto. Ho conosciuto tutto, ho visto tutto. Ma soprattutto, odio questa epoca, la rigetto.

Amore

In amore si deve osare tutto se si è innamorati.

3 serie tv cult di Netflix da vedere almeno una volta nella vita

Netflix, la piattaforma americana di streaming più famosa del pianeta, ha frantumato il perimetro del piccolo schermo tradizionale. Negli ultimi dieci anni ci ha offerto serie televisive che hanno lasciato il segno.
Non siete stati ancora in Spagna, Corea del Sud o Gran Bretagna? Prendete il telecomando, radunate un gruppo di amici per una bella maratona e buon viaggio.

LA CASA DI CARTA

Netflix e la Spagna alla riscossa con La casa di carta (2017-2021), una delle serie tv più amate che in 48 puntate ha conquistato il pubblico di mezzo mondo. Non mi dite che non avete sentito dei colpi alla Zecca di Stato e alla Banca Centrale a Madrid per opera di folli rapinatori mascherati da Dalì e capeggiati dal geniale Professore Salvador?
Gli episodi sono da mandar giù tutti d’un fiato e in una decina di giorni riuscite a farli fuori tutti, o quasi. I protagonisti, interpretati da un cast di alto livello, si portano con loro storie di vita intriganti e commoventi che filano un plot pieno di colpi di scena. Così questa ciurma di criminali, agli occhi dell’opinione pubblica, diventerà uno nuovo squadrone di “partigiani” alla ricerca della libertà lontano dalle logiche di potere e dalle contraddizioni dello Stato. La versione spagnoleggiante della nostra antifascista Bella Ciao sarà un vero hit della colonna sonora, con impliciti riferimenti agli anni bui della Spagna franchista.
La casa de papel, questo è il titolo originale, ha dato via allo spin-off Berlino (2023) del quale è disponibile già la prima stagione interpretata dal bravissimo Pedro Alonso.

SQUID GAME

Netflix vi farà preparare il bagaglio per un viaggio in Corea del Sud con Squid Game (2021), la pluripremiata e criticata serie tv. Nove episodi mozzafiato da vedere in una giornata scritti e diretti magistralmente dal sudcoreano Hwang Dong-hyuk. Con un ottimo cast asiatico, Il gioco del calamaro – questo è il titolo tradotto in italiano – ha alzato un polverone di polemiche ovunque perché colpiva il target fragile adolescenziale, istigandolo ad uccidere.
Cosa succede se c’è in palio un premio da quasi 5 milioni di dollari per partecipare a un gioco spietato dove vince chi prevarica sull’altro, ammazzando tutti gli altri concorrenti? Una fotografia contemporanea che denuncia la sfrenata competetività che sta mettendo tutti noi stupidi essere umani gli uni contro gli altri. Chi guarda la serie con il solo focus del game si perde il risvolto critico verso la società sudcoreana e i suoi fallimenti di politiche sociali tra collassi economici e inflazione sulla coda del ‘900.
Squid Game ha il merito di far tornare a galla la rinascita della cinematografia coreana tra stile e poesia a partire dagli anni ’90, da A Petal di Jang Sun-Woo al più recente Parasite di Bong Joon-ho.

BLACK MIRROR

Black Mirror (2011-2023) è tra le serie tv più longeve trasmesse da Netflix e ogni episodio è autoconclusivo. Pertanto, potete mandarli giù come mini film di poco più di un’ora nell’ordine che volete. Un viaggio in Gran Bretagna per la maggior parte delle sceneggiature che affrontano il tema dell’invasione delle nuove tecnologie e l’impatto che stanno avendo sulle nostre vite.
Black Mirror è una vera e propria sfera di cristallo perché diverse puntate sono state profetiche rispetto ai tempi con finali che ci hanno lasciato a bocca aperta.
Le prime due stagioni, arrivate in Italia tra il 2012 e 2013, sono quelle rimaste nel cuore degli appassionati: girate a budget ridotto attirano per quella fotografia grezza che, solo in apparenza, li fanno apparire come dei vecchi B-Movie. Ecco la mia playlist da “vedere assolutamente”: The National Anthem (Stagione 1), Be Right Back (Stagione 2), White Christmas (Speciale 2014), San Junipero (Stagion 3), Black Museum (Stagione 4), Striking Vipers (Stagione 5) e Joan is Awful! (Stagione 6).
In tutto questo tempo Black Mirror è cambiata molto passando dalle remote minacce dei social network a quelle più attuali dell’Intelligenza Artificiale, che può rendere l’unicità della persona umana nella frantumazione di uno, nessuno e centomila. Le riflessioni abbondano, nonostante la serie abiba perso la fragranza degli esordi, così come i dubbi su ciò che sia etico.

20 anni di Facebook tra innovazione, trappole e poca vita

I 20 anni di Facebook dovevano ridursi al passaggio del vecchio “libro delle facce” delle università americane ad uno strumento online per tenere in contatto gli studenti degli atenei d’oltreoceano. Non è stato così perché Zuckerberg e la sua brigata smanettona hanno cambiato le nostre vite, nel bene e nel male.
Cosa stavate facendo mercoledì 4 febbraio 2004? Scavate nella memoria perché quel giorno avrebbe riscritto le pagine della storia dei nuovi mezzi di comunicazione, più di quello in cui la carcassa di un televisore in bianco e nero aveva prodotto nel soggiorno dei nostri nonni nelle seconda metà del Novecento.

FACEBOOK E LA PRIMA ISCRIZIONE

20 anni di Facebook diluiti in una gelida domenica d’inverno del 2008, il 13 gennaio per l’esattezza, a casa della mia amica Valeria nel centro di Milano, a pochi passi dalle guglie del Duomo. Accesi il PC, eravamo seduti al tavolo in cucina con un gruppetto di amici. Davide, allora studente di giurisprudenza alla Statale, mi disse: “Cosa stai combinando?”.
In realtà completavo l’iscrizione a Facebook, il social network di cui mi aveva parlato la mia amica e che aveva conosciuto durante un’esperienza di vita in Australia dell’anno precedente. Gli iscritti in Italia si contavano, per la maggior parte eravamo presenti all’appello noi addetti ai lavori della comunicazione, geolocalizzati soprattuto in Lombardia.

IN PRINCIPIO NON C’ERANO I FEED

20 anni di Facebook all’alba senza feed, in lingua inglese, con i tuoi contenuti che poteva vedere soltanto l’amico facebookiano, consultando la singola timeline. La prima richiesta di amicizia di Facebook la inviai a Valeria e la seconda a Elena, collega in comune, iscritta al social network di Zuckerberg dall’estate del 2007.
Ci avrei messo almeno un paio d’anni prima di ritrovare gli ex compagni di classe e gli amici lasciati a Napoli. Nel frattempo mi divertivo ad aggiungere nel network coloro che avevano lo stesso cognome mio. Non si sa mai avessi trovato un lontano parente nell’America attraversata da vagabondo su un bus della Greyhound?


FACEBOOK TRA DOPPIA VITA E IDENTITA’ SEGRETE

20 anni di Facebook, le nostre vite sotto i riflettori e con il tempo stritolate dall’orco orwelliano del Grande Fratello. E poi tutti travolti dal vortice del cambiamento delle nostre relazioni nella vita e nel lavoro, all’ombra delle nuove tecnologie che hanno condizionato persino il modo di divertirsi o la smania di raccontarsi a tutti i costi, fingere di essere ciò che non eravamo nella vita reale, trasformare la prima puzzetta di nostro figlio in un evento mediatico per metterlo già sul seggiolone della competizione.
Perché correre il rischio di ritrovarsi come l’ultimo scemo del villaggio?
Per essere tutti surrogati di un eroe, come cantava Bowie nei versi profetici “We can be heroes just for one day“, prima che la famiglia si allargasse con le abbuffate di gallerie fotografiche su Instagram o la messaggeria di Whatsapp in coda allo sfinimento dei gruppi morbosi.

IL GOLPE INFAME DEGLI ALGORITMI

20 anni di Facebook e lo strapotere degli algoritmi che, attraverso un golpe infame, hanno messo fine alla democrazia dei social network, già prima che ci accorgessimo di cyberbullismo, fake news, odio e violenza, censure, messa alla gogna della nostra sacrosanta Privacy.
Si è dovuto ricredere chi pensava di entrare da protagonista nelle nostre vite con l’emoticon di un cuoricino o con una sfilza temporanea di like. La vita si alimenta, per fortuna, ancora fuori dai recinti dei bunker facebookiani e lontano dagli spioni. L’accesso non è consentito a tutti, proprio come quello alle nostre case, ultima spiaggia di riservatezza e intimità, al contrario di chi ha scelto di svendere vita privata e ambiente domestico in cambio di una manciata di polvere di popolarità.

FACEBOOK TRA I NUOVI SOLI E L’INVASIONE DEGLI IMBECILLI

20 anni di Facebook oggi. Ci abbiamo perso o guadagnato? Siamo onesti con noi stessi. Nelle partite di ping pong da una bacheca all’altra in cui palleggia la solitudine, echeggiano i versi saggi del Teatro-Canzone di Giorgio Gaber e Sandro Luporini: “Soli e le sole ormai sono tanti Con quell’aria un po’ da saggi, un po’ da adolescenti A volte pieni di energia, a volte tristi, fragili e depressi.”
Si consoli chi non è finito nella morsa della frustrazione collettiva senza la tentazione di strizzare l’occhio ai permalosi che ancora giocano a fare gli offesi sotto il tuono della parole dell’unico professore che ancora rimpiango, Umberto Eco: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli.”

Il bicchiere mezzo pieno c’è? Sì, ma lo capiremo meglio nei prossimi vent’anni.

Sanremo Rewind in 5 canzoni anticonformiste

IL Festival di Sanremo è sempre stato caratterizzato dalla melodia fin dalla sua età della pietra. Eppure il Belpaese “canzonettaro” ha barattato il suo cliché melodico con l’anticoformismo. I tempi erano davvero maturi per captare le canzoni ribelli sottopelle?
Il tempo è galantuomo anche con i brani anticonvenzionali e così accade che facendo un rewind sanremese ritroviamo piccoli gioielli. Queste 5 canzoni anticonformiste lo sono anche per voi?

PAPAVERI E PAPERE

Il Festival di Sanremo si ascolta ancora alla radio quando salta fuori Papaveri e Papere, brano interpretato dall’allora reginetta della canzone italiana Nilla Pizzi. Siamo nel 1952, l’Italia si avvia sulla salita del Boom economico con ancora lo spettro della bombe della passata guerra. Panzeri, Rastelli e Mascheroni ci regalano la prima canzone davvero anticonformista della storia sanremese.
Altro che la favoletta dall’incipit scherzoso “Su un campo di grano che dirvi non so Un dì Paperina col babbo passò.” Dietro la melodia allegra si nasconde una satira feroce contro il potere politico di allora, incarnato dalla vecchia Democrazia Cristiana. I “papaveri alti” sono gli uomini del presidente del sesto governo De Gasperi e “le papere” tutti quelli sottomessi al potere. La canzone ottiene un successo strepitoso. In tanti non colgono il vero significato tanto che la censura feroce della vecchia Balena Bianca resta a guardare, o quasi.

CIAO AMORE CIAO

Il Festival di Sanremo del 1967 è sotto choc alla notizia del suicidio di Luigi Tenco dopo l’eslusione del suo brano Ciao amore ciao. Questa volta l’anticonformismo di polso del cantutore genovese è tutto in una canzone in cui si esplicitano la voglia di cambiamento, l’irrequietezza di una generazione e la consapevolezza di mollare la propria donna per una nuova vita: “Andare via lontano A cercare un altro mondo Dire addio al cortile Andarsene sognando.”
Il festival di allora viaggia sulle onde di sentimentalismi in stile Io, tu e le rose cantata da Orietta Berti. Tenco è troppo avanti, ha una sensibilità cantautoriale più contemporanea e ci vorranno decenni e decenni prima di dare il giusto valore a questo piccolo capolavoro.

GIANNA

Il Festival di Sanremo del 1978 si veste dell’anticonformismo di Rino Gaetano e della sua Gianna che “sosteneva tesi e illusioni, prometteva pareti e fiumi, aveva un coccodrillo e un dottore, non perdeva neanche un minuto per fare l’amore.”
Un inno sfrontato alla liberà femminile e strafottente dei luoghi comuni che fa balzare l’album da cui è tratta, Nuntereggae più, in vetta alle nostre classifiche.
Eppure dietro la canzone del cantutore crotonese, che fa tremare il palco dell’Ariston, si nasconde una girandola di interpretazioni. C’è chi vorrebbe Gianna semplicemente come manifesto della libertà sessuale, chi invece la innalza a simbolo dell’ipocrisia politica e alla sua corruzione o chi la elegge a rappresentare di chi non rinuncia alle ideologie illusorie. Nel testo ironico di Rino Gaetano alcuni vedono allusioni al vecchio potere della massoneria in Italia.

VITA SPERICOLATA

Al Festival di Sanremo del 1983 nessuno scommette una cippa su Vita spericolata, senza capire che la canzone Vasco è destinata a diventare l’inno di una generazione: “Voglio una vita che non è mai tardi Di quelle che non dormi mai Voglio una vita, la voglio piena di guai.”
L’anticonformismo del Blasco, sulle onde di un rock grezzo e provinciale, non attecchisce su critica e platea dell’Ariston, ma si fa strada piano piano. Attraverso l’urto delle onde radiofoniche sprofonda nell’immaginario di una generazione che riconosce nel rocker di Zocca il suo paladino.
Nel 1992 la canzone ottiene un bel riscatto ed è riconosciuta persino dalla vecchia guardia del cantautorato genovese. Infatti, Gino Paoli chiude il suo brano Quattro amici con l’inciso di Vita spericolata dove interviene la voce dello stesso Vasco.

LA TERRA DEI CACHI

Il Festival di Sanremo del 1996 è sconvolto da La terra dei cachi. L’anticonformismo di Elio e le Storie Tese è demenziale tra musica rocchettara e testo irriverente, mancando per un pelo il podio dell’Ariston. Nel bel mezzo della Seconda Repubblica, dopo il terremoto di Tangentopoli e la fine della Prima Repubblica, quale Italia ci resta tra le mani? Quella dei “Parcheggi abusivi Applausi abusivi Villette abusive Abusi sessuali abusivi Tanta voglia di ricominciare, abusiva.”
Si ride per non piangere con il rock demenziale di Elio e compagnia bella, tanto si sa che il Belpaese dobbiamo tenercelo così. Si facciano avanti delusioni, omissioni, indignazioni, nuovi santi corrotti, melodrammi dei giorni nostri. Il nonsense fa la sua parte in pieno stile zappiano e il brano continua a brillare nella costellazione del Sanremo off: “Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè C’è un commando che ci aspetta per assassinarci un po’.