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Diario di viaggio: in treno verso il Tibet

In fila alla stazione di X’ian siamo centinaia e centinaia di persone. Ci aspettano 32 ore di treno fino a Lhasa, ma in compenso saliremo sul “tetto del mondo”, il punto più alto della terra riservato ad una linea ferroviara.

VERSO IL TIBET
Il Tibet è ancora lontano e i controlli sono incalzanti. Per chi non è cinese, ci vuole un permesso speciale per mettervi piede, oltre il Visto naturalmente, che si può ottenere soltanto se si fa parte di un gruppo turistico organizzato in loco.
Passo da una carrozza all’altra, mi guardo intorno, sono l’unico europeo, ho gli occhi puntati addosso. Mi aspetta un viaggio faticoso: lo stomaco non ne vuole più saperne di cibo asiatico; le condizioni dei servizi igienici sono davvero pessime; l’odioso rumore dei cinesi che sorseggiano té dal termos; l’odore irritante di quei contenitori di cibo d’asporto.

COMPAGNI DI VIAGGIO
A condividere con me i 2.800 chilometri c’è una famiglia di Xian. Lui è appassionato di foto e, tra uno scatto e l’altro, mi fa da spalla a far la sentinella al finestrino. Insieme alla moglie parla qualche parola d’inglese; la figlia è una graziosa liceale che sembra scappata da un manga giapponese.
Man mano che saliamo di altitudine la stanchezza si fa sentire tanto che a tratti mi attacco a un respiratore per prendere una boccata d’ossigeno.

LA NONNA TIBETANA
La profonda bellezza dei suoi ottant’anni è avvolta dal fascio di luce proveniente dal finestrino. Sulla pelle rugosa dell’anziana tibetana che mi sta di fronte è mappata la storia di un Paese, che a modo suo ha contrastato il regime e i soprusi di Pechino.
I nostri sguardi si incrociano e lei si rende conto che, imbranato come sono con quelle maledette bacchette, il mio pasto non lo comincerò mai. Mi offre un pugno di mandorle e mi sorride. In lei rivedo le vecchie contadine del mio Sud Italia, immobili nei ricordi dell’infanzia con papà che mi portava nelle  masserie a spiluccare memoria e antichità, spalmate sul pane e zucchero offertomi nelle contrade.

LE SPALLE DI DIO ALL’ALBA
Crollo dal sonno. Al risveglio, stropicciando gli occhi, mi accorgo di essere in Tibet. La Cina è lontana. L’alba scontorna l’altopiano, viaggio sul “tetto del mondo”, chi lo avrebbe mai detto. Le riconosco quelle montagne tibetane, sono le spalle del Padreterno. Non sono né in cielo né in terra, sono sospeso a metà nell’unico punto della Terra in cui si può salire sulle spalle di Dio.
Mi torna in mente il film visto con mia madre negli anni dell’infanzia, Orizzonte perduto di Frank Capra, e la promessa che un giorno sarei venuto da queste parti come un esploratore.

Lhasa non è poi così lontana. Mi sembra un sogno. C’era una volta il Tibet, quello che ho vissuto.

 

Se vogliamo costruire la pace nel mondo, costruiamola in primo luogo dentro ciascuno di noi. (Dalai Lama)

Cartolina da Xian: al di là della Via della Seta

All’alba alla stazione di Xi’an sembra mezzogiorno. C’è un via vai di gente spropositato per quell’ora. Nessuno che sputi una cicca d’inglese. Riesco a trovare il bus del servizio urbano per uscire fuori dal centro dall’ex capitale della Cina.
La bigliettaia va avanti e indietro per fare la questua e darci un tagliandino che corrisponde al titolo di viaggio. Sembra essere tornati nell’Italia del dopoguerra, in un fotogramma di un film del Neorealismo.

TERRACOTTA
Si comunica con i gesti e, per fortuna, c’è una parola italiana comprensibile ai cinesi che mi porta a destinazione: Terracotta. Sul bus  c’è gente che scende nei paesini limitrofi per cominciare un’altra giornata di lavoro. Gli sguardi sono puntati su di me, sono l’unico a non avere gli occhi a mandorla. La bigliettaia va a colpo sicuro, mi fa segno di scendere perché ha capito che sono diretto all’esercito di Terracotta.
La gente fa una lunga fila ed è pronta a sborsare la cifra spropositata di  200 RMB (25 euro) per vedere da vicino quello che per me resta una delle meraviglie del mondo.

GLORIA IMPERIALE E PROFITTI
Il primo imperatore cinese Qin Shi Huang non avrebbe immaginato di certo che l’armata di terracotta, fatta costruire su misura per difendersi nell’adilà, sarebbe diventata più di duemila anni dopo una piccola miniera d’oro del turismo.
Nel 1974 un contadino della zona scovò i primi resti di questa meraviglia archeologica, destinata a dispiegarsi in undici file lungo duecento metri.
Oggi questi arcieri e fanti rappresentano la gloria imperiale cinese, abbagliano il viaggiatore e restano l’orgoglio del governo che li usa come messaggeri della nuova frontiera economica dell’Asia.

LANGUORI DA EX CAPITALE
Mi perdo per le vie di Xian e avverto il languorino da ex capitale nel perimetro delle mura cittadine che fortificano il percorso.

C’è chi fa una passeggiata spensierata, c’è chi come me si incammina per osservare dall’alto la città, scorrendo quelle zone fatiscenti che il turista strabico non nota e allungando l’occhio fino all’imperdibile quartiere musulmano.
Quando il sole si spegne, si accendono, tra le mura cittadine, le luci dello spettacolo all’aperto che riesuma vecchie glorie, evoca melodrammi in costumi sfarzeschi come se la colonna sonora facesse del regime comunista di oggi lo spettro burattinaio dei tempi andati.

CHI SI ACCONTENTA, NON GODE
C’è chi si accontenta di un plenilunio, io no. Tiro fuori dal passaporto il permesso speciale che mi ricorda la prossima tappa di questo viaggio complicato e incredibile: il Tibet. Non sono pronto del tutto, mi sembra irreale. Perché dovrei avere timore?
Mi torna in mente il Flaubert degli anni universitari: “La censura qualunque essa sia, mi sembra una mostruosità, una cosa peggiore dell’omicidio: l’attentato al pensiero è un crimine di lesa-anima”.

Ho occhi per vedere e una penna per raccontare.

 

Non abbiamo bisogno di niente. Possediamo già tutto. (Quianlong, Imperatore cinese dal 1735 al 1796)

Cartolina da Pechino a carico del destinatario

Agli arrivi dell’aeroporto di Pechino il tempo sembra essersi fermato, sigillato nell’involucro del comunismo che fa della Cina l’ultimo baluardo di falce e martello. L’unico partito di governo, che fa resistere la Repubblica Popolare Cinese alle intemperie del tempo, fa sventolare la bandiera rossa su piazza Tienanmen.

 

DISTRATTI
I turisti sono troppo indaffarati a fare selfie per guardarsi intorno, per alzare lo sguardo sulle guardie che con la loro stazza fanno da sentinella alla piazza-macelleria della storia.
I nonni tirano dalla tasca 60 rmb, poco meno di 1 euro, per regalare ai bambini una bandierina rossa in ricordo del patriarca Mao Zedong, il cui mausoleo domina Tienanmen.


CENSURE
Mi viene voglia di tirare dalla tasca lo smartphone, scaraventare da YouTube su tutta la piazza quel video del 4 giugno 1989 in cui i carri armati scrissero la pagina crudele della strage di piazza Tienanmen contro gli studenti ribelli al regime. YouTube e gli altri social network non sono accessibili dalla Cina. La censura spettrale del regime mi costringe ad usare un’app VPN per collegarmi su server stranieri e avere accesso a Facebook, Instagram e Twitter.

Meglio non dare nell’occhio. Noi giornalisti siamo costretti a nascondere le nostre identità, perché Pechino sa bene che, anche sotto le spoglie di instancabili viaggiatori, siamo degli impiccioni, vogliamo capirci qualcosa e non ci accontentiamo degli specchietti per le allodole dati in pasto ai turisti europei.

 

CONTRADDIZIONI
Per gli europei mettere piede nella Città Proibita è calcare le orme dell’omonimo film di Zhang Yimou; per l’italiano medio addentrarsi nel set cinematografico di L’ultimo imperatore di Bertolucci.

Per me non è niente di tutto ciò, è piuttosto un tunnel zeppo di contraddizioni che vomita la storia di una civiltà. In quel perimetro tutto sembra lucido, lindo. Basta uscire da un cancello laterale per ritrovarsi nel lercio, nella zolla pechinese riservata alla gente comune: condizioni igieniche lontane anni luce dagli standard europei.

Non basteranno lo splendore abbagliante del Palazzo d’Estate o il raccoglimento del Tempio del Cielo a distogliere il mio sguardo sulla Cina, distante dai noiosi racconti di viaggio patinati che affollano la Rete come un catalogo da turismo di massa.

 

IL VIAGGIO
Mi incammino in piena notte con la consapevolezza che è appena cominciato il viaggio più lungo e faticoso della mia vita da vagabondo. Niente riuscirà a bendarmi gli occhi, perché affronterò ogni chilometro di questo tragitto con un piede nella pozzanghera della memoria e un altro in quel che resta del domani mai giunto a destinazione.

 

Dopo aver cancellato per decenni la propria cultura storica, oggi la Cina ritrova un legame con il proprio passato, anche rispetto al periodo imperiale. L’idea, però, è di raccontarlo attraverso canoni holliwoodiani, uscendo dalla tradizione. (John Woo, regista)