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Diario di viaggio: perché ho lasciato le mie camicie in riva al Gange

Quando ho messo nel bagaglio le mie camicie con il collo consumato, mi sono detto chissà in quanti penseranno che una camicia vecchia non va conservata per tanti anni. C’è chi le camicie se le fa cucire su misura, i fricchettoni si fanno appiccicare le iniziali, i modaioli vestono le grandi firme.

Le mie sono camicie anonime che mi hanno accompagnato negli ultimi vent’anni in giro per il mondo. Tra queste ce n’era persino una che mi aveva regalato nonna Lucia, presa al mercatino di Fuorigrotta. Queste camicie non appartenevano alle grandi marche, sono appartenute soltanto a me, hanno preso la forma del mio torace, del mio corpo, hanno vestito la mia anima di viaggiatore, hanno visto la sua crescita ed evoluzione.

Queste camicie hanno fatto l’ultimo viaggio in India con me, non sono più tornate indietro, sono rimaste lì, le ho lasciate in riva al Gange. Qualcuno ha pensato fosse un rito religioso induista. No, è stato il mio desiderio di lasciarle in riva al fiume sacro dell’India per rendere omaggio alle persone defunte che hanno vestito la mia vita.

I grandi affetti non possono essere rimpiazzati, restano per sempre e sfidano il muro di gomma della morte. I morti non mi fanno paura, mi spaventano piuttosto i vivi affannati tra le loro inguaribili mediocrità. In una mattinata ho percorso quattro chilometri lungo il Gange a Varanasi e le ho abbandonate un po’ qui, un po’ là.

Sono convinto che saranno passati a prendersele, le avranno indossate e così un giorno lì riconoscerò perchè da bambino pensavo che gli angeli avessero un viso fatto di luce abbagliante.
Queste camicie mi faranno da bussola per ritrovarli: il nonno con quella celeste, la nonna con quella blu scuro che le piaceva tanto, la professoressa rivoluzionaria con quella bianca, lo zio militare con quella a righe, la migliore amica con quella a pois come le sue lentiggini che mi divertivano da bambino.

La sera, prima di partire da Varanasi, ho visto le mie camicie volare sul Gange al chiaro di luna. La profezia si è avverata. Mi sono sentito più leggero, sgombro dal peso delle paure umane. Lasciamoli andare i nostri morti, liberi, un giorno li ritroveremo e indosseranno una camicia.

 

Non ce ne siamo andati del tutto,

nessuno se ne va del tutto,

lo so perchè a volte torno

in un profumo,

in un suono,

in un colore

o in un sogno che poi dimentico.

(Patricia Monica Vena)

Cartolina dall’India: a casa della Missionarie della Carità di Madre Teresa

Le lancette dell’orologio segnano le otto e mezzo. A passi lenti avanzo in una stradina stretta nei pressi del ghat Shivala di Varanasi. L’insegna “Missionarie della Carità di Madre Teresa” mi indica l’arrivo. Un uomo sulla settantina sull’uscio mi annuncia. Sbuca una suorina e mi fa cenno di entrare: “Sapevamo della sua visita. La stavamo aspettando”.

Comincia così il mio viaggio nel viaggio nella casa di Varanasi fondata da Madre Teresa, la più importante dopo quella principale di Calcutta. “Ci conosceva una per una – mi racconta la suora – e passava in ciascuna delle sue case per guardare negli occhi le persone che accoglievamo”.
Scendiamo una rampa di scale, attraversiamo un corridoio, entriamo in una lunga camerata. Un uomo in pigiama mi sorride, una donna anziana farfuglia qualcosa e mi saluta con un cenno del capo.

In questa casa ci sono soprattutto malati con disturbi mentali. Poi entriamo in uno studio con una piccola scrivania al centro.
A lato campeggia un ritratto di Madre Teresa di Calcutta con un sorrise raggiante. La suora mi chiede del mio viaggio in India ed io le racconto di quando sui banchi di una scuola media di periferia mi impressionò l’operato di Santa Teresa di Calcutta. Esce nel cortiletto, stende il bucato.

Io resto immobile con lo sguardo fisso sulla finestra e mi convinco che dovremmo cercare la santità nell’operato che uomini e donne straordinari hanno lasciato qui in terra, e non sugli altari o nelle processioni.
Dovrebbe passare nella casa delle Missionarie della Carità tutta la stampa becera che ha ridotto la vita di Madre Teresa ad un’effimera operazione mediatica.

Mi incammino verso l’uscita. Dal cortile decine e decine di occhi luminosi mi salutano in coro così: “Goodbye and thank you for coming from Italy”.
E’ il buongiorno in India che mi accarezza il cuore, mi spoglia l’anima.

 

Sono come una piccola matita
nelle Sue mani, nient’altro.
È Lui che pensa.
È Lui che scrive.
La matita non ha nulla
a che fare con tutto questo.
La matita deve solo
poter essere usata.

Madre Teresa (1910-1997)

Cartolina da Varanasi: sul sacro Gange ho sentito le sue mani tra vita e morte

Rahul mi accompagna nel mio alloggio che affaccia sul Gange. Sono arrivato a Varanasi dopo una nottata di treno.  Indicandomi la scrivania, mi fa cenno come per dire “le sarà utile per scrivere”.
La mia vicina è Amita, figlia di una coppia indiana trasferitasi a Londra. Chiacchieriamo, le racconto del mio on the road in India e lei del ritorno al suo Paese d’origine.

Prima del tramonto, l’autista mi porta dal barcaiolo. Gli ultimi scorci di sole, in un tramonto di pastelli  che non potrò cancellare, accompagnano la mia navigazione sul Gange. Tra una remata  e l’altra sento in lontananza i canti provenienti dal Dasaswamedh Ghat che tutte le sere mettono a letto il fiume sacro dell’India.

Scende la sera, di fronte a me lampeggiano dei falò incandescenti. La barca si accosta alla riva, all’altezza del gath della cremazione. I corpi vengono bruciati, il tanfo di cadavere si mischia ad uno strano odore che non saprei descrivere. Un branco di cani mette la testa nel Gange all’altezza dei corpi bruciati. Tre grosse mucche si spostano lentamente avanti e indietro.

La foschia del fiume avvolge il bagliore del fuoco. Faccio cenno al barcaiolo di riprendere a remare. Sono sconvolto. Comincio a pensare intensamente a lei, perchè perdere la tua migliore amica quarantenne è l’affronto peggiore che il dolore possa farti.
Mi alzo in piedi sulla barca, lancio nel Gange una coroncina di fiori con una fiammella accesa. Man mano che il cuscino di fiori si allontana, sento due mani sulle spalle. Le riconosco, sono le sue.

Provo a voltarmi indietro, le sue mani bloccano il mio capo come per dire non girarti, non serve, “sono qui, ti aspettavo, sapevo che saresti venuto perché questo viaggio lo hai fatto anche per me”. Singhiozzo, si appannano gli occhiali e le sue mani arrivano all’altezza dei miei occhi, provando ad asciugare la colata delle mie lacrime.

Quella notte mi butto giù dal letto per riaffacciarmi sul fiume Gange dal mio balcone. Avevo capito che non avevo sognato, perchè i morti ci restano accanto per sempre.
Nel silenzio di quella notte di dicembre mi è stato svelato il motivo di questo viaggio: ritrovarla sulle acque del fiume sacro dell’India senza tempo.

 

Chi ha un vero amico, non ha bisogno di uno specchio. (Proverbio indù)