Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Cartolina da Salvador de Bahia: il Brasile dalla finestra della pousada del cugino Giovanni

Dalla finestra della pousada Suites do Pelo intravedo i colori di Salvador de Bahia: mi sento a casa. Giovanni, il proprietario della mia pousada preferita in Brasile, ha lo stesso cognome mio. Il papà era emigrato in Sudamerica da Salerno dopo il secondo Dopoguerra con un mucchio di sogni in groppa.
Io e Giovanni condividiamo le nostre storie private, è scintilla al di là del cognome Pipolo che ci spartiamo.  Ci inventiamo “una cuginanza” italo-brasiliana e quando gli altri ce lo chiedono, sorridendo sotto i baffi, noi riconosciamo una lontana parentela. Giovanni fa gli onori di un cugino maggiore e mi dà consigli utili, perché sa che degli itinerari dei turisti non me frega niente.

La mia perlustrazione di Salvador comincia con una scarpinata fino a giù a Barroquinha, dove di turisti non c’è neanche l’ombra. Gli occhi sempre aperti, mi raccomanda il parroco della chiesa della zona, perché i pericoli a Salvador ci sono, soprattuto quando dopo il tramonto le strade di quest’area si svuotano. Mi guardo intorno tra i meravigliosi edifici fatiscenti, le corriere piene di ragazzi al ritorno da scuola, scolandomi una bottiglia d’acqua gelata presa in una bottega che assomiglia ai rivenditori di bibite della mia Napoli.

Sì, Salvador ha tanti tratti comuni alla città che  mi ha dato i natali: mi arrampico tra le viuzze del Pelourinho, il centro storico della capitale di Bahia, e mi sembra di essere finito nei vicoli dei Quartieri Spagnoli di Napoli.  Le facciate colorate delle case si mescolano all’architettura delle chiese, i suoni degli artigiani che fabbricano gli strumenti musicali di Bahia si sciolgono nel vocio della gente, i dipinti degli artisti locali riflettono i colori del cielo, delle nuvole, del tetto che sovrasta Salvador.

Mi fermo nella casa di Jorge Amado e penso che, forse se non avessi letto e amato i suoi romanzi, neanche sarei qui. Assaggio la cucina locale nei ristorantini nascosti dove talvolta la voce e le note di un cantante mi riportano alla musica meticcia di Bahia, quella fatta dall’impasto nero, bianco e indios. Resto ore e ore in un negozietto di musica di Praça da Sè e mi chiedo come farò a portarmi tutti questi chili di musica fatti di cd, vinili, copertine prima che il digitale ci stordisse con i suoi bit e la liquefazione. Del resto Bahia è la terra di Caetano, Gilberto, Maria Bethania e forse senza le loro canzoni non sarei arrivato fin qui.

Prendo l’ascensore panoramico, bighellono sul porto, converso con gli artigiani del vecchio mercato, mi infilo in un autobus pubblico, attraverso Salvador per decine di chilometri, mi passa per un attimo la sottile paura che possa accadermi qualcosa. Sono a ridosso della spiaggia di Rio Vermelho in un sabato pomeriggio tra locali, la brezza, un buon piatto di carne che mi viene servito con gli occhi puntati sull’oceano, le cui onde travolgenti non risparmierebbero gli incauti naviganti.
Poi mi incammino verso Barra, l’altra spiaggia cittadina, mentre uno dei soliti acquazzoni di passaggio mi inonda e mi fa sentire parte dell’oceano. A Barra c’è un faro che solfeggia l’anima del romanzo di Virginia Woolf, le nuvole si mescolano con i colori di un tramonto pazzesco, lo struscio degli innamorati mano nella mano, il cocco venduto dagli ambulanti, mi sembra di esserci nato a Salvador.

Quattro giorni volano a Salvador e in quella pousada Suites do Pelo ci ho fatto la mia seconda casa con l’aiuto di Luciano, Daniele, Paulo e Anderson, i ragazzi che lavorano lì. Quando Giovanni mi riporta in aeroporto nel buio della notte, gli dico che un giorno dovrò ritornarci, magari con la mia futura moglie e i figli che verranno perché su una cosa insisto: noi viaggiatori abbiamo un mattone di una casa in ogni città in cui vi abbiamo lasciato l’anima.

Giovanni mi saluta regalandomi a sorpresa un suo vecchio vinile di Caetano Veloso. Il gesto mi commuove e da quel momento a chiunque mi avrebbe chiesto il perché di questo viaggio in Brasile, avrei risposto bonariamente “per mettermi alla ricerca del cugino italo-brasiliano”. Dopo i litri di musica e i chili di letteratura che mi hanno spinto fino a Salvador, da oggi c’è un amico: “mio cugino” Giovanni Pipolo.

Cartolina da Recife: il Brasile nella quotidianità dell’anima di Dalva e Edson

In Brasile, il 48° Paese del mio giro del Mondo, mi hanno portato le poesie di Vinicius De Moraes, gli acquerelli musicali di Toquinho, le canzoni rivoluzionarie di Caetano, Gilberto Gil, Chico Barque e Maria Bethania, i  romanzi di Jorge Amado, i racconti di vita vissuta di zio Mimmo, le urla inghiottite dal Maracanà, il lungomare di Copacabana sognato con mia mamma guardando una telenovela Brasiliana. Niente cataloghi, niente consigli di viaggio, niente set costruiti.
A Recife, nello stato del Pernambuco, arrivo alle 3 del mattino. Fino a pochi giorni prima della partenza, non avrei immaginato di trovare Edson e Dalva ad accogliermi: quest’ultima aveva vissuto per un lungo periodo alla periferia di Napoli alla fine degli anni ’80.

 

Sonnecchio qualche ora e la prima alba  del mio ritorno in Sudamerica è in un sobborgo di Recife, poco distante dall’aeroporto. Dalva mi racconta che Jardim Jordao non gode di una buona nomea, nella parte alta ci sono “i baby killer”, quei mocciosetti con la pistola che sono la dannazione brasiliana fuori i perimetri delle aree poco sicure. Non trascuriamo la gente onesta e semplice come Dalva e Edson, costruttori di amore e  felicità in tutti questi anni di matrimonio.

Dalva mi mostra vecchie foto stampate su carta Kodak, le brillano gli occhi, il periodo vissuto nel napoletano non si è mai assopito dentro di lei, le persone, i legami dei tempi andati. Nel frattempo Edson mi presenta ai vicini. La signora è nonna di una cucciolata di nipoti a 55 anni, si è sposata a 14. Mi giro intorno, tutti vivono con l’essenziale ma respiro tanta aria di felicità intorno a me. Quanto tempo era che non ne annusavo?

Poi passa a prenderci un’auto e inizia il nostro giro a Recife antica con la guida di Eliane, la sorella di Edson, che collabora con diversi musei della zona. Qui di turisti europei ne arrivano pochi, mi godo la città in un giorno lavorativo qualsiasi, con la spiaggia semideserta, i cavalloni oceanici, i palazzi fatiscenti che profumano di antichità, un centro culturale inaspettato e tassellato di arte.
Io, Dalva ed Eliane sorseggiamo un buon caffè brasiliano in una caffetteria dell’inizio del ‘900 del centro storico, accompagnandolo con una succulenta Coxinha, che può fare invidia agli arancini appuntiti siciliani.

 

Quando il tramonto si accovaccia sulla capitale dello stato del Pernambuco, mi sento già parte di questa comunità e il timore fisiologico del viaggiatore solitario in un nuovo Paese a lui sconosciuto si assottiglia, nonostante sia solo il mio primo giorno in Brasile.
Quando mi giro per salutare tutti prima di ripartire, mi sembra di rivedere nonna Lucia che, prima dell’inizio di ogni mio vagabondaggio, mi ripeteva: “‘A Maronna t’accumpagne”.
Mi stropiccio gli occhi perché ho visto il Brasile nell’anima della quotidianità di Dalva, Edson, Eliane, sua mamma e tutto quel piccolo mondo antico, distante dalle brutture dell’Italia di questo tempo.

So che non sarò solo, nonostante tutto. Sono in volo tra le stelle e le nuvole del Brasile.