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Archives Agosto 2018

Cartolina da Salvador de Bahia: il Brasile dalla finestra della pousada del cugino Giovanni

Dalla finestra della pousada Suites do Pelo intravedo i colori di Salvador de Bahia: mi sento a casa. Giovanni, il proprietario della mia pousada preferita in Brasile, ha lo stesso cognome mio. Il papà era emigrato in Sudamerica da Salerno dopo il secondo Dopoguerra con un mucchio di sogni in groppa.
Io e Giovanni condividiamo le nostre storie private, è scintilla al di là del cognome Pipolo che ci spartiamo.  Ci inventiamo “una cuginanza” italo-brasiliana e quando gli altri ce lo chiedono, sorridendo sotto i baffi, noi riconosciamo una lontana parentela. Giovanni fa gli onori di un cugino maggiore e mi dà consigli utili, perché sa che degli itinerari dei turisti non me frega niente.

La mia perlustrazione di Salvador comincia con una scarpinata fino a giù a Barroquinha, dove di turisti non c’è neanche l’ombra. Gli occhi sempre aperti, mi raccomanda il parroco della chiesa della zona, perché i pericoli a Salvador ci sono, soprattuto quando dopo il tramonto le strade di quest’area si svuotano. Mi guardo intorno tra i meravigliosi edifici fatiscenti, le corriere piene di ragazzi al ritorno da scuola, scolandomi una bottiglia d’acqua gelata presa in una bottega che assomiglia ai rivenditori di bibite della mia Napoli.

Sì, Salvador ha tanti tratti comuni alla città che  mi ha dato i natali: mi arrampico tra le viuzze del Pelourinho, il centro storico della capitale di Bahia, e mi sembra di essere finito nei vicoli dei Quartieri Spagnoli di Napoli.  Le facciate colorate delle case si mescolano all’architettura delle chiese, i suoni degli artigiani che fabbricano gli strumenti musicali di Bahia si sciolgono nel vocio della gente, i dipinti degli artisti locali riflettono i colori del cielo, delle nuvole, del tetto che sovrasta Salvador.

Mi fermo nella casa di Jorge Amado e penso che, forse se non avessi letto e amato i suoi romanzi, neanche sarei qui. Assaggio la cucina locale nei ristorantini nascosti dove talvolta la voce e le note di un cantante mi riportano alla musica meticcia di Bahia, quella fatta dall’impasto nero, bianco e indios. Resto ore e ore in un negozietto di musica di Praça da Sè e mi chiedo come farò a portarmi tutti questi chili di musica fatti di cd, vinili, copertine prima che il digitale ci stordisse con i suoi bit e la liquefazione. Del resto Bahia è la terra di Caetano, Gilberto, Maria Bethania e forse senza le loro canzoni non sarei arrivato fin qui.

Prendo l’ascensore panoramico, bighellono sul porto, converso con gli artigiani del vecchio mercato, mi infilo in un autobus pubblico, attraverso Salvador per decine di chilometri, mi passa per un attimo la sottile paura che possa accadermi qualcosa. Sono a ridosso della spiaggia di Rio Vermelho in un sabato pomeriggio tra locali, la brezza, un buon piatto di carne che mi viene servito con gli occhi puntati sull’oceano, le cui onde travolgenti non risparmierebbero gli incauti naviganti.
Poi mi incammino verso Barra, l’altra spiaggia cittadina, mentre uno dei soliti acquazzoni di passaggio mi inonda e mi fa sentire parte dell’oceano. A Barra c’è un faro che solfeggia l’anima del romanzo di Virginia Woolf, le nuvole si mescolano con i colori di un tramonto pazzesco, lo struscio degli innamorati mano nella mano, il cocco venduto dagli ambulanti, mi sembra di esserci nato a Salvador.

Quattro giorni volano a Salvador e in quella pousada Suites do Pelo ci ho fatto la mia seconda casa con l’aiuto di Luciano, Daniele, Paulo e Anderson, i ragazzi che lavorano lì. Quando Giovanni mi riporta in aeroporto nel buio della notte, gli dico che un giorno dovrò ritornarci, magari con la mia futura moglie e i figli che verranno perché su una cosa insisto: noi viaggiatori abbiamo un mattone di una casa in ogni città in cui vi abbiamo lasciato l’anima.

Giovanni mi saluta regalandomi a sorpresa un suo vecchio vinile di Caetano Veloso. Il gesto mi commuove e da quel momento a chiunque mi avrebbe chiesto il perché di questo viaggio in Brasile, avrei risposto bonariamente “per mettermi alla ricerca del cugino italo-brasiliano”. Dopo i litri di musica e i chili di letteratura che mi hanno spinto fino a Salvador, da oggi c’è un amico: “mio cugino” Giovanni Pipolo.

Cartolina da Recife: il Brasile nella quotidianità dell’anima di Dalva e Edson

In Brasile, il 48° Paese del mio giro del Mondo, mi hanno portato le poesie di Vinicius De Moraes, gli acquerelli musicali di Toquinho, le canzoni rivoluzionarie di Caetano, Gilberto Gil, Chico Barque e Maria Bethania, i  romanzi di Jorge Amado, i racconti di vita vissuta di zio Mimmo, le urla inghiottite dal Maracanà, il lungomare di Copacabana sognato con mia mamma guardando una telenovela Brasiliana. Niente cataloghi, niente consigli di viaggio, niente set costruiti.
A Recife, nello stato del Pernambuco, arrivo alle 3 del mattino. Fino a pochi giorni prima della partenza, non avrei immaginato di trovare Edson e Dalva ad accogliermi: quest’ultima aveva vissuto per un lungo periodo alla periferia di Napoli alla fine degli anni ’80.

 

Sonnecchio qualche ora e la prima alba  del mio ritorno in Sudamerica è in un sobborgo di Recife, poco distante dall’aeroporto. Dalva mi racconta che Jardim Jordao non gode di una buona nomea, nella parte alta ci sono “i baby killer”, quei mocciosetti con la pistola che sono la dannazione brasiliana fuori i perimetri delle aree poco sicure. Non trascuriamo la gente onesta e semplice come Dalva e Edson, costruttori di amore e  felicità in tutti questi anni di matrimonio.

Dalva mi mostra vecchie foto stampate su carta Kodak, le brillano gli occhi, il periodo vissuto nel napoletano non si è mai assopito dentro di lei, le persone, i legami dei tempi andati. Nel frattempo Edson mi presenta ai vicini. La signora è nonna di una cucciolata di nipoti a 55 anni, si è sposata a 14. Mi giro intorno, tutti vivono con l’essenziale ma respiro tanta aria di felicità intorno a me. Quanto tempo era che non ne annusavo?

Poi passa a prenderci un’auto e inizia il nostro giro a Recife antica con la guida di Eliane, la sorella di Edson, che collabora con diversi musei della zona. Qui di turisti europei ne arrivano pochi, mi godo la città in un giorno lavorativo qualsiasi, con la spiaggia semideserta, i cavalloni oceanici, i palazzi fatiscenti che profumano di antichità, un centro culturale inaspettato e tassellato di arte.
Io, Dalva ed Eliane sorseggiamo un buon caffè brasiliano in una caffetteria dell’inizio del ‘900 del centro storico, accompagnandolo con una succulenta Coxinha, che può fare invidia agli arancini appuntiti siciliani.

 

Quando il tramonto si accovaccia sulla capitale dello stato del Pernambuco, mi sento già parte di questa comunità e il timore fisiologico del viaggiatore solitario in un nuovo Paese a lui sconosciuto si assottiglia, nonostante sia solo il mio primo giorno in Brasile.
Quando mi giro per salutare tutti prima di ripartire, mi sembra di rivedere nonna Lucia che, prima dell’inizio di ogni mio vagabondaggio, mi ripeteva: “‘A Maronna t’accumpagne”.
Mi stropiccio gli occhi perché ho visto il Brasile nell’anima della quotidianità di Dalva, Edson, Eliane, sua mamma e tutto quel piccolo mondo antico, distante dalle brutture dell’Italia di questo tempo.

So che non sarò solo, nonostante tutto. Sono in volo tra le stelle e le nuvole del Brasile.

 

Buon Ferragosto: “C’era una volta la vacanza estiva…” e la riflessione amara di Massimo

E’ cosa rara nei giorni a cavallo di Ferragosto incrociare riflessioni intelligenti dei vacanzieri facebookiani. Le bacheche del social network di Zuckerberg straripano  con foto e video in cui si fa a gara a raccontare la vacanza più bella. Lo stile dello storytelling di Facebook, che in tanti casi diventa goffo, richiama quell’ ”ostentazione della felicità” di cui leggevo in Rete qualche settimana fa.

Torniamo a noi e alle rare riflessioni intelligenti di Ferragosto: ne ho trovata una, pubblicata di getto da Massimo, over 40 napoletano, sulla sua bacheca Facebook e, che per fortuna, non è finita strozzata in un angolo dai maledetti algoritmi che riempiono i news feed di banalità e stupidità.

“C’era una volta la vacanza estiva… la vacanza che durava talmente tanto che prendevi l’accento del posto. La mattina in spiaggia, pure se ne avevi già a decine, ci voleva la mille lire per comprare i braccioli, il pallone, il cocco (…) Oggi la vacanza dura talmente poco che, quando torni, nun saje se sei partito o te le sunnato.”

L’incipit non appartiene alla filastrocca nostalgica di un over 70, anche perché sappiamo bene quanto rimpinzare i pensieri vacanzieri di nostalgia sia un errore grossolano. Piuttosto questo è l’incipit della lucida consapevolezza di un quarantenne e di quel cambiamento sociale che ha portato a strizzare i giorni della tanto attesa vacanza.

Quella a cui Massimo fa riferimento si chiamava “villeggiatura” e non aveva niente a che vedere con le mini vacanze stressanti dei tempi odierni, in cui tutti si improvvisano provetti viaggiatori, vomitano lamentele per le cancellazioni di Ryan Air, fanno a gara a chi arriva più lontano.

“C’era una volta la vacanza estiva… il venerdì chiudevano gli uffici, i negozi e tutti i papà partivano e venivano per stare nel fine settimana con le famiglie. Si era felici, si giocava tutti insieme, eravamo tutti uguali e se qualcuno non tanto lo teneva nessun problema, dove mangiavano in quattro, mangiavano anche in cinque, sei o più”.

Quanto vale oggi il diritto alla disconnessione per i miei coetanei “papà” con lo smartphone sotto l’ascella sudata per buttare l’occhio di tanto in tanto alla posta elettronica lavorativa?

“C’era una volta la vacanza estiva… l’unico problema di noi bimbi era non bucare il pallone, non scassare la bicicletta, nun te scassa’ ‘e ginocchie giocando, altrimenti quando rientravi avive pure ‘o rieste. Il tempo era bello fino al 15 agosto, il 16 arrivava il primo temporale e la sera ci voleva il maglioncino di filo. Intanto arrivava settembre, si tornava a scuola, la vita riprendeva, l’Italia cresceva e il primo tema era sempre parla delle tue vacanze. Oggi bambini viziati e nervosi, vanno al campo estivo dal 1 giugno al 31 luglio, poi al miniclub e il 3 settembre a scuola… con mamma e papà quando ci stanno? Mamma e papà non hanno mai tempo, il lavoro, le faccende, gli impegni, Facebook, il cellulare…”

La villeggiatura della nostra infanzia e adolescenza ritinteggiava nel giusto arco di tempo le pareti della stanchezza accumulata durante l’anno scolastico e ci offriva l’opportunità di ritrovare, oltre la prospettiva dei castelli di sabbia, i valori intorno a cui volteggiava la vita familiare.
Non era il tempo della corsa sfrenata per ostentare la felicità nella centrifuga virtuale, perché eravamo davvero inebriati di felicità e a vista d’occhio. Non eravamo sballottati da un’attività pre-vacanza all’altra, perché i nostri genitori non dovevano competere con altre priorità, al di là dei ricatti dell’emancipazione sociale.

Si dice che quella era un’altra Italia, così come i nostri nonni dicevano lo stesso della loro. La domenica d’agosto di nonno Pasquale e nonna Lucia, di mia mamma, assomigliava a quella in bianco e nero dell’omonimo film di Luciano Emmer con la mappatella, l’ombrellone in spiaggia, il cibo e le stoviglie portate da casa. Il Ferragosto dei miei nonni napoletani al Lido Pola a Coroglio era una tavolata chilometrica condivisa con tutti i condomini vicini dei Campi Flegrei.

La domenica d’agosto della mia generazione invece è stata a colori proprio come le vacanze estive raccontate tutte di getto da Massimo .

“C’era una volta la vacanza estiva… ogni tanto mi chiedo se fosse meglio allora o adesso. Una risposta certa non so darla. So che allora eravamo tutti più felici, la società era migliore, esistevano l’amore, il rispetto, la solidarietà.”

“Quante cose son passate ormai, quante cose non torneranno mai…”, cantava Vasco. L’amarezza resta prima e dopo. Buon Ferragosto!

Rino, il lettore garbato che bussò alla mia porta

Nel febbraio di cinque anni fa Rino bussò alla porta dei miei canali social. Non so come “l’uomo in divisa” della periferia di Napoli mi avesse trovato – pensavo ad un fortuito ingarbugliamento di algoritmi di Facebook – ma in realtà io e Rino eravamo cresciuti nella stessa zona. Mi apparve un viso conosciuto nonostante fossimo di due generazioni diverse. Io per giunta me ne ero andato via più di quindici anni fa.

Quando cominciai a scrivere per la carta stampata, imparai una cosa: il lettore dovevo immaginarlo. I miei primi articoli nascevano a notte fonda, sul ticchettio di una macchina da scrivere, dopo l’ennesimo spettacolo teatrale.  Allora facevo fatica a dare una fisionomia ai lettori, almeno ci provavo, oggi nell’era digitale ne puoi toccare quasi con mano l’essenza se ti fai acuto osservatore.

Rino era un lettore garbato, apprezzava i miei diari di viaggio in giro per il mondo, leggeva altrove i miei interventi sulla Terra dei Fuochi, si appostava a tarda sera sulla bacheca di Facebook e aspettava il mio Around Midnight, l’aforisma che scelgo ogni sera da oltre dieci anni per dare la buonanotte a chi mi legge. Stasera il mio aforisma sarà fatto di un lungo silenzio tra due virgolette perché ho saputo che Rino è volato in cielo.

Avevo capito da subito che questo lettore della Terra mia non aveva la smania di trasformare il suo profilo social in un alter ego dove si ostenta, come fa chi è stato risucchiato da quella melmosa sindrome facebookiana, racchiusa in una perla di saggezza del Dalai Lama: “Questa è un’epoca in cui tutto viene messo in vista sulla finestra per occultare il vuoto della stanza”.

Rino non aveva bisogno di mettere in vista “il niente” sulla finestra, perchè il suo “tutto” era in una stanza fatta di amore, affetti, sogni, passione per la vita, quella che intravedevo negli emoticon solari che mi lasciava nei commenti a prima mattina.
Anche un giornalista deve qualcosa a ciascuno dei suoi lettori: ringrazio Rino per avermi riportato su quella strada di periferia dove sono cresciuto, percorsa in lungo e largo per conoscere uomini, donne e bambini, respirare le loro storie di vita che si intrecciavano con quelle delle mie radici di instancabile ragazzo del Sud.

Siamo ad un passo dalla Notte magica di San Lorenzo. Non distraetevi perché la prima stella cadente altro non sarà che la scia della moto con Rino e il papà, come in questa calda foto in bianco e nero degli anni ’60 a cui era particolarmente affezionato. Questa volta a guidare le due ruote sarà Rino perché, come cantava il professor Vecchioni, “le idee sono come le stelle che non le spengono i temporali.”

Buon viaggio, Rino. Ho già pronta la valigia per raccontare il mio prossimo viaggio e te lo dedicherò.