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25 dicembre 2011: Accadde domani tra Giuseppe il palestinese e Maria l’israeliana

Giuseppe chiuse la falegnameria prima che calasse il sole. Su una motoretta percorse la Palestina fino a tarda notte. Sulla striscia di Gaza c’era Maria ad aspettarlo. La ragazza aveva rischiato il linciaggio. Dalle sue parti erano stati chiari: una donna d’Israele non poteva portare in grembo il figlio di un uomo della Palestina. Si incamminarono. Lungo la via per Betlemme chiesero ospitalità, ma nessuno li prese sul serio: il presidente era indaffarato a travestirsi da Babbo Natale per fare la sorpresa al figlioletto; il sacerdote era alle prese con gli ultimi preparativi per le celebrazioni di mezzanotte; l’operaio era alla ricerca del padrone che non voleva pagargli lo stipendio; il direttore della locanda non voleva che Palestina e Israele dividessero lo stesso letto; il medico si stava giocando tutto per salvare un profugo.

Giuseppe e Maria crollarono dalla stanchezza. All’orizzonte c’era un susseguirsi di tuoni e lampi: erano le bombe sulla Striscia di Gaza che trasformavano i rumori anonimi nel suono della guerra. Li vide una donna, il cui volto era coperto da un burka, e offrì loro una tenda. Era l’unico riparo che aveva. Due uomini l’avevano buttata giù da una roulotte, lasciandola in mezzo al deserto a mendicare.

Nel bel mezzo della notte, nel cuore del deserto si sentì il pianto di un bambino. La donna si accostò e il piccolo con la manina le tirò giù il burka. Il bimbo scrutò la bellezza sul suo viso e la rassicurò, smettendo di piangere. Intanto, Giuseppe e Maria impallidirono, perchè in lontananza vedevano avvicinarsi carri armati ed eserciti, mentre una folla di uomini e donne da Israele e dalla Palestina si incamminavano per capire cosa fosse quell’abbaglio. Non era la luce delle bombe, ma quella di una nuova vita.

Quando i palestinesi e gli israeliani furono rapiti dal viso raggiante della creatura, alzarono lo sguardo verso Giuseppe e Maria, esclamando in coro: “Beati voi, che avete avuto il coraggio di guardarvi negli occhi ed amarvi. Vostro figlio rappresenta la bellezza dei nostri popoli, divisi dall’odio, ma oggi finalmente uniti da questo atto d’amore”. Nel frattempo arrivarono i soldati e carri armati. I fucili e gli elmetti furono spazzati via dagli abbracci e dai baci di tutta la gente accorsa. C’era aria di festa e ognuno battezzò il bimbo con un nome diverso.

Io fui testimone di tutto ciò. Me ne ero andato via da casa alcuni giorni prima, mentre tutti erano affannati per gli ultimi regali, per trovare l’addobbo più bello, per ritoccare il menu della grande abbuffata, per strozzarsi tra le catene del mancato consumismo nei giorni di crisi.

Ero finito in mezzo al deserto. Non avevo con me né una macchina fotografica né un PC per documentare quello che stava accadendo. Era già successo e quella fu la notte di Natale più bella della mia vita. Sulla via del ritorno incrociai una falegnameria con la serranda abbassata. Su un’insegna di legno scolpita a mano lessi: “Shalom Gesù, figlio di Giuseppe il palestinese e Maria l’israeliana”.

Accadde domani.

Vick Arrigoni, ecco l’agnello di Dio…

Terra amara, terra piena di contraddizioni quella lì. Lo stesso territorio in cui più di duemila anni fa si vendevano per pochi denari i pacifisti e si crocifiggeva chiunque non fosse allineato con i palazzi del potere. Il movimento pacifista è nato paradossalmente lì e vogliamo legittimarlo a pochi giorni dalla Pasqua Cristiana. La storia torna e fa i suoi giri: c’è sempre qualcuno che se ne lava le mani, c’è sempre chi tradisce, c’è sempre chi finisce in croce.
Vick, il pacifista barbuto e tatuato, è stato fatto fuori senza neanche battere ciglio, senza nemmeno una finta e mostruosa messa in scena processuale che lo condannasse perché era un libero pensatore. E poco importa del surriscaldamento emotivo che infervora la rete, tra blog e social media, perché Vittorio Arrigoni nel suo slogan “Restiamo umani” aveva detto tutto. Aveva capito che le dittature invisibili palleggiavano tra il pugno di ferro di Israele e l’ombra bombarola di Hamas; aveva capito che la striscia di Gaza era più di una borderline: era un piccolo ombelico del mondo in cui travestiti da blogger si potevano raccontare storie quotidiane che a noi sfuggono. Arrigoni aveva preso una posizione netta che, al di là della condivisione o del’appoggio ideologico, lo aveva distanziato da chiunque volesse appropriarsi di lui.
Per rispettare la sua memoria, dobbiamo stare in guardia da chi vuole trasformare questo “agnello di Dio” in un pass-partout iconografico, spacciandosi per messaggero di pace. Sarà pure un imperdonabile sacrilegio, ma della salma di Vittorio Arrigoni poco importa, perché i liberi pensatori non finiranno rinchiusi mai in tombe buie e giammai avranno gelide lapidi. Vick è ancora lì, in quella terra straniera, tra chi vorrà essere un suo apostolo e continuare a portare avanti un pensiero, nell’ottica gaberiana della “libertà come partecipazione”. E noi non possiamo sempre tirarci indietro.