Cartolina da Salvador de Bahia: il Brasile dalla finestra della pousada del cugino Giovanni

Dalla finestra della pousada Suites do Pelo intravedo i colori di Salvador de Bahia: mi sento a casa. Giovanni, il proprietario della mia pousada preferita in Brasile, ha lo stesso cognome mio. Il papà era emigrato in Sudamerica da Salerno dopo il secondo Dopoguerra con un mucchio di sogni in groppa.
Io e Giovanni condividiamo le nostre storie private, è scintilla al di là del cognome Pipolo che ci spartiamo.  Ci inventiamo “una cuginanza” italo-brasiliana e quando gli altri ce lo chiedono, sorridendo sotto i baffi, noi riconosciamo una lontana parentela. Giovanni fa gli onori di un cugino maggiore e mi dà consigli utili, perché sa che degli itinerari dei turisti non me frega niente.

La mia perlustrazione di Salvador comincia con una scarpinata fino a giù a Barroquinha, dove di turisti non c’è neanche l’ombra. Gli occhi sempre aperti, mi raccomanda il parroco della chiesa della zona, perché i pericoli a Salvador ci sono, soprattuto quando dopo il tramonto le strade di quest’area si svuotano. Mi guardo intorno tra i meravigliosi edifici fatiscenti, le corriere piene di ragazzi al ritorno da scuola, scolandomi una bottiglia d’acqua gelata presa in una bottega che assomiglia ai rivenditori di bibite della mia Napoli.

Sì, Salvador ha tanti tratti comuni alla città che  mi ha dato i natali: mi arrampico tra le viuzze del Pelourinho, il centro storico della capitale di Bahia, e mi sembra di essere finito nei vicoli dei Quartieri Spagnoli di Napoli.  Le facciate colorate delle case si mescolano all’architettura delle chiese, i suoni degli artigiani che fabbricano gli strumenti musicali di Bahia si sciolgono nel vocio della gente, i dipinti degli artisti locali riflettono i colori del cielo, delle nuvole, del tetto che sovrasta Salvador.

Mi fermo nella casa di Jorge Amado e penso che, forse se non avessi letto e amato i suoi romanzi, neanche sarei qui. Assaggio la cucina locale nei ristorantini nascosti dove talvolta la voce e le note di un cantante mi riportano alla musica meticcia di Bahia, quella fatta dall’impasto nero, bianco e indios. Resto ore e ore in un negozietto di musica di Praça da Sè e mi chiedo come farò a portarmi tutti questi chili di musica fatti di cd, vinili, copertine prima che il digitale ci stordisse con i suoi bit e la liquefazione. Del resto Bahia è la terra di Caetano, Gilberto, Maria Bethania e forse senza le loro canzoni non sarei arrivato fin qui.

Prendo l’ascensore panoramico, bighellono sul porto, converso con gli artigiani del vecchio mercato, mi infilo in un autobus pubblico, attraverso Salvador per decine di chilometri, mi passa per un attimo la sottile paura che possa accadermi qualcosa. Sono a ridosso della spiaggia di Rio Vermelho in un sabato pomeriggio tra locali, la brezza, un buon piatto di carne che mi viene servito con gli occhi puntati sull’oceano, le cui onde travolgenti non risparmierebbero gli incauti naviganti.
Poi mi incammino verso Barra, l’altra spiaggia cittadina, mentre uno dei soliti acquazzoni di passaggio mi inonda e mi fa sentire parte dell’oceano. A Barra c’è un faro che solfeggia l’anima del romanzo di Virginia Woolf, le nuvole si mescolano con i colori di un tramonto pazzesco, lo struscio degli innamorati mano nella mano, il cocco venduto dagli ambulanti, mi sembra di esserci nato a Salvador.

Quattro giorni volano a Salvador e in quella pousada Suites do Pelo ci ho fatto la mia seconda casa con l’aiuto di Luciano, Daniele, Paulo e Anderson, i ragazzi che lavorano lì. Quando Giovanni mi riporta in aeroporto nel buio della notte, gli dico che un giorno dovrò ritornarci, magari con la mia futura moglie e i figli che verranno perché su una cosa insisto: noi viaggiatori abbiamo un mattone di una casa in ogni città in cui vi abbiamo lasciato l’anima.

Giovanni mi saluta regalandomi a sorpresa un suo vecchio vinile di Caetano Veloso. Il gesto mi commuove e da quel momento a chiunque mi avrebbe chiesto il perché di questo viaggio in Brasile, avrei risposto bonariamente “per mettermi alla ricerca del cugino italo-brasiliano”. Dopo i litri di musica e i chili di letteratura che mi hanno spinto fino a Salvador, da oggi c’è un amico: “mio cugino” Giovanni Pipolo.