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La sentenza per Stefano Cucchi e l’insulto alla coscienza civile

La vignetta di Mauro Biani

Rosario PipoloQuesta volta la rabbia per una sentenza contestata ci mette davvero un attimo a correre sui social network. E’ la gente comune, giovani e meno giovani, a chiedere giustizia per Stefano Cucchi, il trentunenne morto in condizioni misteriose nel 2009 nel reparto detenuti dell’ospedale Sandro Pertini, dopo una settimana dal suo arresto per droga.

Se dicessimo che la giustizia non è uguale per tutti, scopriremmo l’acqua calda. Se ribadissimo che la giustizia rischia di mutarsi in una miserabile opinione, potremmo essere accusati di essere di parte. Scavalcando chi ha strumentalizzato politicamente la sentenza Cucchi, inciampiamo sulla buccia di banana che ci rivela l’anomalia di un Paese civile e democratico: coprire l’uomo in divisa.

Senza la tenacia di Ilaria e della famiglia Cucchi questo caso sarebbe finito in cantina, tra i faldoni di un archivio impolverato. E non sarebbe né il primo né l’ultimo. Non bisogna ricorrere alle dinamiche narrative di thriller o un giallo per individuare i segni di un pestaggio. Del resto, ce ne sarebbero di casi di cronaca in Italia da citare che hanno portato alla ribalta aggressioni fuori e dentro le caserme da parte di uomini in divisa.

Tornando alla vicenda Cucchi, non si poteva far finta di niente e da qualche parte i colpevoli dovevano saltar fuori. Condannati soltanto i medici. A farla franca sono gli infermieri e gli agenti della polizia penitenziaria perché “il fatto non sussiste”. Lo Stato italiano non può lavarsene le mani perché non viviamo sotto una dittatura.
Proclamare che Stefano Cucchi sia morto per motivi medici e non per altro significa insultare la coscienza civile di un Paese, sempre più prigioniero di uno slogan orrendo. L’ingiustizia, quella sì che è uguale per tutti.

Morti bianche: Rosario a casa non torna più a Pasqua!

Ha il mio stesso nome. Non so perché i genitori lo avessero chiamato Rosario, ma l’unica certezza è che quest’anno non lo vedranno bussare alla porta per trascorrere la Pasqua assieme. Anche se molto più giovane di me, quando incrocio o sento chiamare qualcuno “Rosario”, mi sembra di aver trovato un mio simile. Forse perché non è diffuso, forse perché continuo a ripetermi che sono i nomi a renderci unici ed irripetibili.
A Rosario Rodinò hanno cancellato mostruosamente la giovinezza,perché hanno ritenuto che sul posto di lavoro si potesse tagliare su un sacrosanto diritto del lavoratore: la sicurezza. Questo ragazzotto di 26 anni fa parte delle vittime morte in un incendio nel dicembre scorso alla ThyssenKrupp di Torino. L’ennesima morte bianca che affligge la nostra cara Italia distratta, ma questa volta i responsabili non sono riusciti a farla franca. Finalmente una svolta inaspettata perché il verdetto ha condannato l’amministratore e altri responsabili della nota azienda siderurgica tedesca. Esultano i sindacati, che invece di brindare dovrebbero rimboccarsi le maniche affinché le tante ingiustizie seppellite sotto il fango siano riportate alle luce del sole. “Giustizia, un corno!”, potrebbe rispondere qualcuno con rabbia, perché i parenti delle vittime non riavranno indietro i loro cari.
La disperazione per un dolore così non ha prezzo e forse non bisogna neanche stare a parlare di un rapporto allineato tra “sicurezza” e “investimento”. Gianfranco Carbonato, Presidente dell’Unione Industriali di Torino, si è espresso così in un’intervista in merito alla sentenza: “L’immagine che diamo all’esterno non invita un’impresa a scegliere l’Italia. Se il modo di ragionare della procura e della Corte d’assise dovessero diffondersi nel Paese sarebbe un gigantesco regalo competitivo agli altri”.
Quale prezzo ha questo regalo competitivo? Privare un papà e una mamma di un figlio?