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Mondiale 2010, la disfatta dell’Italia dentro e fuori dal campo

Questo è iniziato come un Mondiale strabico oserei dire: l’uscita della Francia di Domenech, l’instabilità dell’Inghilterra di Capello, gli sgambetti alla Germania battuta dalla Serbia e, infine, la disfatta dei Campioni del Mondo del 2006. Quei Campioni eravamo noi e l’uscita della Nazionale italiana da Sudafrica 2010 ci fa pensare. I bocconi amari li abbiamo già ingoiati nel fine settimana, prima dei titoli apocalittici della stampa italiana e internazionale.
Marcello Lippi ha abusato della sua testardaggine, ha fatto il despota, si è concentrato su calciatori provenienti dalla stessa famiglia calcistica, ha messo in panchina il tatto “tattico”, ha fatto il sentimentale quando occorreva essere arroganti in campo, ha messo in atto il malumore in una squadra che non ha portato a casa una vittoria. Non è mai successo e una figuraccia così l’Italia non la faceva dal 1974.
Il calcio italiano si interroga e mette in discussione la macchina potente che la tiene in piedi. I soldi e il potere corrono dietro ad un pallone in un business che rispecchia il malessere dell’intero Paese, nel braccio di ferro tra l’abusivismo della politica e l’autorevolezza delle istituzioni. E a far uscire fuori dai giochi gli Azzurri non sono state le gufate dei “secessionisti” o di chi vorrebbe che il Belpaese mischiasse le carte in tavola tra il patimento dei sudisti e l’aggressività dei nordisti. E’ lo stato confusionario che ci accerchia da troppo tempo, è l’assenteismo cronico di punti di riferimento, è l’ombra del tiranno che manovra le nostre coscienze, perché la partita si gioca tutta qui: dentro un campo c’è lo sport, fuori dal campo c’è la metafora della vita e la sua perdita di credibilità.
Io non mi sento italiano – così cantava Giorgio Gaber – per lo strapotere dei calciatori, ma perché la mia generazione non riesce a trovare la traiettoria giusta per segnare almeno un gol, che ci fascia uscire da questo inferno che arde sotto i nostri piedi. La palla tornerà al centro prima o poi, ma a calciarla chi ci sarà?

Cartolina da Belgrado

Belgrado by night

Rosario PipoloBelgrado guarda avanti. Niente pregiudizi e Tito resta solo un ricordo, nel rimpianto delle vecchie generazioni. La tomba del didattore icona della ex Jugoslavia è lontana dal centro, alle porte di un parco semi abbandonato. Vi arrivo dopo un’ora di cammino e scopro che c’è un biglietto da pagare. Rimprovero la guardia: “Non vi vergognate? Cosa direbbe il vecchio Tito se sapesse che avete trasformato la sua tomba in un’attrazione tustica?”. Mi fanno entrare. Il centro della capitale della Serbia è in pieno movimento a qualsiasi ora del giorno e le bombe della Nato sembrano roba di altri tempi. Passeggiare di sera sulle rive del Danubio è rilassante. Meglio mettere da parte i pregiudizi in materia di “sicurezza” e non fare figuracce: “L’anno scorso siamo stati a Milano e di notte è davvero pericolosa”, replica una giovane coppia serba. Belgrado ha l’aria di capitale sempre, anche quando ti mimetizzi talmente da dimenticare che sei un viaggiatore di passaggio. Di Emir Kusturica si parla poco, forse per i suoi giudizi audaci su fatti e luoghi. Mi sono portato come souvenir quasi tutti gli album di Goran Bregovic con una curiosa scoperta: non sapevo che avesse fatto parte dei Bijelo Dugme, il gruppo rock di punta dell’Jugoslavia che si è ispirato ai Led Zeppelin e ai Black Sabbath. Gli imprevisti capitano quando meno te lo aspetti, anche alla fine del viaggio. Sul treno del ritorno che mi riportava verso l’Italia, ero in bagno (mi scappava la pipì!) proprio mentre hanno fatto i controlli doganali. La polizia serba mi ha scambiato per un profugo italiano e non mi riconosceva dal passaporto. Saranno stati i cd di Bregovic a farli cambiare idea? La prossima volta è meglio farsela sotto!

Cartolina da Sarajevo

Sarajevo

Rosario PipoloHo fatto colazione in compagnia di un giovane serbo. Lui parlava qualche briciola di spagnolo. Ci capivamo, ma poi è finita a paccate sulla spalla come se ci conoscessimo da una vita, tra capuccini e una scorpacciata di burek. Non succede tutto per caso: lavorava come giornalista presso un’emittente televisiva serba.  E’ iniziato così il mio viaggio a Sarajevo, la città flagellata da una sporca guerra raccontata dai nostri media  come un videogioco. Bisogna entrare nel cuore della capitale della Bosnia-Erzegovina per non fare a meno di pensare che il conflitto  serbo-bosniaco abbia lasciato i suoi segni. In centro è tutto normale, Sarajevo è meravigliosa perché è vitale dalla mattina a notte fonda, e sa come essere cordiale con gli stranieri. Il quartiere ottomano di Bascarsija ti porta altrove, verso Oriente e non ti aspetti una Turchia in miniatura accanto agli edifici da cartolina. Basta fare fare pochi passi fuori e lo sguardo si posa sulle lapidi gelide dei cimiteri che raccolgono le salme delle vittime. Accompagnato da una jeep, mi sono spinto nei pressi dell’aereoporto dove c’era quel tunnel costruito per mettere in contatto la gente con la città assediata. Adesso c’è un museo ed è emozionante. La domenica pomeriggio ho passeggiato per quattro ore lungo il fiume Miljacka e mi soffermavo sui visi delle persone. Mi sembrava di essere tornato a Belfast, in Irlanda del Nord, tra le facce giovani e anziane che nascondevano piccole cicatrici. Sarajevo sa come sorprenderti. Prima di partire, Alen mi ha scorazzato in città. Gli ho chiesto una semplice indicazione, ma poi ho attaccato bottone. Mi ha raccontato della sua visita ad amici a Seregno, a pochi passi da Milano, e del suo Ramadan. Mi ha mostrato la foto della sua deliziosa bimba, manifestando il desiderio di rivedere musulmani, cattolici e ortodossi vivere in pace. A Sarajevo c’era un tramonto rosso quando ci siamo salutati con un forte abbraccio. Mentre il mio autobus si allontanava,  ho capito che la voglia di cambiare può cancellare le atrocità del passato e tenerci alla larga dalla nostalgia o dai sensi di colpa.