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Archives Maggio 2017

Manchester, il “Bataclan” del Regno Unito di Theresa May

La Gran Bretagna ha il suo Bataclan, la Manchester Arena, trasformata lo scorso 22 maggio dall’ISIS in una piscina di sangue innocente. C’è un orrore che viene prima di tutto: l’abitudine ai colpi bassi del terrorismo islamico, che ferendo a turno l’Europa, imbastisce la routine con l’orrore.
Ce ne accorgiamo con un groppo in gola appena apprendiamo la notizia e, dopo qualche minuto, riprendiamo normalmente la quotidianità, seppellendo dentro noi la spina nel fianco egoista che ci rasserena, perché abbiamo scampato il pericolo.

L’ondata emotiva dei social network non basta più, la duplicazione e omologazione dell’hashtag #JesuisCharlie si è svuotata dall’8 gennaio 2015, le solite frasi preconfezionate in rimbalzo da una bacheca all’altra di Facebook sono muffa, le foto dei teenager ammazzati e fan della musa teen Ariana Grande sono l’album di figurine accompagnate dalla didascalia “sono morti innocenti, sono soltanto dei ragazzini!”, come se poi essere vittima di un attacco terroristico sia una questione anagrafica.

Il viso pallido della Premiere Theresa May assomiglia a quello della signora Thatcher dopo le bombe dell’IRA, nel ricordo della mala gestione della questione irlandese, o meglio il filo spinato del regno conservatore della Lady di Ferro.
L’attentato di Manchester ha un precedente che non può essere offuscato neanche dalla tenera visita della Regina Elisabetta ai sopravvissuti: il video pubblicato poche ore dopo l’attentato di Westminster dal tabloid The Sun, in cui si vedeva la signora May fuggire incerta verso la sua auto, mostra le crepe di Scotland Yard e dei servizi segreti britannici.

La scomparsa di sir Roger Moore, l’attore inglese che ha prestato la faccia al James Bond dal ’73 all”85, a poche ore all’attacco di Manchester sembra davvero beffarda nel tempo dell’Inghilterra della Brexit, in cui gli 007 hanno fatto un buco nell’acqua e per niente al mondo sembrerebbero figli del Bond nato dalla penna di Ian Fleming.

La voragine dell’Inghilterra post-Manchster, trascorsi i giorni di lutto e dolore, segnerà il cammino del Regno Unito della Brexit che, pur avendo voltato le spalle all’Unione Europea, si troverà a condividere con il resto del Vecchio Continente le minacce dell’ISIS.
Mentre soffia il vento europeista sul patto d’acciaio Macron-Merkel, la signora May si avvia alle elezioni dell’8 giugno.
Dopo il prologo di Westminster, comincia un periodo buio per la Gran Bretagna, lontana anni luce dall’isola felice scoperta dalla mia generazione nelle vacanze studio d’oltremanica, protratte nell’illusione collettiva di aver trovato la terra promessa del nostro futuro.

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Cartolina dalla Cecchignola: le cose che non ci siamo detti mai

Le cose che non ci siamo detti mai le ritrovo qui, fuori le mura di questa caserma, nel perimetro dela Cecchignola di Roma, e non di certo perché abbia fatto la naia. Nei miei venti giorni con la divisa risultai il militare più indisciplinato e ribelle, senza che nessuno scommettesse fossi il nipote di un maresciallo dell’esercito.
La prima volta che misi piede in una caserma fu qui ed oggi ci sono tornato con il bus 044. Non arrivavo all’altezza della giacca della tua divisa allora. Venire a lavoro con te per tutti quei giorni fece quella caserma casa mia, nei mesi grigi in cui noi bambini di allora ci sentimmo sfollati dopo il terremoto dell’Irpinia.

Tra le cose che non ci siamo detti mai c’è sempre stata questa riconoscenza che interpretavo a modo mio, indossando il basco e i guanti tuoi dal colore verde militare. Volevo in maniera infantile sentirti addosso. E questo sentirti addosso l’ho avvistato quando da lettore del mio romanzo hai attraversato parte della tua vita su una strada di carta e inchiostro. Per chi fa il mio mestiere non ci sono parole più dense che sentirsi dire di aver scritto quello che da sempre avresti voluto scrivere, rinchiuso a chiave in un cassetto di una caserma tra appunti sparsi.

Tra le cose che non ci siamo detti mai c’è il declassamento da disadattato alla vita militare rivendicato da me nel declassamento dei legami familiari, nell’esclusione dei parenti e dei loro squilibri mediocri dalla mia quotidianità, perché la vera famiglia è quella che costruisci tu, con le tue mani, giorno dopo giorno, con chi vuoi. Il legame tra me e te va oltre ogni gerarchia ed è stato disegnato in un vissuto e in una presenza costante nei miei confronti di chi ha saputo leggere dentro me le ferite private, racchiuse nel tuo ripetermi “Il tempo cancella tutto e cicatrizza i dolori”.

Le cose che non ci siamo detti mai sono rimaste accovacciate un pomeriggio sul divano alla Castelluccia di San Paolo quando avevamo capito reciprocamente quanto uno zio fosse importante per un nipote così come un nipote per uno zio in una corsia preferenziale: non siamo tutti uguali, nei legami vince chi ama e ricambia di più, è una meravigliosa gara a due che non ci farà evaporare. Oggi che ti sei appisolato ho paura, come in quel pomeriggio, che tu non ti sveglia più. Non c’è tempo per dormire, me lo hai insegnato tu.

Sono a metà di viale dell’Esercito. Due militari  mi tengono d’occhio dalla finestra. Indosso la mia divisa civile: giacca e pantalone blu scuro. Mi metto sugli attenti, porto la mano destra con scatto repentino verso la fronte. Ti vedo, sapevo che saresti venuto da me, qui alla Cecchignola.

Tra le cose che non ci siamo detti mai ce n’è una: sei stato il Pasquale più importante della mia vita.

“Io t’ho scoperta stamattina… Roma capoccia, der mondo infame.”

Prima Comunione

Maggio è il mese delle Prime Comunioni e mi capita ancora di vedere ciurme di bambini per strada vestiti di bianco come degli angioletti. La prima volta che scorsi una bimba vestita di bianco non arrivavo all’altezza della credenza di nonna Lucia.
Anzi dovevo arrampicarmi per fiondarmi in quella foto in bianco e nero della metà degli anni ’50: si trattava di mia madre, nel giorno della sua Prima Comunione, fuori la chiesetta delle suore alla Riviera di Chiaia a Napoli.

Un battito di ali in questa domenica. Incrocio un papà africano che osserva con orgoglio la sua piccola dopo aver ricevuto la Prima Comunione. La ragazzina di colore  lo guarda di sbieco con emozione dall’inginocchiatoio. Scatta la scintilla in me e penso a quanto sia piccolo il mondo, a come una zolla del Continente Nero sia diventato l’anello di congiunzione con i luoghi in cui vivo.

Mi è tornata in mente la piccola Lucrezia che un paio di anni fa, in auto, mi aveva raccontato di aver cominciato il catechismo, solleticando alla madre i ricordi dei trentotto anni della nostra amicizia.
Ho visto lungo il corso della mia vita eserciti di genitori in ansia perché la festa della Prima Comunione dei figli riuscisse alla perfezione, che gli invitati fossero soddisfatti del banchetto, senza tener conto dell’essenzialità del momento.

Dal balcone dei miei quarant’anni e passa oggi ho visto finalmente una madre coraggiosa lottare per la vita attaccata ad un filo di spago, affinché la figlia potesse sentirla vicina, anche se dall’interminabile distanza di un letto.
Da bambino dovevo arrampicarmi su una credenza per vedere mia mamma nel giorno della sua Prima Comunione; da viaggiatore mi è bastato un papà africano e la sua piccola per farmi ritrovare la pelle scura della bellezza di Dio; da uomo con i capelli brizzolati ho riscoperto in Lucrezia e nel cuore di sua madre il segreto dei veri legami che hanno seminato il sentiero della mia vita e per i quali continuerò a combattere in direzione ostinata e contraria, a costo di rimetterci.