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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Rino, il lettore garbato che bussò alla mia porta

Nel febbraio di cinque anni fa Rino bussò alla porta dei miei canali social. Non so come “l’uomo in divisa” della periferia di Napoli mi avesse trovato – pensavo ad un fortuito ingarbugliamento di algoritmi di Facebook – ma in realtà io e Rino eravamo cresciuti nella stessa zona. Mi apparve un viso conosciuto nonostante fossimo di due generazioni diverse. Io per giunta me ne ero andato via più di quindici anni fa.

Quando cominciai a scrivere per la carta stampata, imparai una cosa: il lettore dovevo immaginarlo. I miei primi articoli nascevano a notte fonda, sul ticchettio di una macchina da scrivere, dopo l’ennesimo spettacolo teatrale.  Allora facevo fatica a dare una fisionomia ai lettori, almeno ci provavo, oggi nell’era digitale ne puoi toccare quasi con mano l’essenza se ti fai acuto osservatore.

Rino era un lettore garbato, apprezzava i miei diari di viaggio in giro per il mondo, leggeva altrove i miei interventi sulla Terra dei Fuochi, si appostava a tarda sera sulla bacheca di Facebook e aspettava il mio Around Midnight, l’aforisma che scelgo ogni sera da oltre dieci anni per dare la buonanotte a chi mi legge. Stasera il mio aforisma sarà fatto di un lungo silenzio tra due virgolette perché ho saputo che Rino è volato in cielo.

Avevo capito da subito che questo lettore della Terra mia non aveva la smania di trasformare il suo profilo social in un alter ego dove si ostenta, come fa chi è stato risucchiato da quella melmosa sindrome facebookiana, racchiusa in una perla di saggezza del Dalai Lama: “Questa è un’epoca in cui tutto viene messo in vista sulla finestra per occultare il vuoto della stanza”.

Rino non aveva bisogno di mettere in vista “il niente” sulla finestra, perchè il suo “tutto” era in una stanza fatta di amore, affetti, sogni, passione per la vita, quella che intravedevo negli emoticon solari che mi lasciava nei commenti a prima mattina.
Anche un giornalista deve qualcosa a ciascuno dei suoi lettori: ringrazio Rino per avermi riportato su quella strada di periferia dove sono cresciuto, percorsa in lungo e largo per conoscere uomini, donne e bambini, respirare le loro storie di vita che si intrecciavano con quelle delle mie radici di instancabile ragazzo del Sud.

Siamo ad un passo dalla Notte magica di San Lorenzo. Non distraetevi perché la prima stella cadente altro non sarà che la scia della moto con Rino e il papà, come in questa calda foto in bianco e nero degli anni ’60 a cui era particolarmente affezionato. Questa volta a guidare le due ruote sarà Rino perché, come cantava il professor Vecchioni, “le idee sono come le stelle che non le spengono i temporali.”

Buon viaggio, Rino. Ho già pronta la valigia per raccontare il mio prossimo viaggio e te lo dedicherò.

Storia di un backstage “a prova di futuro”

Chi viene da lunghi anni di esperienze lavorative con le troupe video sa bene che, nonostante la grande illusione dell’avvento digitale, per fabbricare emozioni oltre uno schermo non basta una videocamera e qualche gioco di prestigio in fase di montaggio.

Negli anni di lavoro al Festival del Cinema di Venezia, quando il girato giaceva su metri e metri di nastro BETA, imparai sulla mia pelle che il backstage era il recinto in cui già il fertilizzante umano svelava l’orma del primo passo per raggiungere l’obiettivo comune. Erano le singole personalità che facevano il team, il fidarsi l’uno della professionalità dell’altro nel rispetto dei ruoli della troupe, l’alchimia di essere noi stessi per la buona riuscita di ciò che avremmo realizzato.

Se eri capace di far venire fuori te stesso durante il backstage, anche condividendo con gli altri i piccoli ritagli della tua quotidianità o del tuo privato, potevi tirare il meglio dal tuo interlocutore durante l’intervista. Chiunque sia il tuo commitente – una casa di produzione, un editore, un brand – non c’è migliore ricompensa della libertà creativa. E’ un atto di conquista da parte di chi la riceve e, al tempo stesso, un atto di fiducia da parte di chi la concede.

Le tecnologie si evolvono, ma la condivisione umana del backstage e dello shooting restano secondo me ancora un bel banco di prova per chi vuole farlo diventare un mestiere.

 

Inventare è mischiare cervello e materiali. Più cervello usi, meno materiali ti servono.
(C. F. Kettering)

Ricomincio da 7: la testardaggine di Luigi si chiama Capuano’s

Quando sono entrato da Capuano’s a Milano, ho ritrovato la voce di nonno Pasquale e la sua perla di saggezza negli anni della mia infanzia: “Impara ad osservare i movimenti del pizzaiolo che impasta gli ingredienti alla base della vita”.

Luigi Capuano, antidivo per eccellenza, non ha importato un brand a Milano come stanno facendo le dinastie partenopee. Ha messo insieme i mattoncini di un progetto che si evolve nella trasfigurazione della napoletanità senza ostentare quella fisicità geografica che ci costringe a declamare “Lontano da Napoli, lontano dalla pizza”.

Da Capuano’s ho ritrovato le pizzerie di Little Italy,  scovate nel primo viaggio a New York del ’92, che decantavano lo stato d’animo dell’emigrante contromano, che difende a denti stretti  i sogni della nuova casa di cui si sente protagonista e non una comparsa.
I lampioncini di Capuano’s assomigliano a quelli di Coroglio che danzavano controvento sul golfo di Napoli; le mattonelle evocano le scacchiere murate di ogni antica pizzeria che si rispettava, le seggiole sono quelle che arredavano le case delle nostre nonne partenopee. Niente designer allo sbaraglio, ma solo acrobazie della memoria e e ricercatezza popolare di Alessia Furbatto, perché una sana gestione familiare è fidarsi l’uno dell’altro.

La testardaggine di Luigi, Capuano’s appunto, è dipinta su quelle mattonelle nel numero 7, la cifra fortunata che ricongiunge vita pubblica e privata, legami affettivi lasciati a Napoli e il ricominciare a Milano, senza farsi stordire da mode e tendenze.
Negli ingredienti che si mescolano sulla pizza – siano una manciata di olive di Gaeta, dei pomodorini gialli o della stracciatella – non c’è niente del gourmet che vorrebbe fare del pizzaiolo il cugino dello chef stellato. Capuano non ha bisogno di fare l’ennesima interpretazione della pizza così come sa bene di aver importato a Milano la pizza fritta prima di tanti altri.

Un bravo pizzaiolo non è scostumato se ti volta le spalle, perché tra un impasto e un altro deve avere gli occhi rivolti ai passanti sulla strada. La migliore cornice per un pizzaiolo antitidivo come Luigi Capuano non è uno schermo televisivo, ma una finestra attraverso cui guardarlo a lavoro, proprio come la foto in bianco e nero rubata dal suo album fotografico. Luigi Capuano è il pizzaiolo di un tempo che nonno Pasquale mi insegnò ad adocchiare.

“Sono nata brutta e grassa. Venivano da me solo per copiare i compiti…”

Emancipazione femminile, vestito svuotato nel giorno dell’innossidabile ricorrenza, torna ad essere l’abito del quotidiano quando lei si alza in piedi e confessa con senerità: “Sono nata brutta e grassa. Venivano da me solo per copiare i compiti.”

L’ammutolimento non sta nel tenero pietismo che potrebbe scatenare una confessione come questa quanto nella consapevolezza che ci vuole coraggio a irrompere così pubblicamente.
La Wonder Woman, che ha reso la non-accettazione la sfida più grande della sua vita, si è guadagnata il superpotere di andare incontro a chi la respingeva e la faceva sentire la diversa della tribù.

Emancipazione femminile non è il vezzo di cui ci riempiamo la bocca ogni anno puntualmente, appena spunta l’anniversario che deve profumare di mimosa.
E’ puttosto la presa di coscienza che la diversità è lo specchio in cui si riflette il meraviglioso della nostra anima e non dobbiamo privarci di farne dono agli altri.

“Sono nata brutta e grassa. Venivano da me solo per copiare i compiti.” Grazie a lei sono tornato a sentire il profumo di mimosa senza per forza sottomettermi all’anniversario. Il mio olfatto aveva dimenticato la vera essenza.

48, Riina il padrino morto che parla dei favori degli uomini di Stato

Quanti rotoli di carta igenica abbiamo sprecato per scrivere della morte di Totò Riina, senza riflettere abbastanza sugli uomini di Stato che subdolamente o sfacciatemente gli fecero concessioni o favori.
Il più grande glielo fecero quando non evitarono le stragi di Capaci e via D’Amelio, che congelarono la guerra alla Mafia a viso scoperto dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

La mia prima volta a Palermo fu nel 2003, proprio nei giorni in cui nelle strade lampeggiavano le fiaccole per commemorare Giovanni Falcone nell’anniversario della scomparsa. Tenni un corso di comunicazione e terminai la lezione raccontando l’emozionante anteprima del film “I cento passi” al Festival del Cinema di Venezia di qualche anno prima.

Un allievo mi accompagnò a fare quattro passi nel centro storico. Mi indicò una bottega alimentare e fece segno di entrare. Sull’uscio c’era una coccarda azzurra. Il titolare, un uomo tozzo sulla quarantina, notò il mio interesse per la coccardina ed eslamò: “Ieri sono diventato papà di Totò”.
Gli feci gli auguri e mi complimetai per la scelta del nome che, a mio modesto parere, si sposava con la tradizione artistica partenopea del nostro grande Antonio De Curtis, in arte Totò.
Il bottegaio mi rise in faccia e replicò: “Dottò, che cosa avete capito, noi in Sicilia di Totò ne abbiamo solo uno e a lui dobbiamo mostrare riconoscenza”.

Andammo via e il mio allievo nel salutarmi si congedò così: “Questa è la Mafia. I padrini di Corleone come li immaginiamo noi sono roba da film. Buon rientro a Milano.”
Al primo incrocio su via Libertà finii in mezzo al corteo della fiaccolata dedicata a Giovanni Falcone e mi tornarono in mente come un boato le sue sagge parole:

La mafia, lo ripeto ancora una volta, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società.
Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione.

La grande lezione di Nick Cave, esploratore sofisticato di dolore e sofferenza

Abbiamo un debito nei confronti di Nick Cave per averci ricordato che dolore e sofferenza sono un cosa seria e possono starci, senza pregiudizi, in un gomitolo di canzoni. La musica è specchio della nostra vita, delle notre scelte, di fallimenti e vittorie e i gusti personali ne sono latitanza da ciò che non ci appartiene, o meglio da ciò che ci illudiamo non ci tocchi.

Quando ero ragazzo Nick Cave & i Bad Seeds erano roba da “Dark”, quei ragazzetti vestiti di nero da cui negli oratori di perferia dicevano di stare alla larga.
Lì non ascoltavano il gospel ma il Gen Rosso, la band cattolica nata prima delle turbolenze sessantottine, il cui canzoniere era diametralmente opposto a quei “brutti ceffi vestiti di nero”.

Nick Cave ci ha ricordato, durante l’ultimo meraviglioso concerto di Milano, che dolore e sofferenza non hanno né colore politico né religioso perché appartengono all’esistenza umana. Nick aveva capito che per esplorarli non bastavano più la rabbia del rock o l’idiosincrasia del punk.
Un stupratore, un condannato a morte o un assassino non vanno raccontati più tra bagni di sangue splatter, piuttosto visti dal di dentro con l’occhio dell’anima del poeta.

Osservare Nick Cave per oltre due ore avvolto tra il suo pubblico, nella continua ricerca del contatto che riscrive lo psicodramma collettivo e misura gli stati d’animo sulla falsariga di un ritiro spirituale nella fuga dalla porta del tempo, ci convince che la poesia contemporanea giace nella parola che si fa performance, nella teatralità che scuote la musica.

Abbiamo un debito nei confronti di Nick Cave per averci ricordato che i poeti sono sul cammino di noi mutilati dalla merda spalata dalla globalizzazione.

C’è sempre dolore intorno. Questa è una cosa su cui puoi giurare nella vita: ci sarà sempre un eccesso di dolore. (Nick Cave)

Quelli che cercano già il Natale nelle vetrine senza godersi “il tragitto della vita”

Da viaggiatore in giro per il mondo ho imparato che il tragitto è il punto focale di ogni spostamento, più della destinazione o delle tappe intermedie. Lo stesso vale anche nel viaggio della vita, dove ormai è sempre più frenetica la rincorsa con affanno verso la meta, la tappa intermedia, perdendo di  vista il dono prezioso dell’esistenza: la quotidianità.

Non sanno quanto si perdono coloro che ficcano già il naso nella vetrina alla ricerca del Natale, hanno l’aria di chi al rientro dalle ferie estive declama con aria afflitta: “Non ci resta che aspettare le festività natalizie”.

I calendari hanno denigrato la nostra vita. Ognuno ha il suo. Il mio barbiere storico, alla periferia di Napoli, vive tenendo a portata di mano quello delle partite del Napoli e credo che il figlio conosca le date a memoria. Una volta gli ho chiesto: “Quando è stata l’ultima volta che ti sei steso su un prato insieme a tuo figlio per osservare il passeggio delle nuvole?”. Pensavo mi ridesse in faccia, invece ha risposto sottovoce: “Non l’ho mai fatto”.

Nel “banale” passeggio delle nuvole c’è molto di ciò che ci è sfuggito di mano: il tempo di vivere non è agganciato ai nostri calcoli mediocri. Quando perdiamo una persona cara, ad esempio, ce ne rendiamo conto ma poi torniamo ad affannarci per rincorrere la meta.

La vita è fatta di quotidianità, la quotidianità è fatta di attimi, gli attimi sono fatti di minuscoli istanti. Gli istanti erano fatti dal primo bacio o dal fidanzamento perduto per correre a passo spedito verso il matrimonio; gli istanti erano fatti dal pianto di nostro figlio nella culla o dalle notti insonni e non dalla smania di vederlo crescere in fretta per farlo diventare un campione; gli istanti erano fatti dalla premura di nostra madre nel mettere un piatto caldo a tavola e non dal conto alla rovescia sul calendario della maggior età per andare a vivere da soli.

Tornando a coloro che hanno ficcato già la testa come gli struzzi sotto le luci artificiali del Natale che verrà, mi sembra di ritrovare gli abitudinari che fanno delle chiacchiere alla macchinetta del caffè la scorciatoia per vivere la nullità, saltellando da una tappa intermedia ad un’altra.

L’orizzonte perduto l’ho sempre ritrovato nel tragitto e non nella meta. Speriamo che il prossimo Natale non arrivi mai, ho ancora milioni e milioni di istanti da vivere ed accorciare così le distanze dall’esistenza.

 

Se si potesse dare in elemosina tutto il tempo sciupato, moltissimi mendicanti sarebbero ricchi.
(Carmen Sylva)

Da “Amare significa non dover dire mai mi dispiace” a “Ya Pihi Irakema”

La generazione dei miei genitori, sposata all’alba degli anni ’70, fu benedetta da questa citazione di Erich Segal: “Amare significa non dover dire mai mi dispiace”. In realtà non era una frasetta accartocciata nei Baci Perugina, ma una battuta cruciale del cult movie Love Story che spopolò al cinema con Ryan ‘O Neal e Ali MacGraw, diventando un bestseller negli scaffali delle librerie.

DIVORZI – Quella generazione fu travolta da un incremento pauroso dei divorzi – secondo l’Istat in Italia si passò dai 12 mila del 1980 ai 28 mila del 1990 – ritrovandosi disillusa con una “frase del cacchio” tra le mani. Forse più che rincorrersi nella New York che faceva da sfondo al popolare melodrammone, le coppie di allora si sarebbero dovute accalcare al confine tra Venezuela e Brasile, dove vive il gruppo indigeno degli Yanomamo.

CONTAMINAZIONI – Per le coppie di oggi sarebbe più facile sguazzare nel Rio delle Amazzoni e sentire tra gli alberi un vocio che declama “Ya Pihi Irakema” e che letteralmente significa “Sono stato contaminato da te”. Per farla breve, questo è il modo degli indigeni per dire il nostro occidentale “Ti amo”, sgualcito e maltrattato dalla nostra superbia progressista.

NOI – In realtà, se ci pensiamo bene, non ci lasciamo mai sedurre dalla “contaminazione dell’altro”, ma finiamo con l’accontentarci della “mescolanza”. Non è la stessa cosa. Quando ci mescoliamo finiamo sempre per vivere l’altro nella prigionia di una corazza blindata. La contaminazione ci fa ritrovare l’infinita bellezza del contagio, della crescita e dell’evoluzione dell’io nell’altro, che poi fa maturare il “noi”.

SAGGEZZA INDIGENA – “Amare significa non dover dire mai mi dispiace” è stato l’epitaffio di quella generazione che dal “Ti amo” da fidanzati è passata al “Figlio mio, lascia perdere tua mamma che non capisce un cazzo!” da sposati.
“Ya Pihi Irakema”, perla della saggezza indigena, è la speranza ed è un lusso che dovremmo concederci nell’arte di amare.

 

Una parte di te è entrata in me, dove vive e cresce. (David Servan-Schreiber)

Cartolina da Pesaro: Tutto merito di una piadina?

Il giorno del diploma Daniela cominciò ad aiutare la mamma nella storica piadineria in un angolo del mercato delle erbe di Pesaro. L’Antica Piada è stata per 35 lunghi anni un punto di ritrovo per tanti marchigiani, ma anche per chi come noi ci passava soltanto.
Nel 2000 ero nella giuria giovane di CinemAvvenire al Festival del Cinema di Pesaro e in questo posto ci capitavo tutti i giorni con gli amici e colleghi di gioventù. Tra le proiezioni mattutine e quelle pomeridiane avevamo il tempo serrato, ma Daniela e la mamma erano capaci di farci sentire a casa nostra con la semplicità di quei sapori.

Esserci tornato dopo diciassette anni non è stato per me un flashback inzuppato di nostalgia – i sapori trainano sempre ricordi oltre il palato – ma l’occasione per riappropriarmi di una lucida consapevolezza: chi si mette sulle orme della propria memoria non resterà mai solo perché vi troverà qualcuno con cui spartire questa ricerca.
Oggi c’è stato chi come me è tornato testardamente in questa piadineria marchigiana. luogo che fagocitò onesti legami d’amicizia. Appartengo alla generazione in cui le relazioni umane si misuravano con il vissuto, senza engagement o mi piace. Nel lungo periodo di vita a Milano mi sono portato dietro l’abbraccio e gli incoraggiamenti di Enrico alla stazione di Padova, alla vigilia del mio trasloco definitivo.

Oggo ho ritrovato Enrico in questa piadineria non per una fortuita coincidenza. Entrambi ci siamo messi in sordina alla ricerca di un angolo della nostra vita con la consapevolezza che la memoria semina lucidità del vissuto, la riconoscenza verso la vita ci protegge dal tempo tiranno che ci vorrebbe alieni al magma delle nostre origini.
Enrico e io ci siamo ritrovati in questo luogo, perchè abbiamo fatto dei nostri quarant’anni l’osservatorio per raccogliere ciò che ci ha fatto uomini veri: rimanere noi stessi.

A fine mese Daniela e sua madre abbasseranno la saracinesca dell’Antica Piada di Pesaro. Finisce un’epoca per chi ha vissuto questo luogo magico del marchigiano. Nella farina, acqua, olio e sale, gli ingredienti che hanno fatto di questo impasto il nutrimento di tanti di noi, ho ritrovato una notte sulla laguna di Venezia: io e il mio amico Luca, oggi autore televisivo, ad impastare il testo e la scaletta per un collegamento tv fino a tardi.

Luca mi fece notare che quando si facevano sostituzioni nel testo, bisognava sempre lasciare traccia del passaggio precedente, senza cancellare niente, sarebbe potuto tornare utile. Enrico ci raggiunse e ci ritrovammo come al solito a goderci il plenilunio in laguna.
Quella notte io, Enrico e Luca, poco più che ventenni, diventammo improvvisamente grandi: non si cancella nulla per ritrovarsi.

Il futuro ci avrebbe dato ragione e non per merito solo di una piadina.

 

La memoria di ciascun uomo è la sua letteratura privata. (Aldous Huxley)