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Archives 2017

Diario di viaggio: perché ho lasciato le mie camicie in riva al Gange

Quando ho messo nel bagaglio le mie camicie con il collo consumato, mi sono detto chissà in quanti penseranno che una camicia vecchia non va conservata per tanti anni. C’è chi le camicie se le fa cucire su misura, i fricchettoni si fanno appiccicare le iniziali, i modaioli vestono le grandi firme.

Le mie sono camicie anonime che mi hanno accompagnato negli ultimi vent’anni in giro per il mondo. Tra queste ce n’era persino una che mi aveva regalato nonna Lucia, presa al mercatino di Fuorigrotta. Queste camicie non appartenevano alle grandi marche, sono appartenute soltanto a me, hanno preso la forma del mio torace, del mio corpo, hanno vestito la mia anima di viaggiatore, hanno visto la sua crescita ed evoluzione.

Queste camicie hanno fatto l’ultimo viaggio in India con me, non sono più tornate indietro, sono rimaste lì, le ho lasciate in riva al Gange. Qualcuno ha pensato fosse un rito religioso induista. No, è stato il mio desiderio di lasciarle in riva al fiume sacro dell’India per rendere omaggio alle persone defunte che hanno vestito la mia vita.

I grandi affetti non possono essere rimpiazzati, restano per sempre e sfidano il muro di gomma della morte. I morti non mi fanno paura, mi spaventano piuttosto i vivi affannati tra le loro inguaribili mediocrità. In una mattinata ho percorso quattro chilometri lungo il Gange a Varanasi e le ho abbandonate un po’ qui, un po’ là.

Sono convinto che saranno passati a prendersele, le avranno indossate e così un giorno lì riconoscerò perchè da bambino pensavo che gli angeli avessero un viso fatto di luce abbagliante.
Queste camicie mi faranno da bussola per ritrovarli: il nonno con quella celeste, la nonna con quella blu scuro che le piaceva tanto, la professoressa rivoluzionaria con quella bianca, lo zio militare con quella a righe, la migliore amica con quella a pois come le sue lentiggini che mi divertivano da bambino.

La sera, prima di partire da Varanasi, ho visto le mie camicie volare sul Gange al chiaro di luna. La profezia si è avverata. Mi sono sentito più leggero, sgombro dal peso delle paure umane. Lasciamoli andare i nostri morti, liberi, un giorno li ritroveremo e indosseranno una camicia.

 

Non ce ne siamo andati del tutto,

nessuno se ne va del tutto,

lo so perchè a volte torno

in un profumo,

in un suono,

in un colore

o in un sogno che poi dimentico.

(Patricia Monica Vena)

Cartolina dall’India: a casa della Missionarie della Carità di Madre Teresa

Le lancette dell’orologio segnano le otto e mezzo. A passi lenti avanzo in una stradina stretta nei pressi del ghat Shivala di Varanasi. L’insegna “Missionarie della Carità di Madre Teresa” mi indica l’arrivo. Un uomo sulla settantina sull’uscio mi annuncia. Sbuca una suorina e mi fa cenno di entrare: “Sapevamo della sua visita. La stavamo aspettando”.

Comincia così il mio viaggio nel viaggio nella casa di Varanasi fondata da Madre Teresa, la più importante dopo quella principale di Calcutta. “Ci conosceva una per una – mi racconta la suora – e passava in ciascuna delle sue case per guardare negli occhi le persone che accoglievamo”.
Scendiamo una rampa di scale, attraversiamo un corridoio, entriamo in una lunga camerata. Un uomo in pigiama mi sorride, una donna anziana farfuglia qualcosa e mi saluta con un cenno del capo.

In questa casa ci sono soprattutto malati con disturbi mentali. Poi entriamo in uno studio con una piccola scrivania al centro.
A lato campeggia un ritratto di Madre Teresa di Calcutta con un sorrise raggiante. La suora mi chiede del mio viaggio in India ed io le racconto di quando sui banchi di una scuola media di periferia mi impressionò l’operato di Santa Teresa di Calcutta. Esce nel cortiletto, stende il bucato.

Io resto immobile con lo sguardo fisso sulla finestra e mi convinco che dovremmo cercare la santità nell’operato che uomini e donne straordinari hanno lasciato qui in terra, e non sugli altari o nelle processioni.
Dovrebbe passare nella casa delle Missionarie della Carità tutta la stampa becera che ha ridotto la vita di Madre Teresa ad un’effimera operazione mediatica.

Mi incammino verso l’uscita. Dal cortile decine e decine di occhi luminosi mi salutano in coro così: “Goodbye and thank you for coming from Italy”.
E’ il buongiorno in India che mi accarezza il cuore, mi spoglia l’anima.

 

Sono come una piccola matita
nelle Sue mani, nient’altro.
È Lui che pensa.
È Lui che scrive.
La matita non ha nulla
a che fare con tutto questo.
La matita deve solo
poter essere usata.

Madre Teresa (1910-1997)

Cartolina da Varanasi: sul sacro Gange ho sentito le sue mani tra vita e morte

Rahul mi accompagna nel mio alloggio che affaccia sul Gange. Sono arrivato a Varanasi dopo una nottata di treno.  Indicandomi la scrivania, mi fa cenno come per dire “le sarà utile per scrivere”.
La mia vicina è Amita, figlia di una coppia indiana trasferitasi a Londra. Chiacchieriamo, le racconto del mio on the road in India e lei del ritorno al suo Paese d’origine.

Prima del tramonto, l’autista mi porta dal barcaiolo. Gli ultimi scorci di sole, in un tramonto di pastelli  che non potrò cancellare, accompagnano la mia navigazione sul Gange. Tra una remata  e l’altra sento in lontananza i canti provenienti dal Dasaswamedh Ghat che tutte le sere mettono a letto il fiume sacro dell’India.

Scende la sera, di fronte a me lampeggiano dei falò incandescenti. La barca si accosta alla riva, all’altezza del gath della cremazione. I corpi vengono bruciati, il tanfo di cadavere si mischia ad uno strano odore che non saprei descrivere. Un branco di cani mette la testa nel Gange all’altezza dei corpi bruciati. Tre grosse mucche si spostano lentamente avanti e indietro.

La foschia del fiume avvolge il bagliore del fuoco. Faccio cenno al barcaiolo di riprendere a remare. Sono sconvolto. Comincio a pensare intensamente a lei, perchè perdere la tua migliore amica quarantenne è l’affronto peggiore che il dolore possa farti.
Mi alzo in piedi sulla barca, lancio nel Gange una coroncina di fiori con una fiammella accesa. Man mano che il cuscino di fiori si allontana, sento due mani sulle spalle. Le riconosco, sono le sue.

Provo a voltarmi indietro, le sue mani bloccano il mio capo come per dire non girarti, non serve, “sono qui, ti aspettavo, sapevo che saresti venuto perché questo viaggio lo hai fatto anche per me”. Singhiozzo, si appannano gli occhiali e le sue mani arrivano all’altezza dei miei occhi, provando ad asciugare la colata delle mie lacrime.

Quella notte mi butto giù dal letto per riaffacciarmi sul fiume Gange dal mio balcone. Avevo capito che non avevo sognato, perchè i morti ci restano accanto per sempre.
Nel silenzio di quella notte di dicembre mi è stato svelato il motivo di questo viaggio: ritrovarla sulle acque del fiume sacro dell’India senza tempo.

 

Chi ha un vero amico, non ha bisogno di uno specchio. (Proverbio indù)

Cartolina da Agra: l’amore eterno custodito dal Taj Mahal

C’è ancora una mezza luna che brilla ad Agra. Non manca tanto alle prime luci del sole. Il Rajasthan è ormai alle spalle e nella regione indiana dello Uttar Pradesh sanno bene che bisogna arrivare prima dell’alba al Taj Mahal, affinchè la folla dei visitatori non faccia da gustafeste alla visita di una delle sette meraviglie del mondo.

Quando l’imperatore moghul Shah Jahan fece costruire il mausoleo in memoria della moglie preferita Mumtaz Mahal, l’India del XVII secolo non poteva di certo immaginare che questo sarebbe diventato il simbolo del Paese.
Incamminandomi verso il gioiello UNESCO, che a seconda della luce del sole veste sfumature colori diversi, mi sembra di rivedere le centinaia e centinaia di elefanti impiegati e fatti morire per trasportare il materiale per la costruzione.

Ciascuno di noi in pellegrinaggio in questo luogo si sente custode dell’amore eterno, perché le tombe dell’imperatore e della sua amata non sono altro che la sfida alla nostra esistenza segnata dall’epitaffio “finché morte non ci separi”.

Il Taj Mahal è l’ultimo baluardo dell’umanità convinta che l’amore per la propria donna, nonostante tutto, sia infinito nell’evoluzione che lo conduce a crescere, espandersi in tutte le fasi, dalla giovinezza alla vecchiaia.
Il Taj Mahal, attraverso la sua ala protettiva, libera questo amore eterno dalle convenzioni sociali che hanno affossato l’India sotto i ricatti delle caste.

Le convenzioni sociali non risparmiano nessuno di noi, nella lotta quotidiana ai ricatti degli assurdi e mostruosi riti sociali che vorrebbero dettare legge sulla nostra vita. Il turista se ne va con un mucchio di selfie in tasca, surrogati del narcisismo volgare dei social network.

Il viaggiatore si ritrova accovacciato in silenzio dinanzi al Taj Mahal, perchè l’amore resta un mistero così come la morte.

 

L’amore non bada a caste né il sonno a un letto rotto. Io andai in cerca d’amore e mi persi. (Proverbio indù)

Cartolina da Pushkar: il lago del misticismo per noi pellegrini

Sono arrivato a Pushkar senza sapere a cosa andassi incontro. Qui c’è profumo di sacralità per le stradine della città vecchia, dove l’odore di fogna si mischia con il fango tra la folla dei fastidiosi ambulanti pronti a truffarti.
Il trucco del fiore non può sfuggire all’occhio del viaggiatore: sfruttare le usanze religiose induiste per spillarti i soldi e obbligarti a dare somme spropositate? Sì, senza cedere ai ricatti.

Attraverso una strettoia mi affaccio su un lago. Qui scatta il mistero, lo stupore, perché questo non è un lago qualsiasi, ma una conca d’acqua sacra.
Pushkar, la Varanasi in miniatura del Rajasthan, ha il suo fulcro in questo girotondo di gath, le scalinate che scendono verso le acque e segnano i passi dei riti induisti. Mi fanno cenno di camminare scalzo. Tolgo le scarpe e percorro a piccoli passi il lungolago.

Mi siedo sui gradini di un gath. A pochi passi da me c’è un santone che sussurra parole che hanno il suono di preghiere, schiaffi alla frenesia di noi occidentali orfani del misticismo.
Due grosse vacche, seguite da un asino mendicante, si crogiolano per riflettersi nelle acque mentre il sole intraprende la sua discesa verso il lago, prima che il tramonto diventi fuoco incandescente.

Siamo tutti pellegrini a Pushkar. Mi fermo in un piccolo bar che affaccia sul lago. Sorseggio una tazza di tè indiano mentre in lontananza, come ogni sera, la voce corale e un mantra induista si alzano su tutto il lago della città santa del Rajasthan.
E se ci fosse un sonnifero nel mio tè fumante? Mi addormento steso tra i cuscini di questo bar indiano. Quando mi sveglio, il sole non c’è più, è tutto buio, non c’è luce artificiale, ma solo un quantitativo di stelle che scandscono la veglia notturna su Pushkar.

Mi tornano in mente le parole della donna conosciuta nel tempio:

Fa che sia il tuo cuore a scegliere la destinazione e la ragione a cercare la via del tuo viaggio.

 

Cartolina dal deserto del Rajasthan: tutta colpa del cammello Bablu!

Nel piccolo villaggio di Khuri ad accogliermi c’è Sug. Mi sento un viaggiatore privilegiato a guardare questa zolla dell’India attraverso gli occhi di chi è nato nel deserto e ha radici in un piccolo villaggio del Rajasthan. Qui il tempo sembra essersi fermato.

Girovago nel centro del villaggio e di sbieco osservo le donne che portano sul capo l’acqua o i bambini che vanno verso scuola. Mi sembra di rivedere mio padre, più di settant’anni fa in un paesino del Sud Italia, in quello scenario campestre e contadino che ti trasmetteva un dialogo libero con i posti che ti circondavano.

Sug e i suoi fratelli sono nati qui a Khuri, ad una quarantina di chilometri da Jasailmer. Ci vivono da più di una generazione. Sug mi racconta che il nonno e il papà non avrebbero mollato questa terra arida per tutto l’oro colato.
Loro hanno messo sù degli alloggi – il mio è buffo quanto un trullo – per chi passa qui. Come compagno di quest’avventura mi tocca un cammello. Io su un cammello? Chi lo avrebbe mai detto.

Con il mio nuovo amico Bablu condividiamo una fetta di un pomeriggio assolato nel deserto del Rajasthan. Bablu mastica e mi fa smorfie mentre io mi godo l’ultimo tuffo del sole prima di trasformarsi in un tramonto del deserto. Da lontano si sentono suoni avvolgenti come le composizioni musicali di alcuni cd che mi sono portato dall’India.
In quel silenzio, seduto accanto a Bablu, trovo il coraggio che ogni uomo dovrebbe avere: lasciare il nome della donna che ama scritto sulla sabbia del deserto.

Prima che si assottigli l’ultimo filo di luce, torniamo al villaggio, ci aspettano dei musicisti locali intorno al fuoco. Si fa festa, si mangia, si danza, accanto a me è seduta una famiglia di Bombay. Alzo gli occhi verso il cielo e mi ritrovo faccia a faccia con mille, centomila, un milione di stelle luminose.

L’indomani mattina mi alzo all’alba per godermi lo spettacolo della nascita del sole. Poi metto lo zaino in spalla e mi fiondo in auto per ripartire. Sug mi raggiunge per salutarmi. Gli mostro alcuni miei appunti. Mi mette la mano sulla spalla e mi fa un cenno. A buon intenditore poche parole. Sug non sa leggere.

Dopo qualche chilometro Sug diventa un puntino e scompare nel deserto. Tiro giù il finestrino. Ho il vento tra i capelli e mi rendo conto di aver imparato a voler bene a Sug e ai suoi fratelli.

 

Se tu parli agli animali loro anche ti parleranno, così vi conoscerete. Se non parli agli animali, non li conoscerai mai. E ciò che non conosci lo temerai sempre. Ciò che si teme, si distrugge. (Proverbio indù)

Cartolina da Mandawa: matrimonio in Rajasthan

Quando pensi di essere finito su un set di un film di Bollywood, ti ritrovi ospite di un vero matrimonio in India. Avevo seguito gli allestimenti attraverso la finestra dell’Heritage Mandawa, una meravigliosa Haveli, ovvero un antico palazzo affrescato del vecchio Rajasthan.

Il proprietario dell’hotel di Mandawa aveva intravisto nei miei occhi quel luccichio tipico di chi ha un segreto nascosto nel cuore: “Chi alloggia qui, è anche mio amico”, ci tiene a precisare l’uomo sulla sessantina. La sera sono invitato al matrimonio.
Le donne sono tutte in abito tipico del Rajasthan, mi sento “abusivo” in camicia e jeans. Gli invitati mi guardano, poi rompo il ghiaccio e così per un paio d’ore faccio parte della comunità.

Il matrimonio indù dura più settimane e, in questo caso, il rito religioso delle nozze era avvenuto già diversi giorni prima. Il banchetto a cui ho partecipato è l’ennesima tappa, le tre ore volano in fretta.
Ad accompagnare la festa nunziale musicisti che suonano e un paio di danzatrici indiane; sotto un gazebo variopinto gli sposi, affiancati da amici e parenti stretti. Sono due ragazzi alla mano e lo sposo, l’indomani a colazione, mi concede anche questo selfie.

Niente festeggiamenti ingessati come dalle nostre parti, tutti in piedi, a gustare le pietanze che raccontano il meglio dell’arte culinaria indiana sotto un cielo stellato: ci sono persino le ghiottonerie dello street food di cui noi gente del Sud del mondo non potremmo mai fare a meno.
Alla fine del banchetto mi rendo conto di non aver lasciato nessun regalo. Chissà se mi sono rifatto con questa pagina di diario di viaggio…

La settimana successiva mi sono fatto cucire da un sarto del Rajasthan un abito su misura per non trovarmi impreparato ad un altro eventuale invito. Non si sa mai. Ogni desiderio di un viaggiatore appassionato sia esaudito.

 

Una casa senza una donna diventa alloggio del diavolo. (Proverbio indù)

Cartolina dall’India: il sitar di Rikhi Ram tra i Beatles e Ravi Shankar

A pochi passi da Connaught Place, il cuore pulsante di Nuova Delhi, c’è una tana di strumenti musicali che ha segnato la storia. Rikhi Ram è un ponte che unisce un profondo legame d’amicizia, quello tra il quartetto musicale più famoso del mondo, i Beatles appunto, e il paladino dei suonatori di sitar, Ravi Shankar.

Ci arrivo per caso in questo posto magico, come se l’intuito del viaggiatore, che ha fatto della musica la colonna sonora dei miei vagabondaggi, tracciasse ogni spostamento.
Il nonno di Akhil, insieme a me in questa foto, fece il sitar al Ravi Shankar che a sua volta portò qui i Beatles nel ’66. Suo padre ha realizzato sitar per George Harrison fino al giorno della sua scomparsa.

Il mio primo viaggio in India, fatto di musica e immaginazione, lo tracciò proprio il suono del sitar di George Harrison che mi portò alla scoperta della discografia e delle sonorità del maestro Ravi Shankar. Tra le quattro mura di Rikhi Ram sai di non essere in un posto qualunque, perchè la polvere di stelle della memoria sa farti ritrovare chilometri e chilometri della strada del tempo, come se ci fossi stato anche tu.

Akhil mi mostra la collezione di sitar, apre la scatola di vecchie foto in bianco e nero che ritraggono suo padre e suo nonno con i grandi musicisti, mi fa sentire il suono dello strumento, facendomi scoprire lo stupore dell’impronta dell’artigianalità dentro ogni centimetro quadrato del legno lavorato.

I Beatles e la loro musica hanno accompagnato gli ultimi trent’anni della mi vita, ispirando tanti miei viaggi. Akhil lo ha capito appena ho messo piede nel suo negozio. C’è qualcosa di me che è rimasto lì. Non sono passato più a riprendermelo.

 

George Harrison è stato come un figlio per me. (Ravi Shankar)

Cartolina da Delhi: sui passi dei Gandhi

Nel bel mezzo della notte mi ritrovo nel centro di Delhi. Mi stropiccio gli occhi, non sto sognando ad occhi aperti. Sono in India, il 46° Paese del mio giro del mondo. Fin dalla prime ore di luce la capitale  è invasa da clacson, da un traffico insopportabile, da uno sciame di motorini e tuk tuk che spuntano da ogni parte.  Rajeev, il mio autista in questo lungo on the road, mi consiglia di farmene una ragione.

Il traffico infernale l’ho mandato giù, ma non di certo quella povertà che fa spettacolo lungo le strade di Delhi. L’India suddivisa in caste continua a produrre povertà, mi sembra di vivere un lungo flashback tra le grinfie del colonialismo britannico.
Invece no, a Delhi le tracce dei colonialisti sono evaporate – l’inglese lo hanno dimenticato in tanti –  ma il battesimo di questo mio lungo on the road deve per forza avvenire sulla tomba di Gandhi.

Il Mahatma è il dono più bello che Dio ci ha inviato nel XX secolo. Ci hai insegnato che le battaglie si vincono senza armi o eserciti. Questo vale anche per sconfiggere lo sfruttamento colonialista.
La non-violenza
è la scorciatoia che permetterebbe all’umanità di godersi la luminosità del volto di Dio.

Le vecchie glorie del Forte Rosso scemano nel chiassoso mercato di Chandni Chowk, nel cuore della vecchia Delhi, nel contrasto di un tempio induista e una moschea islamica, tra i bazar dove si può trattare su qualsiasi articolo e il mercato delle spezie.
La porta dell’India si erge a simbolo come l’Arco di Trionfo parigino, ma Delhi corre ed è troppo indaffarata per accorgersi che il fantasma di Indira Gandhi, il primo ministro assassinato il 31 ottobre 1984, aleggia sulla capitale.

Il sogno dell’altra Gandhi – nessun legame di paretela con il Mahatma – è depositato nella sosta emozionante dell’Indira Gandhi Memorial ed infranto come accadde per il clan dei Kennedy negli USA.
Meglio perdersi tra le orme della storia anziché far finta di niente, tapparsi il naso come fanno i turisti preoccupati a seguire per il filo e per segno il vangelo della guida turistica di turno.

Le guide cartacee non servono a niente in India. Comincia con questa consapevolezza uno dei viaggi di svolta della mia vita da viaggiatore.

 

La semplicità è l’essenza dell’universalità. (Gandhi)

48, Riina il padrino morto che parla dei favori degli uomini di Stato

Quanti rotoli di carta igenica abbiamo sprecato per scrivere della morte di Totò Riina, senza riflettere abbastanza sugli uomini di Stato che subdolamente o sfacciatemente gli fecero concessioni o favori.
Il più grande glielo fecero quando non evitarono le stragi di Capaci e via D’Amelio, che congelarono la guerra alla Mafia a viso scoperto dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

La mia prima volta a Palermo fu nel 2003, proprio nei giorni in cui nelle strade lampeggiavano le fiaccole per commemorare Giovanni Falcone nell’anniversario della scomparsa. Tenni un corso di comunicazione e terminai la lezione raccontando l’emozionante anteprima del film “I cento passi” al Festival del Cinema di Venezia di qualche anno prima.

Un allievo mi accompagnò a fare quattro passi nel centro storico. Mi indicò una bottega alimentare e fece segno di entrare. Sull’uscio c’era una coccarda azzurra. Il titolare, un uomo tozzo sulla quarantina, notò il mio interesse per la coccardina ed eslamò: “Ieri sono diventato papà di Totò”.
Gli feci gli auguri e mi complimetai per la scelta del nome che, a mio modesto parere, si sposava con la tradizione artistica partenopea del nostro grande Antonio De Curtis, in arte Totò.
Il bottegaio mi rise in faccia e replicò: “Dottò, che cosa avete capito, noi in Sicilia di Totò ne abbiamo solo uno e a lui dobbiamo mostrare riconoscenza”.

Andammo via e il mio allievo nel salutarmi si congedò così: “Questa è la Mafia. I padrini di Corleone come li immaginiamo noi sono roba da film. Buon rientro a Milano.”
Al primo incrocio su via Libertà finii in mezzo al corteo della fiaccolata dedicata a Giovanni Falcone e mi tornarono in mente come un boato le sue sagge parole:

La mafia, lo ripeto ancora una volta, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società.
Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione.