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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Per Lucia

Per Lucia ricomincio. Su quel tram verso Bagnoli, in un pomeriggio di dicembre, io nel mio montgomery color cammello e il suo maglione fatto a uncinetto, stretto a lei, a far visita al fratello Nicola. Il tram frenò e i suoi occhi balzarono nello sgomento. Capii allora che la mia bisnonna se n’era andata prematuramente investita da quel maledetto numero 1.

Per Lucia ricordo. A braccetto con la sorella Adele nella Napoli del Secondo Dopoguerra in attesa che le arrivasse una lettera dal suo Pasquale, prima dei giorni bui della prigionia, sognando il matrimonio che sarebbe arrivato quando dalla polvere da sparo sarebbero germogliate rose rosse: “Mia carissima Lucia, in questo momento ho ricevuto il tuo espresso, il quale ha procurato in me grande gioia, sapendoti in ottima salute. Poi ho trovato due foto, per cui ti assicuro che sei uscita magnificamente bene. Sappi che, essendo la mia divisa un po’ grande, ho dovuto portarla dal sarto per farla accorciare. Appena il sarto si deciderà a ridarmela, mi farò delle foto in formato grande e te ne invierò qualcuna. Del resto, sii sempre tranquilla che io ti amo veramente e non ti farò mai alcun torto.”

Per Lucia come nel teatro di Eduardo. Da commerciante ambulante dell’Addà passà ‘a nuttata della Napoli milionaria a commerciante a domicilio quando il marketing era ancora scienza lontana; da moglie, zia, sorella, figlia a madre attenta, premurosa, avanguardista; da matriarca generosa che trasformò la sua casa nel rifugio di aggregazione per familiari, amici, vicini a nobildonna non per titolo ereditario ma per vita vissuta; da impeccabile cuoca napoletana ai fornelli a saggia anziana occhialuta che amava ripetere: “A vita è n’affacciata ‘e fenesta.”

Per Lucia io scugnizzo napoletano. Una notte, sotto un cielo stellato ai Campi Flegrei, fece l’incantesimo. Gettò via il borotalco, mi cosparse dello zolfo della Solfatara, mi fece immergere nell’acqua misto di sale e catrame di Coroglio, mi lasciò tremare tra i movimenti ondulatori del bradisismo di Pozzuoli, spalmò sulla mia lingua la cadenza stretta napoletana affinché nessun maestro di dizione potesse correggerla.
Mi sottrasse alla provincia, cambiò il mio destino, mi cucì addosso un vestito con le canzoni di Piedigrotta e mi fece ad uncinetto un cappellino con le ceneri del Vesuvio. Nella braccia conficcò la terracotta dei pastori di San Gregorio Armeno e, anni dopo, al capezzale dopo aver capito che i giorni era contati, mi disse: “Fujetenne, vattenne. Tu ta cavarrai sempe”.

Venticinque anni senza Lucia sono stati anche 25 vigilie di Natale con lo spaghetto alle vongole tassativamente in bianco, 25 smisurate preghiere su un filo di vento, 25 fette di pastiera mai mangiate, 25 sogni in cui luminosa mi faceva segno di non voltarmi indietro perché c’era lei a un passo da me, 25 punture dolorose tutte le volte che avrei voluto riabbracciarla, 25 poesie mai scritte perché la penna di Salvatore Di Giacomo non mi avrebbe soccorso, 25 volte in un teatro a Napoli senza che mi accompagnasse e tutti puntualmente a ripetermi “Che bella signora, tua mamma!” (In reatà lei mia nonna…), 25 concerti senza la dedica di Riccardo Fogli per lei su un vecchio 45 giri, 25 volte in aereo pensandola accanto a me come quella volta verso Lourdes, 25 volte in auto al casello della tangenziale senza lei che mi diceva “Pigliete sti spicci…”, 25 Festival di Sanremo senza lei che mi raccontava i suoi, il primo alla radio, 25 volte che ho chiesto ad Alexa di darmi le notizie a prima mattina per ritrovare i risvegli assieme e lei che girava la manopola della radio su Rai GR1 notizie, 25 estati al mare senza il suo “Figlio ‘e ‘ntrocchia, je te voglio bene”.

Oggi 29 dicembre chissà se mi riconoscerà per le vie di Milano dopo così tanto tempo, capelli ingrigiti e barba incolta, occhiali appannati come i vetri dell’auto con i tergicristalli rotti, un ago puntato al centro del mio cuore.

Per Lucia, mia nonna.

Regalo di Natale: Luigi Tozzi, il consigliere comunale di Carinola che sfida la disabilità

Per Natale mi piace raccogliere storie autentiche dai miei viaggi per salvaguardarmi dalla solfa social di questi giorni. Luigi Tozzi, “il ragazzo della frazione Nocelleto” che per una vita ha sfidato la disabilità, festeggia il primo Natale da consigliere comunale di Carinola, nel fazzoletto di terra campano della provincia di Caserta.

LUIGI, REGALO DI NATALE PER LA COMUNITA’

In un gelido inverno di una quindicina d’anni fa, mi ero spinto venendo da Milano in uno dei miei vagabondaggi oltre Sessa Aurunca, nella zolla di frontiera campana in cui si fronteggiano la provincia di Caserta e il basso Lazio. Mi aveva colpito l’entusiasmo di Luigi Tozzi, un ragazzotto di periferia che, tra studi giuridici e impegno nel sociale, si era liberato dalla prigionia della disabilità.
Luigi sapeva bene cosa fossero gli schiaffi della vita, cosa significasse trovarsi in mezzo ad una bufera, tutti avevano imparato a volergli bene per tenacia, coraggio, passione per la vita. Aveva sempre una parola buona per tutti ed era già allora, in tempi non sospetti, un regalo di Natale per la comunità.

A SUD, UNA RAZZA IN ESTINZIONE

Oggi da consigliere comunale con delega alla disabilità Luigi Tozzi è la massima espressione di una comunità che ha avuto l’intelligenza di riconoscergli il merito di appartenere ad una razza in estinzione del Sud Italia.
Nei giorni bui della pandemia, che ci ha catapultati nel recinto della libertà vigilata, il ragazzotto della frazione Nocelleto resta il fante della libertà di essere in primis sé stesso, quella per cui ciascuno di noi dovrebbe battersi nel suo piccolo: dare calci in culo all’arretratezza subculturale che vorrebbe la diversità come sponda di emerginazione e non un fiume in piena di ricchezza.

NATALE TRA RINASCITA E SPERANZA

L’Italia è fatta di tanti Luigi invisibili, di cui invece bisogna tornare a parlare, a raccontare, per lavare i panni sporchi dallo streaming di selfie dei goffi “babbi natali” (pardon, babbei natali) che mendicano un pizzico di notorietà abusiva.
Se Natale è rinascita, senza vergognarci delle nostre millenarie radici cristiane, allora Luigi Tozzi nella sua sfida alla disabilità è un esempio per tutti noi, codardi e piagnucolosi di fronte alle prove delorose della vita. Nel buio della notte c’è sempre un barlume di luce e quelli come Luigi sono una risorsa per una piccola comunità, per il Meridione d’Italia, per il nostro Paese che ha smesso di sognare per fare posto alla paura, all’incertezza, alla precarietà collettiva.

Lina Wertmüller, travolto da un insolito destino alla Reggia di Caserta

Travolto da un insolito destino alla Reggia di Caserta. Una mattinata insieme a Lina Wertmüller durante le riprese di Ferdinando e Carolina. Io, lo sbarbatello non ancora laureato, penna e taccuino alla mano, inviato dal caporedattore di un quotidiano nazionale e papà che mi ripeteva: “Quando mi chiedono quale mestiere hai iniziato a fare, cosa rispondo?”.

QUESTA VOLTA PARLIAMO D’UOMINI

Travolto da un insolito destino nell’azzurro del mare d’agosto che non c’era. Per me bastava ci fosse lei, dietro la macchina da presa, lo scalone della Reggia di Caserta che mi scivolava addosso. La Wertmüller abbassò gli occhialini e, prima del prossimo ciak, mi disse: Benvenuto“. Forse sarei stato scontato, se per attirare la sua attenzione, avessi esordito citando il titolo del suo film Questa volta parliamo d’uomini.
Macché, proprio con lei che era il mio mito di emancipazione femminile, lontana da stizzinosi slogan e assordanti megafoni riposti in soffitta dalla generazione dei miei genitori.

RIDATEMI MIMI’ METALLURGICO

Il culo gigante in Mimì Metallurgico ferito nell’onore era stato a 12 anni una sorta di luna gigante felliniana: nonno Pasquale me lo aveva fatto osservare senza alcuna censura. Prima di quel set mi ero ritrovato rinchiuso in camerino con Mariangela Melato a rovistare testimonianze di Film d’amore e d’anarchia, anni dopo sulla laguna di Venezia con Giancarlo Giannini a sbucciare noccioline cinefile tra Pasqualino Settebellezze e La fine del mondo nel nostro solito letto in una notte piena di pioggia, appiccicato ad una cornetta telefonica della SIP con Paolo Villaggio dell’altra parte per un memento colorito da Io speriamo che me la cavo.

STRISCIONE DI PROTESTA CONTRO L’INFAME MASCHILISMO

Prima che le femministe di Sinistra si facessero spennare come galline nei salotti borghesi, Lina Wertmüller aveva mitragliato con la sua macchina da presa l’infame maschilismo accampato nel cinema italiano dal Secondo Dopoguerra in poi.
Quanti tra i fetenti nascosti sotto le sagome cartonate da benpensanti si sono mai accorti che i film della Wertmüller sono stati tra gli striscioni di protesta più roboanti Italia?
Intanto di quello shooting di Ferdinando e Carolina mi torna in mente l’armonia tra tutti gli addetti ai lavori, la postura della Wertmüller nei confronti dei suoi attori: autorevole e garbata, severa e con un sorriso sornione sempre per tutti. Da quel reportage mi portai via l’esperienza del set come un gioco di costruzioni, in cui l’atto creativo era condivisione e l’ultimo tassello fuori posto poteva fare la differenza e stimolare chiunque partecipasse alla realizzazione del film.

Lina Wertmüller ha fatto ridere a crepapelle persino gli ingessati a stelle e strisce dell’Academy. Datele retta, basta con questo “maschilista” Oscar.
Da oggi chiamiamola Anna, come da lei suggerito, la statuetta più ambita del mondo.
Evviva Lina, fantasista e anticonformista, autentica rivoluzionaria e avanguardista, che ci lascia in balia della pochezza del nostro tempo.

Diario di viaggio nella Londra di Get Back dei Beatles

Trent’anni prima della mini serie Get Back di Peter Jackson, che in questi giorni sta riportando in rete l’ondata emotiva della Beatles-mania, mi sono fiondato al numero 3 di Savile Row a Londra. Provai a fare la prima bravata da maggiorenne, salire sul mitico tetto dove John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr si erano esibiti per l’ultima volta, l’ex edificio della Apple, con le session tratte dall’album del divorzio Let it Be.

GET BACK E NOI FAN DI UN’ALTRA GENERAZIONE

Di quella mattina dei primi di agosto del 1991 resta questa foto scattata con la mia prima macchina fotografica a rullino. In realtà la strada del quartiere di Westminster, dove c’ero arrivato con una mappa beatlesiana acquistata a Liverpool l’anno prima, era stranamente desolata. Non riuscii a farmi aprire la porta d’ingresso dello stabile e la mia impresa non fu compiuta.
Oggi questa pagina da diario di viaggio mi sollettica una riflessione. Io appartengo alla generazione nata tre anni dopo lo scioglimento dei Beatles e che ha messo piede in Inghilterra la prima volta nel 1988. Fatevi due conti, non era passato soto i nostri piedi un tappeto così lungo dalla pubblicazione dell’atto finale Let it Be. In tanti della mia generazione hanno ottenuto il patentino di fan non per l’iscrizione a questo o all’altro club, ma perché hanno cercato e dato fisicità ad una band musicale e alla sua storia.

FISICITA’ IN QUEL LEGAME CON I BEATLES

Barcamenarsi a fare la cresta sulla spesa alla mamma per acquistare i dischi, correre ad un concerto di Paul McCartney, rincorrere Yoko Ono alla prima mostra in Italia dedicata a John Lennon, centellinare da minorenne ogni luogo natale in un viaggio da Bath a Liverpool in un treno inglese, bere una birra al Cavern in compagnia del primo manager che li portò ad Amburgo, fare un sit in nell’angolo di Central Park più vicino alla casa newyorkese di John e Yoko, entrare abusivamente negli studi di registrazione di Abbey Road, non sono stati atti di feticismo o follie di un ragazzotto di periferia. Sono stati piuttosto il tentativo sincero di dare fisicità a questo legame, approfondendolo, facendone un tassello di una vita, marinando noiose lezioni di greco e latino per tradurre e ritagliare le canzoni dei Beatles come facevo con i sonetti di Shakespeare: li lasciavo in anonimato sotto i banchi delle ragazze che mi piacevano per non apparire uno sfrontato romantico.

LET IT BE DI LINDSAY-HOGG SEME DI GET BACK DI JACKSON

Mi fa pena spulciare nei corridoi social commenti da bar triti e ritriti – da Yoko Ono ancora vista come la stregaccia cattiva alle idiote stroncature della discografia solista di un Beatles da parte dei mendicanti della bacheche facebookiane senza né arte né parte.
Surfando sull’onda emotiva dello straming disneyano di Get Back di Jackson, mi tornano in mente le sequenze rubate del documentario Let it Be di Lindsay-Hogg.
Nel 1990 mi rassegnai a vederlo pubblicato in VHS (le vecchie videocassette per i nativi digitali) dopo gli altri film dei Beatles o reperirlo nelle teche RAI che all’epoca lo aveva trasmesso. Nel ’94 mi fece un gran regalo un vicino di casa della famiglia londinese presso cui alloggiavo a Ealing Broadway. Tirò fuori dalla soffitta una videocassetta del fratello maggiore dove era registrato il documentario del 1969 con l’apparizione dei Beatles sul tetto di Savile Row.


IL MIO GET BACK

Un quarto d’ora prima della fine di Let it Be il nastro si attorcigliò nel videoregistratore e noi restammo a bocca asciutta. Nonostante la visione incompleta, il mio Get Back resta rannicchiato in quel pomeriggio londinese tra gli abbai del cane, la moquette puzzolente e l’afternoon tea servito dalla signora con dei biscotti fatti a mano in una casetta della working class.
Da allora “Whisper words of wisdom, let it be” da slogan McCartyano diventò per me stile di vita.

DIECIANNI

Io l’ho vista rannicchiata in un fazzoletto di periferia alle falde del monte Somma e me ne sono innamorato. Il 9 novembre, in coincidenza con il suo sesto compleanno, aveva spezzato in due i miei vent’anni portandomi via nonno Pasquale. Quel giorno di immenso dolore sarebbe diventato, anni e anni dopo, giorno d’amore perché la vita sa come muovere i fili del destino.
Diecianni come il frammento di un sonetto che la polvere del tempo non ha intaccato, diecianni come il titolo di un cortometraggio proiettato sulla parete della nostra distanza anagrafica.


Io l’ho vista al di là dei suoi occhialini rettangolari dietro cui si nascondeva, l’ho baciata sul calar della sera nei pressi di una scuola di periferia, ho capito che chissà quando l’avrei portata all’altare. Lei non sapeva di essere per me quello che Mary era stata per George nel bianco e nero argentato del film La vita è una cosa meravigliosa. Io l’ho vista lunatica, intimidita, arrossire, ridere, piangere, farsi in quattro per la sua famiglia, arrabbiarsi, lanciare il lazzo della sua generosità, soffiare le candeline di compleanno sotto la Torre Eiffel su una tortina presa al supermercato.
Diecianni come i bambini che accudiva in una casa famiglia in provincia di Napoli, diecianni come le sue paure di trasferirsi per amore in un posto che non era il suo, diecianni come la porta lasciata socchiusa quando se n’è andata. Io sapevo che, in un giorno lontano di primavera, sarebbe ritornata. Ho aspettato nel più tremendo silenzio.


Io l’ho vista sbucare in abito bianco verso di me, raggiante e felice come una principessa scalza di altri tempi, in punta di piedi e senza clamori, perché una promessa d’amore non fa rumore al cospetto di Dio. Io l’ho vista farsi impavida viaggiatrice dall’altra parte del mondo, nel quinto continente, nei 40 giorni del “viaggio dei viaggi”, il nostro, quello che ha ridisegnato le tappe della nostra vita insieme tra dune bianche, koala, wallaby e quokka, sterminati deserti rossi, barriere coralline, mescolanza con Aborigeni e Maori, voli e navigazioni, oceani.
Diecianni come la crescita insieme sconfiggendo paure e insicurezze, diecianni come le nostre diversità e visioni della vita contrastanti, diecianni come le radici del nostro Sud comune attaccate per sempre alla quercia della vita.


Io l’ho vista prendersi cura amorevolmente del padre nella Genova di Fabrizio De André, farsi in quattro per realizzare il sogno di una casa nuova che prendesse le sembianze delle nostre anime, impacchettare (per amore) migliaia e migliaia di vecchi dischi e souvenir di viaggio da ogni angolo del pianeta, commuoversi all’ombra della Madonnina su un tramonto che accendeva Milano di rosso. Io l’ho vista uscire di casa prima dell’alba per attraversare la Lombardia e correre dai suoi bimbi in un asilo nido di provincia, rincasare la sera con le borse della spesa mentre ero ammalato.
Diecianni come i suoi occhi lucidi davanti alle lapidi gelide dei soldati mandati a morire nella Grande Guerra, diecianni come il futuro che innalza la vita insieme alla pagina di un romanzo, diecianni come il suo stupore per la bellezza delle Alpi sulla strada delle fughe piemontesi verso il Lago Maggiore o il suo “friccico” per i preparativi natalizi tra addobbi e piatti della tradizione da lei preparati.


E lei che il 9 novembre di dieci anni fa, nel giorno del suo compleanno, pensava di aver baciato il principe azzurro, si è ritrovata, prima come fidanzato e poi come marito, “un principe scugnizzo” ribelle e vagabondo, strafottente e romantico, che ha fatto della libertà l’asfalto della strada per attraversare la vita tra cadute e risalite.
Diecianni come gli errori commessi perché gli esami non finiscono mai per chi vuole imparare ad amare, diecianni come il bello e il cattivo tempo di questa incredibile storia d’amore, diecianni come i sogni di un ragazzo e una ragazza della periferia di Napoli.

10 anni, oggi 9 novembre, di me e Luisa, una carezza nel cosmo dell’eternità.

Perché ci piace Imma Tataranni, il Sostituto Procuratore numero uno della tv

Nell’affollato mondo delle fiction televisive – il più delle volte sbadigliamo per le somiglianze dei protagonisti in circolazione – Imma Tataranni è una ventata di freschezza. Il Sostituto procuratore, nato dalla penna lucana di Mariolina Venezia, è entrato nel cuore di tutti noi grazie all’interpretazione brillante di Vanessa Scalera. Dopo la prima puntata dell’attesissima seconda stagione, perché continua a piacerci la Tataranni?

LA TATARANNI SDOGANATA DA MONTALBANO

Imma Tataranni è la prima fiction del genere a sdoganarsi completamente da Montalbano, tenendosi distante dalle trappole dello scimmiottamento del commissario siciliano del raffinato Camilleri.
Il Sostituto Procuratore lucano è unico, con il suo carattere, le sue nevrosi, il suo mondo lavorativo e quello privato che mischiano le carte della vita di ciascuno di noi. L’autenticità di Imma Tataranni si insinua nel passaggio con disinvoltura dal luogo del delitto di una delle sue indagini al ferro da stiro nella doppia anima di femme du ménage, dai sospiri dopo un incontro con Calogiuro al tenero caffè in compagnia della mamma inghiottita da vuoti di memoria, dallo sbattere i pugni in casa da brava “mamma e moglie con i pantaloni” alla guerriglia contro il maschilismo del Procuratore Capo Vitali.

SINCERITÀ E EMANCIPAZIONE DI UNA DONNA DEL SUD

Se i profili social hanno disincentivato la nostra sincerità a stare a passo con i tempi, il personaggio femminile di questa fiction tv è uno specchio per ritrovare noi stessi. L’emancipazione di Imma Tataranni affonda il carrierismo sfrenato e cartonato per germogliare nelle sue radici di donna del Sud che impasta passato e modernità, che guarda avanti sapendo quale sia il momento giusto per voltarsi indietro.
Imma sa prendersi poco sul serio e abbattere con ironia tagliente i luoghi comuni, il provincialismo, il bigottismo, il vivere per apparire, con la consapevolezza che “cambiare vita” non si riduce alla fuga estemporanea dalla routine.

VANESSA SCALERA E LA MASCHERA TRAGICOMICA

Il bagaglio teatrale di Vanessa Scalera, l’attrice pugliese protagonista, ha contribuito alla costruzione e al successo del personaggio televisivo della Tataranni. La mimica facciale impeccabile, i tic, i movimenti puntellati del corpo fanno del Sostituto Procuratore una maschera tragicomica dei nostri tempi: la Scalera è un’attrice che da un palcoscenico a un altro è inciampata in Sofocle, Čechov, Brecht, Sartre, Shaffer e sa come scardinare il suo personaggio attraverso siparietti che virano verso l’esistenzialismo.
Sappiamo bene quanto un personaggio nato dalle pagine di un libro fatichi a spiccare il volo sul piccolo o grande schermo. L’immaginazione sconfinata da lettore cozza con un personaggio confezionato e servito allo spettatore. Qui non c’è solo il colpo della sceneggiatura, della regia a volte persino troppo calligrafica, ma l’arguzia e la bravura attoriale di Vanessa Scalera, misto di tecnica e talento, creatrice di uno dei personaggi che resterà nel cuore degli spettatori per tanto tempo ancora.

MARKETING TURISTICO

La fiction di Imma Tataranni ha rafforzato il marketing turistico sviluppatosi istintivamente con l’exploit del Commissario Montalbano da vent’anni a questa parte. Pensiamo a quanti angoli della Sicilia sono stati presi d’assalto dal turismo di massa per visitare dal vivo il set naturale del loro beniamino.
Dopo il Lago di Braies di Un passo dal cielo, la Spoleto di don Matteo, l’Assisi di Che Dio ci aiuti, la Roma dei R.I.S., la Napoli dei Bastardi di Pizzo Falcone, di Mina Settembre e del Commissario Ricciardi, la Bari vecchia di Le indagini di Lolita Lobosco, la Trapani di Maltese – il romanzo del commissario, adesso tocca a Matera e alla Basilicata di Imma Tataranni.
Un pezzo meraviglioso dell’Italia dimenticata, dopo Matera sul podio di Capitale della Cultura 2019, potrebbe diventare la destinazione del prossimo viaggio. Che cosa ne dite di trovarvi sotto casa della Tataranni a bere un buon caffè? Potrebbe essere l’occasione di una mini vacanza a curiosare tra quelli che sono i set della fiction che ha come protagonista uno dei personaggi più amati della televisione.

I 35 anni di Dylan Dog, la dedica di Angelo Stano e “l’incubo” della vecchiaia

Mi sono sentito come la protagonista di Misery non deve morire di Stephen King quando “sequestrai” scherzosamente Angelo Stano, disegnatore del primo numero di Dylan Dog. Dopo l’intervista a Milano nel 2003 gli chiesi un ritratto dell’Indagatore dell’Incubo più famoso della storia del fumetto. Oggi 26 settembre quel disegno con dedica, che giace come una reliquia su una parete di casa, è per me una sveglia del tempo: Dylan Dog compie 35 anni.

L’INCUBO DELLA VECCHIAIA

Scatta “l’incubo della vecchiaia” per la mia generazione? Il personaggio da letteratura a fumetti di Tiziano Sclavi, snobbato fin da “L’alba dei morti viventi” dagli intellettuali del tempo, ha seminato tra le strisce bonelliane una costellazione di profezie.
E se per noi adolescenti di allora, assidui frequentatori di edicole e fumetterie, bussa alla porta con trepidazione il timore del tempo fuggiasco, anche per chi non avesse mai preso in mano un albo di Dylan Dog, non c’è via di scampo.

INCUBI E PAURE NELL’IMMAGINARIO COLLETTIVO

La penna abile di Sclavi ci ha anticipato nelle storie, sul filo del rasoio tra fantasia e realtà, gli incubi e le paure dissipate nell’immaginario collettivo in un lungo lasso di tempo. Dylan Dog e l’inseparabile assistente Groucho sono stati uno specchio infrangibile per 35 anni, una sorta di sfera di cristallo in cui scorrere le nostre fragilità di cui prima o poi avremmo pagato il conto.
Dalle pagine benedette da un grande editore, il compianto Sergio Bonelli, è rimasto intanto il senso di sospensione – tra l’altro un punto di forza di ogni singola storia – che poi si riversa immancabilmente nelle vite di ciascuno.

Niente è definito, proprio come gli incubi di Dylan e di tutti noi.

Il Dylan Dog disegnato da Angelo Stano a Milano nel 2003 dopo la mia intervista.

Gabriele, il primo anno di vita non si scorda mai…

Il primo anno di vita non si scorda mai, anche se crescendo sembra che la memoria abbia seppelito questi preziodi dodici mesi in chissà quale abisso dell’anima. Che fai ti giri nella culla, Gabriele?
Hai ragione, è presto, sono venuto a svegliarti mentre tutti dormono. No, non siamo sulla spiaggia di quest’estate, ma nel tuo luogo natale, in quelle valli del vicentino che fanno del paesaggio veneto l’albero genealogico della tua famiglia.

Il primo anno di vita non si scorda mai, Gabriele. Tieniti alla larga da chi vuole darti ali di cartone, come quei poveracci che si spostano da una zolla d’Italia all’altra e sognano figli eroi e supersonici, poliglotti, sottomettendosi ai riti dei nuovi luoghi, che mai apparterranno loro.


Impara il dialetto della tua terra perché è l’idioma della tua gente, delle tue radici che hanno gambe e vogliono correre. Impara a far danzare le consonanti e le vocali del nostro italiano per comporre i nomi di mamma e papà, che con lo zampino di Dio ti hanno messo al mondo e ti aiuteranno a crescere in questa vita.

Accarezza il viso dei nonni perché le loro meravigliose rughe indicano le vie, i percorsi dei sacrifici per allevare chi c’era prima di te. Sali sulle spalle di tua nonna per guardare il viso stanco degli operai all’uscita delle concerie, prima del tramonto, e il loro sollievo nell’attesa di abbracciare i propri figli.

Chiedi a tuo nonno una vecchia carta geografica e guarda all’essenza del mondo non come fanno i turisti di oggi, ma con gli occhi di uno dei più grandi viaggiatori di tutti i tempi, il tuo compaesano Marco Polo.
Chiedi ai tuoi zii di cucinare, sulle orme di un’antica ricetta tramandata, uno dei piatti che, attraverso sapori e retrogusti, ti faccia tenere nel palato il tuo Veneto.

Allenati ad emozionarti, a vedere danzare i sogni, e quando un giorno finirai tra le braccia di quella donna che sarà tua per sempre, allora tornerà a galla, come in una leggenda d’amore, questo tuo primo anno di vita. Non è un incantesimo, si chiama amore ed è la bussola della nostra esistenza.

Gabriele, che viaggio ricco di sorprese sarà questa vita, presagio dell’immensità.

Interno giorno. Buon compleanno, Massimo

Mentre aspetto Massimo mi perdo nel labirinto di un archivio tra libri, film, ritagli di giornale. Ecco le foto, quelle che cercavo: all’Arci, a lezione, nelle battaglie civili, in bianco e nero negli anni delle contestazioni studentesche, delle lotte sindacali, in viaggio verso il Sudamerica, con un occhio di riguardo, fisso, verso i più deboli, mano nella mano con la sua donna, papà premuroso con i figli.

INTERNO GIORNO

Ah, eccoti. Sapevo che saresti venuto. Ti stupisce che sia passato a trovarti nel giorno del tuo compleanno? Gli uomini sono stolti quando ribadiscono che i compleanni prima o poi finiscono. No, durano all’infinito perché la nascita di ogni essere umano va ricordata senza remora temporale. E poi le nostre vite, Massimo, sono legate le une alle altre come il filo di un gomitolo di lana. Pensa alla mia se non ti avessi conosciuto? Sarei rimasto intrappolato nei film ingurgitati con la passione da ventenne.
Grazie alla tua amicizia e alle tue lezioni tutte quelle sceneggiature messe in fila sono diventate il grandangolare con cui osservare la vita.

Ti spiace se abbasso la tapparella? Non so perché ma in questo posto mi acceca la luce del sole. Ah, dici che è meglio uscire fuori sul terrazzo?

ESTERNO GIORNO

Avevi ragione, qui si sta bene. Da qui si vede tutta la Laguna, laggiù Malomocco e la casa di Corto Maltese, il Lido di Venezia dove trasformammo il sogno di “Villaggio Globale” in tanti corti. Massimo, da quante persone sei riuscito a farti voler bene. In realtà sembra la cosa più facile del nostro mondo, ma dire “ti voglio bene” è complicato perlopiù. Forse perché temiamo che l’altra persona lo reputi un atto tremendamente infantile o rimandiamo soggiogati dal pudore, puntando a chissà quale momento migliore. Non è una fragilità dirlo, ad alta voce, è una liberazione verso chi ci sta davvero a cuore.

Volevo portarti un regalo di compleanno, ma il portiere al piano terra mi ha detto che non potevo. In realtà mi ha ricordato che il regalo me lo avevi fatto tu indicandomi nel sogno dell’altra notte la strada per venire a trovarti. E’ come se avessi perso il conto del tempo salendo in ascensore. La lunga salita mi ha stordito.

INTERNO NOTTE

Da piccolo avevo paura del buio. Mio padre mi rassicurava e mi indicava il punto luce nel fondo della stanza. Non dovevo arrendermi. Stropicciando gli occhi dal punto luce vedevo la proiezione di un’ombra. Ora capisco, eri tu, sei stato l’ombra di papà. Ecco sono venuto a dirtelo.
Ho avuto la fortuna di avere un papà biologico meraviglioso a cui devo tutto, ma tu sei stato per certi versi la continuazione. Quando quella volta mi mise su un treno regionale Napoli-Roma per venire da te, papà instaurò una congiutura tra lui e te: avevate tante battaglie in comune perché sapevate il prezzo del futuro.

ESTERNO NOTTE

E’ arrivato il momento di spegnare le candeline. Come, qui non ci sono candeline? Ah, capisco qui soffiate sulle stelle. Massimo, ho impiegato 48 anni e ora mi è tutto più chiaro: l’accensione e lo spegnimento delle stelle ad intermittenza non è un effetto ottico, ma l’indicazione che da voi quassù qualcuno stia spegnendo le candeline di compleanno. Non si finisce mai di imparare.
Massimo, Massimo, Massimo. Lo senti il suono del carillon nell’angolo? Quello è un motivetto conosciuto… non mi vengono in mente le parole, qui da te confondo tutto. Ah sì, eccole…

Alice guarda i gatti e i gatti guardano nel sole

Mentre il mondo sta girando senza fretta

Lo canticchierò guardado negli occhi la tua nipotina Alice, appena avrò la gioia di conoscerla, e le dirò che sei il nonno più orgoglioso dell’universo. Massimo guarda, nella tasca del jeans c’è finita una candelina…Aspetta l’accendo, perché tu sei stato e sei un punto di riferimento nella vita per tanti di noi.
Ora vado, mi sembra di sentire sulla spalla la tua mano proprio come il giorno in cui sei partito. Aiutami a trovare la strada del ritorno.

Massimo, ho deciso. Verrò a trovarti il 4 settembre di ogni anno e il tuo compleanno sarà un pretesto per dare continuità al nostro dialogo. Ora vado…

Buon compleanno, Massimo.

Ciao Giacomo, compagno di classe per sempre

I banchi del vecchio Liceo Imbriani di Pomigliano D’Arco, alla periferia di Napoli, custodiscono incisi nel legno i nostri nomi, Giacomo. Un compagno di classe resta per sempre e tu lo sai bene.
A quasi 30 anni dalla Maturità della nostra III F, che ci eravamo ripromessi di festeggiare alla grande, non è cambiata una virgola nel nostro legame nato negli anni di scuola.

TRA LA SALSEDINE DEL MARE E LACRIME SALATE

I sogni, le bravate, le lezioni condivise, la vita di allora sono sulla via che portava al liceo perchè come diceva Heinrich Böll “Forse non è a scuola che impariamo per la vita, ma lungo la strada di scuola.
Giacomo, in questa maledetta domenica di fine agosto la salsedine del mare si confonde con il sale delle lacrime. Quando bisognava organizzarsi per rivedersi eri sempre pronto e così mi hai scritto tanti anni fa:

“Rimpatriata? Magari. La voglia di rivedervi tutti è davvero tanta.”

Sbobbino e sbobbino ricordi, si attorcigliano sul nastro del vissuto, sono tanti, sono troppi. Sbucavi con la videocamera, partiva il REC, mi piazzavi a fare l’intervistatore, sei sempre stato un’archivista della memoria e sapevi in anticipo che quei giorni spensierati sarebbero stati una delle tappe più belle in questo viaggio incredibile che è la vita.

UNA RADICE DELL’ALBERO DELLA NOSTRA VITA

Giacomo, se dicessimo “i migliori anni della nostra vita” peccheremmo di fottuta nostalgia , se diciamo invece una radice dell’albero della nostra vita piantiamo la speranza di ritrovarci, da qualche parte, nell’universo.
Singhiozzo e scrivo, ho tirato fuori il disco di Elton John Live in Australia. Fino ad allora ero abituato ai vinili, tu mi hai mostrato per la prima volta un CD. Lo avevi portato dall’America e in quel momento non so perché le canzoni di “Rocket Man” sono entrate con prepotenza nella mia vita, all’alba degli anni ’90.

DON’T LET THE SUN GO DOWN ON ME

Gli Stati Uniti sono stati la tua seconda casa e, quando ci vedevamo al Parco Arcadia a Pomigliano insieme a Valeria, Marina e Sandro, me li facevi vivere a distanza attraverso i tuoi racconti. Il mio viaggio a New York nel ’92, subito dopo la Maturità, non ho potuto fare a meno di condividerlo con te: Giacomo, tu sapevi che per me era stato come sbarcare sulla luna.
Giacomo, mi senti? Ho ancora la vecchia musicassetta registrata da un tuo CD. George Michael e Elton John stanno cantando per te Don’t Let the Sun Go Down on Me, uno dei tuoi brani preferiti. Il volume è altissimo come le voci di tutti i compagni della III F dell’anno scolastico 1991/1992. Non finiremo mai di dedicarti un pensiero. Tu continua a regalarci il tuo sorriso sornione e la voglia di vivere.

Adesso capisco perché stanotte non riuscivo a dormire. Mi mancava il respiro. Era il tuo, era il nostro, compagni di scuola per sempre. Ti voglio bene.