Freddie Mercury, 30 anni senza The Great Pretender

È come se oggi fosse ieri, the day after il 24 novembre 1991 all’entrata di un liceo di periferia, un fottutissimo lunedì accompagnato dallo scazzo di inizio settimana, poco dopo le 8 del mattino il titolo sul giornale “È morto Freddie Mercury”. Il Mattino di Napoli da Giacomo e Alessandro passò nelle mie mani, poi in quelle di Lilli, Annamaria, Sara, Valeria e Cinzia, infine in quelle di Tiziano, Rachele, Claudio, Gennaro, Loredana, Tiziana. Noi compagni di classe, prima che la maledetta campanella ci mandasse alla gogna delle interrogazioni da maturandi, ci guardammo negli occhi come per dire non è possibile che la “Regina dei Queen” se ne fosse andata così.

FREDDIE, URLO DI LIBERAZIONE

Prima ancora dei cortei Arcobaleno, prima ancora che il coming out mandasse alla deriva il neologismo che era in lui, prima ancora che le lobby dei gay facessero a scazzottate ai piani alti del potere, Freddie Mercury ha fatto della sua omosessualità un autentico urlo di liberazione, mandando a fanculo ipocrisie, vessilli perbenisti.
Si è rinchiuso e si è aperto sullo scivolo delle fragilità di essere umano. Il suo alter ego di sangue parsi, Farrokh Bulsara, ha fatto di tutto per fuggire dal ghetto a cui erano destinati i figli degli immigrati indiani nei sobborghi londinesi degli anni ’70.

FREDDIE E LONDRA, IL VICINO DI CASA CHE VORREMMO

Quando ho messo piede a Londra nell’estate del 1988 – non avevo compiuto ancora quindici anni e mi sembrava di essere sbarcato sulla luna – Freddie non aveva rivelato di essere ammalato di AIDS, la brutta bestia degli anni del riflusso.
Per tutti noi che passavamo lì, la voce di Bohemian Rapsody poteve diventare da un momento all’altro il vicino di casa stravagante ed eccentrico che tutti abbiamo sognato di avere una volta della vita. Me lo hanno confermato anni dopo i suoi vicini di Kensington, quando la casa di Freddie Mercury si trasformò in meta di pellegrinaggi furibondi.

1991-2021, GLI DEI DELLA MUSICA SFIDANO L’ETERNITÀ

Trent’anni senza Freddie Mercury rappresentano un incolmabile vuoto nella traviata scena musicale contemporanea: l’indiscusso leader dei Queen è stato una delle vocalità più intense del XX secolo, artista poliedrico, compositore da sterzate imprevedibili, impareggiabile animale da palcoscenico – pure Geldof ha dovuto ammettere che la sua esibizione a Wembely del 1985 ha fatto balzare in cima la raccolta fondi del Live Aid. Quando nel 2005 al Forum di Assago Brian May grattuggiò la chitarra per rendere omaggio all’amico, al musicista, al compagno di sventure, anche noi della stampa accreditata dovemmo riconoscere il legame trascendentale tra i Queen rimasti e Freddie Mercury, The Great Pretender, perché gli dei della musica sfidano l’eternità.

Oggi 24 novembre, trent’anni dopo, The Show Must Go On e non c’è regina che tenga neanche a Buckingham Palace. L’unica “Regina” indimenticata ed eletta dal popolo resta Freddie Mercury, a cui dedichiamo un soffio del cuore della sua ballata Love of My Life.

STILL LOVE YOU.

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