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Pink Floyd at Pompeii, l’atteso disco sospeso nel futuro

Pink Floyd at Pompeii è il disco atteso da una vita. Per la prima volta dopo quasi cinquant’anni la puntina del nostro giradischi solca il doppio vinile dell’audio completo dell’esibizione senza pubblico di Gilmour e compagnia bella nella nostra Pompei archeologica.

IN VETTA ALLE CLASSIFICHE TRA VINILI, CD E BLU RAY

L’album, con il nuovo mix di Steven Wilson, è in vetta alle classifiche italiane con la vendita dei supporti tradizionali – vinile, cd e blu ray – che qualcuno vorrebbe lasciare in soffitta. Proliferano ancora gli affari d’oro per la premiata ditta londinese, orfana di Barrett e Wright, in preda agli eterni litiganti Gilmour e Waters.
In parte con questo disco l’audio, in piena autonomia, si libera dalle grinfie della colonna sonora del film concerto del 1972 diretto da Adrian Mabenn, il cui restauro in alta definizione è stato il cavallo di Troia del marketing discografico per riportare i Floydiani incalliti, inclusi i meno giovani e gli sbarbatelli, nelle ormai semivuote sale cinematografiche.

PROFEZIA VISIONARIA IN UN GIAVELLOTTO LANCIATO NEL TEMPO

Perchè dopo tutti questi decenni è ancora un successo? Pink Floyd at Pompeii MCMLXXII rimane profezia visionaria, installazione multimediale tra musica e arte contemporanea del ‘900. Oggi è un giavellotto nel tempo, arrivato dai lontani anni ’70 fino ai giorni nostri con un restauro che fa brillare ogni suono.
E’ come il monolite kubrickiano di 2001 Odissea nello spazio che, sospeso nel tempo, guida il cammino dell’umanità contemporanea tra paure, fragilità, disillusioni.

PINK FLOYD AT POMPEII, PREMONIZIONE DELL’ORRORE PANDEMICO

Il mix incisivo di Steven Wilson è la ciliegina sulla torta: i suoni ritrovano la loro profondità e soprattutto quella spiritualità dei musicisti in solitudine nel flirt remoto con l’archeologia, che sancisce l’unicità della esibizione nell’anfiteatro pompeiano.
Dopo uno sciame di bootleg e tracce a spizzichi e bocconi, abbiamo dovuto aspettare più di cinquant’anni per avere, in uno splendido disco restaurato e ufficiale, l’happening del ’71 dei Pink Floyd nella zolla archeologica più potente della storia, suonato in solitudine, senza pubblico, quasi una premonizione dell’orrore pandemico a cui nessuno è stato sostratto su tutto il pianeta, inclusi gli artisti.
Pink Floyd at Pompeii è una sfera di cristallo e ogni generazione può trovarvi scritto il destino comune: provare ad alleviare gli affanni dell’esistenza con la grande musica del ‘900.

Lucio Corsi sfida all’Eurovision gli stereotipi dell’italianità di Tommy Cash e Gabry Ponte

Lucio Corsi dal podio di Sanremo 2025 è pronto per rappresentare l’Italia all’Eurovision Song Contest di Basilea. Il vincitore Olly aveva rinunciato passando il testimone al cantautore rivelazione dell’Ariston, che ora dovrà vedersela con il protocollo ristretto della manifestazione: rinuncerà alla sua inseparabile armonica?
Dalla provinciale Maremma il menestrello toscano, con la faccia truccata a metà tra Bowie e il Dylan del Rolling Thunder Review, canterà la sua Volevo essere un duro, title track dell’omonimo album uscito lo scorso marzo.

IL CANTAUTORATO ITALIANO DUELLA CON GLI STEREOTIPI DI TOMMY CASH

Lucio Corsi, dopo il duetto con Topogigio che ha spopolato in rete, ha tutte le carte in regole per fare breccia nel cuore del pubblico dell’Eurovision e mandare di traverso all’estone Tommy Cash il suo Espresso macchiato.
Sì, perché il principino dell’hip hop ed elettronica dell’Europa baltica tirerà un colpo basso all’Italia, presentando una canzone inzuppata di luoghi comuni a danno del Belpaese:

Mi like to fly privati with twenty-four carati
Also mi casa very grandioso
Mi money numeroso, I work around the clocko
That’s why I’m sweating like a mafioso

Mischiando inglese e un italiano imbecillemente maccheronico, il rapper dell’Estonia schernisce l’Italia con l’abusato stereotipo di “pizza, mafia e mandolino”. Il Belpaese si indigna, dimenticando che Tommy Cash non è né il primo né l’ultimo.

TUTTA L’ITALIA E IL TORMENTONE DEI LUOGHI COMUNI

Non da meno è il tormentone sanremese Tutta l’Italia di Gabry Ponte che sbarca sul palco dell’Eurovision Song Contest con l’escamotage di rappresentare “lo staterello” di San Marino. Una mischia di luoghi comuni su quattro accordi che funzionano bene, facendo ballare tutti senza badare al significato del testo:

Tutta l’Italia, Tutta l’Italia, Tutta l’Italia

Il calcio lo prendono a calci
La Mole che fa degli stracci
Cucina stellata di avanzi beati
Santissimo Craxi

E così tornano a galla i fantasmi della Prima Repubblica, come se poi noi fossimo condannati ad essere soltanto corruzione, scandali da rotocalchi, fottutissima décadence. Ci teniamo stretti al ricordo orgoglioso di avere avuto un Presidente della Repubblica “partigiano” e piuttosto mastichiamo i cliché della mia generazione tra il “buongiorno Italia col caffè ristretto” di Toto Cutugno e “il bicchiere di vino e il panino” di Felicità di Albano e Romina.

A difenderci da questa balorda smania di stritolare l’Italia nello stereotipo odioso ci penserà Lucio Corsi, paladino dei cantautori emergenti senza troppi grilli per la testa: “Vivere la vita è un gioco da ragazzi Io, io volevo essere un duro Però non sono nessuno Non sono altro che Lucio” è l’encomio di tornare a essere noi stessi, vincenti nella vita, perdenti sul palco dell’Eurovision Song Contest. E anche se fosse, chissenefrega!

Sanremo Rewind in 5 canzoni anticonformiste

IL Festival di Sanremo è sempre stato caratterizzato dalla melodia fin dalla sua età della pietra. Eppure il Belpaese “canzonettaro” ha barattato il suo cliché melodico con l’anticoformismo. I tempi erano davvero maturi per captare le canzoni ribelli sottopelle?
Il tempo è galantuomo anche con i brani anticonvenzionali e così accade che facendo un rewind sanremese ritroviamo piccoli gioielli. Queste 5 canzoni anticonformiste lo sono anche per voi?

PAPAVERI E PAPERE

Il Festival di Sanremo si ascolta ancora alla radio quando salta fuori Papaveri e Papere, brano interpretato dall’allora reginetta della canzone italiana Nilla Pizzi. Siamo nel 1952, l’Italia si avvia sulla salita del Boom economico con ancora lo spettro della bombe della passata guerra. Panzeri, Rastelli e Mascheroni ci regalano la prima canzone davvero anticonformista della storia sanremese.
Altro che la favoletta dall’incipit scherzoso “Su un campo di grano che dirvi non so Un dì Paperina col babbo passò.” Dietro la melodia allegra si nasconde una satira feroce contro il potere politico di allora, incarnato dalla vecchia Democrazia Cristiana. I “papaveri alti” sono gli uomini del presidente del sesto governo De Gasperi e “le papere” tutti quelli sottomessi al potere. La canzone ottiene un successo strepitoso. In tanti non colgono il vero significato tanto che la censura feroce della vecchia Balena Bianca resta a guardare, o quasi.

CIAO AMORE CIAO

Il Festival di Sanremo del 1967 è sotto choc alla notizia del suicidio di Luigi Tenco dopo l’eslusione del suo brano Ciao amore ciao. Questa volta l’anticonformismo di polso del cantutore genovese è tutto in una canzone in cui si esplicitano la voglia di cambiamento, l’irrequietezza di una generazione e la consapevolezza di mollare la propria donna per una nuova vita: “Andare via lontano A cercare un altro mondo Dire addio al cortile Andarsene sognando.”
Il festival di allora viaggia sulle onde di sentimentalismi in stile Io, tu e le rose cantata da Orietta Berti. Tenco è troppo avanti, ha una sensibilità cantautoriale più contemporanea e ci vorranno decenni e decenni prima di dare il giusto valore a questo piccolo capolavoro.

GIANNA

Il Festival di Sanremo del 1978 si veste dell’anticonformismo di Rino Gaetano e della sua Gianna che “sosteneva tesi e illusioni, prometteva pareti e fiumi, aveva un coccodrillo e un dottore, non perdeva neanche un minuto per fare l’amore.”
Un inno sfrontato alla liberà femminile e strafottente dei luoghi comuni che fa balzare l’album da cui è tratta, Nuntereggae più, in vetta alle nostre classifiche.
Eppure dietro la canzone del cantutore crotonese, che fa tremare il palco dell’Ariston, si nasconde una girandola di interpretazioni. C’è chi vorrebbe Gianna semplicemente come manifesto della libertà sessuale, chi invece la innalza a simbolo dell’ipocrisia politica e alla sua corruzione o chi la elegge a rappresentare di chi non rinuncia alle ideologie illusorie. Nel testo ironico di Rino Gaetano alcuni vedono allusioni al vecchio potere della massoneria in Italia.

VITA SPERICOLATA

Al Festival di Sanremo del 1983 nessuno scommette una cippa su Vita spericolata, senza capire che la canzone Vasco è destinata a diventare l’inno di una generazione: “Voglio una vita che non è mai tardi Di quelle che non dormi mai Voglio una vita, la voglio piena di guai.”
L’anticonformismo del Blasco, sulle onde di un rock grezzo e provinciale, non attecchisce su critica e platea dell’Ariston, ma si fa strada piano piano. Attraverso l’urto delle onde radiofoniche sprofonda nell’immaginario di una generazione che riconosce nel rocker di Zocca il suo paladino.
Nel 1992 la canzone ottiene un bel riscatto ed è riconosciuta persino dalla vecchia guardia del cantautorato genovese. Infatti, Gino Paoli chiude il suo brano Quattro amici con l’inciso di Vita spericolata dove interviene la voce dello stesso Vasco.

LA TERRA DEI CACHI

Il Festival di Sanremo del 1996 è sconvolto da La terra dei cachi. L’anticonformismo di Elio e le Storie Tese è demenziale tra musica rocchettara e testo irriverente, mancando per un pelo il podio dell’Ariston. Nel bel mezzo della Seconda Repubblica, dopo il terremoto di Tangentopoli e la fine della Prima Repubblica, quale Italia ci resta tra le mani? Quella dei “Parcheggi abusivi Applausi abusivi Villette abusive Abusi sessuali abusivi Tanta voglia di ricominciare, abusiva.”
Si ride per non piangere con il rock demenziale di Elio e compagnia bella, tanto si sa che il Belpaese dobbiamo tenercelo così. Si facciano avanti delusioni, omissioni, indignazioni, nuovi santi corrotti, melodrammi dei giorni nostri. Il nonsense fa la sua parte in pieno stile zappiano e il brano continua a brillare nella costellazione del Sanremo off: “Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè C’è un commando che ci aspetta per assassinarci un po’.

30 anni senza Frank Zappa in oltre 120 dischi tra rock e avanguardia

Frank Zappa ce lo portò via il 4 dicembre 1993. Noi studenti universitari di allora piangemmo la dipartita prematura del genio musicale del XX secolo per un tumore alla prostrata. Frank in realtà ci beffò tutti perché aveva lasciato in buone mani un archivio stratosferico di registrazioni, inclusi sorprendenti inediti, che gli avrebbero allungato la vita.
30 anni senza FZ? Macché, con tutto questo bendidio che abbiamo ascoltato decennio dopo decennio è come se lui fosse ancora lì, rinchiuso nel bunker di registrazione con le sue Mothers of Invention.

DAL LABIRINTO LETTERARIO DI JOYCE A QUELLO MUSICALE DI FRANK ZAPPA

A vent’anni ero troppo beatlesiano per andare oltre la coltre degli album più digeribili di Zappa come Apostrophe (‘), Overnight Sensation e Grand Wazoo. I quarant’anni, nel mezzo del cammin di nostra vita vagabonda, mi resero zappiano ortodosso. Il labirinto musicale della sua opera complessa mi illuminò come aveva fatto quello letterario dell’Ulisse di Joyce durante i giorni ribelli dello “studio matto e disperatissimo” di gioventù.
Del resto gli album di Zappa sono stati complici del mio giro del mondo in una vita di viaggi spericolati. Da Dussmann a Berlino mi trovarono in chiusura, a tarda sera, addormentato su una poltrona, con tanto di cuffia, ad ascoltare Civilization Phase III, l’album di inediti uscito postumo alla morte. All’aeroporto londinese di Gatwick restarono sconcertati al check in per i panni sporchi in un sacchetto perché il minuscolo bagaglio a mano era occupato da vecchi vinili di Zappa scovati a Londra. Senza dimenticare le tiepide mattinate canadesi in un vecchio negozio di Toronto alla ricerca degli introvabili CD pubblicati oltreoceano dalla Ryoko Disc. Poi la Zappa Records firmò un accordo milionario con la Universal per riordinare e ripubblicare tutto l’ambizioso catalogo, rendendoci la vita più semplice (o quasi) ma non per le nostre tasche.

FRANK ZAPPA, INCARNAZIONE DELLA MUSICA


I sacrifici di una vita per raccogliere tutti i 127 dischi ufficiali, di cui oltre sessanta pubblicati postumi dalla famiglia negli ultimi trent’anni senza Frank, hanno indispettito la mia fidanzata di allora, oggi moglie rassegnata. Pensavo che non si sarebbe presentata all’altare quando scoprì che, per mancanza di spazio, avevo imboscato chili e chili di cd di Frank Zappa provenienti da mezzo mondo nei cassetti del comò, sotto la biancheria intima. Ne è valsa la pena?
Sì, perché Frank Zappa non è stato soltanto una virtuosa chitarra rock o l’ultimo antifricchettone convinto sulla coda del Novecento. Frank Zappa è stato l’incarnazione della musica, dal rock al blues, dal fusion al progressive, dal jazz alla classica, viva nella sua complessità e imperabilità tra le ispirazioni elettriche di Edgar Varèse, lontano dai clichè del divo o del rockettaro maledetto che per essere creativo deve fare uso di sostanze stupefacenti.
Per noi apostoli zappiani la sua opera complessa di andate e ritorni, al di là della circolarità della stessa opera d’arte, si è rivelata la filosofia della musica stessa. Genio, incompreso dalla miope industria discografica, è stato messo alle strette dalla censura e da quelle intimidazioni dei poteri occulti che però hanno scatenato effetti al contrario: la riconoscenza planetaria del talento di ricercatore e testardo avanguardista.

MUSICA, MAESTRO

Chissà cosa direbbe oggi il buon vecchio Frank, alla veneranda età di 83 anni, del nostro tempo brancolante nel buio tra il regime degli algoritmi e lo schiavismo dell’occhio del Big Brother orwelliano, tra guerre feroci, femminicidi e ipocrita buonismo, tra la smania collettiva di apparire nel mainstreaming e privarsi di tornare ad essere noi stessi nella quotidianità reale. Il vecchio saggio starebbe zitto, impugnerebbe la chitarra. E noi, oggi come allora, chiederemmo sottovoce: “Musica, maestro.”

Palestina Terrasonora

Viaggi e musica: Dalla Palestina di Faisal Taher alla periferia di Napoli dei Terrasonora

La musica può fare ancora tanto per unirci. La Palestina di Faisal Taher, classe 1959 ed emigrato in Italia nel 1986, si scioglie nelle sonorità di una delle band più affermate del “Niù Folk” del Sud Italia: i Terrasonora. Gennaro, Raffaele e Antonio Esposito, Antonello Gajulli, Gaia Fusco, Vincenzo e Davide Maria Laudiero ritornano sulla cresta dell’onda con Malevera, un brano convincente sui disagi della contemporaneità attraverso la metafora dell’erbaccia che può crescere dentro e fuori di noi.
Scritto a sei mani da Gennaro Esposito, Saverio Carpine e Davide Maria Laudiero, il testo e la musica di Malevera si nutrono del cartone animato del bravo Andrea Sirignano e della voce palestinese di Faisal Taher.

LA PALESTINA DI FAISAL

Il timbro vocale pacifico di Faisal mi riporta al viaggio in Palestina dell’anno scorso. Mi trovavo ad una sessantina di chilometri da Yabad, la sua città natale costretto a lasciare a 27 anni nel pieno del conflitto israelo-palestinese. Faisal assomiglia a Malik, uno dei protagonisti del video musicale di Malevera, immigrato in Italia alla ricerca di un futuro diverso. Quanti suoi coetanei rimasti lì non ce l’hanno fatta?
Non fu il capriccio di un giornalista l’ostinata discesa in Israele. Un autobus mi portò da Ascalona sulla Striscia di Gaza, pochi mesi prima che ricominciasse il palleggio delle bombe.
Era piuttosto la voglia di guardare all’orizzonte i territori visti nella tv dell’infanzia. Non ho mai smesso di contare i miei coetanei diventati angeli prematuramente mentre giocavano sotto quei bombardamenti tremendi.

LA PERIFERIA DI NAPOLI DEI TERRASONORA

Carmine, l’altro protagonista del video musicale di Malevera, rappresenta bene chi cerca di fuggire dalle tentazioni della malavita e dai ricatti della criminalità organizzata:

So’ lloro… so’ padrune ca se venneno ‘o sudore… Spaccianno ‘na speranza ca s’avota e so’ dulure. Malevera che cresce, Malevera dint’a ll’osse… Malevera è ccà… Malevera è ccà…

Le canzoni sanno essere dolorosamente profetiche senza guardare nella sfera di cristallo. I fatti di cronaca di questi giorni al Parco Verde di Caivano hanno riportato la periferia di Napoli nel ciclone mediatico.
Le parole e le musiche dei Terrasonora schiaffeggiano l’infamia e le mostruosità insidiate nel quotidiano. Malevera ci lascia una legittima speranza, la stessa che brilla nella Palestina di Faisal o nello sguardo luminoso del prete napoletano di frontiera don Maurizio Patriciello:

Ah! Fa’ ‘na grazia a sta gente, ca’nun tene cchiù niente: sulo ‘o mare ‘a guardà! Ah! Puorte dinto ll’addore, viento tocca stu’ ciore, ca’ me fa’ respirà!

La musica può fare ancora tanto, anche per smuovere dal torpore le nostre coscienze in qualsiasi parte del mondo, in una trincea di guerra così come in una zolla di terra di frontiera.

Marcello Colasurdo

Marcello Colasurdo, buddha del folk, ritornerà sul suo Monte Somma

Occhiali

cover foto di Jeanbruno Maccotta

In Messico mi arriva la notizia in piena notte: Marcello Colasurdo non c’è più. Faccio finta di niente fino al giorno in cui rientro in Italia. All’aereoporto di Milano Malpensa mi fermo sulla scaletta dell’aereo, il sole mi acceca e nell’abbaglio rivedo mio padre, all’alba degli anni ’80, che mi porta un vinile da una riunione sindacale alla periferia di Napoli.

TAMMURRIATA DELL’ALFA SUD TRA POMIGLIANO E LIVERPOOL

Allora andavo alle elementari, non avevo il giradischi per ascoltare “Tammurriata dell’Alfa Sud” del gruppo operaio di E’ Zezi e lo conservai con la promessa che da grande lo avrei fatto. Nel 1990 fu il primo vinile solcato dalla puntina del mio giradischi nuovo di zecca insieme a un vecchio disco dei Beatles trafugato in un mercatino londinese: Marcello, ‘E Zezi, il Vesuvio operaio di papà da una parte; John (Lennon), i Beatles, la Liverpool delle fabbriche buie della Gran Bretagna dall’altra.
Anni dopo questo passaggio all’Università, all’esame di Storia della Tradizioni Popolari, mi valse la richiesta di una tesi su Colasurdo e gli Zezi. La declinai, con rammarico, avevo già un progetto di Letturatura e Cinema nel cassetto.

COLASURDO L’ANTIDIVO

Nel ’95, prima dell’uscita di Marcello dagli Zezi, la redazione mi spedì ad un loro concerto memorabile. Ero alle prime armi. Al termine mi barcamenai tra la folla in delirio, conobbi Marcello, scese dal palco, mi abbracciò e mi disse: “Guagliò io non sono un maestro. Quando vuoi ci vediamo e facciamo una chiacchierata, ma senza quell’arnese (si riferiva al mio registratore a cassette)”. Non se ne fece mai niente. In quella notte all’ombra del Monte Somma, tra musica folk e tammorre, capii che quelle erano le radici di tutti noi messi assieme, giovani e meno giovani. Marcello Colasurdo è stato un punto di riferimento per tanti artisti del territorio e ciascuno gli deve qualcosa: da Enzo Avitabile a Daniele Sepe, da Eugenio Bennato ai 99 Posse.

IL FOLK DI MARCELLO DALLA FABBRICA ALLE LOTTE OPERAIE NEGLI ANNI DI PIOMBO

Le tammurriate di Marcello Colasurdo sono nate nei sotterranei di una fabbrica e chissà quanti benpensanti provinciali di allora erano convinti che il percorso musicale di ‘E Zezi sarebbe finito da lì a poco, inciampando in un gogliardico “dopolavoro operaio”.
Non è stato così e dal 1975, attraversando gli anni di piombo dei Paesi Vesuviani, la musica folk di Marcello ha accompagnato l’infanzia, l’adolescenza e la gioventù di quelli della mia generazione, che hanno visto la sanguinaria ascesa criminale di Raffaele Cutolo e della Nuova Camorra Organizzata fiancheggiata dalla mala politica dei papponi della vecchia e gradassa “Balena bianca”.

DEVOZIONE ANTICLERICALE TRA MUSICA E RELIGIOSITA’

Il folk di Marcello Colasurdo è stato un urlo contro il malaffare e la corruzione, una ricerca continua della libertà artistica e di pensiero, la musica che ha imbarazzato il clero bigotto dell’arretrata diocesi del territorio nolano, dilaniata da tanti rimorsi, inclusa l’orrenda fine dell’anticlericale Giordano Bruno, bruciato vivo come le streghe.
Marcello Colasurdo è stato un antieroe come se fosse, in quella fiseonomia baffuta, un discendente diretto dei Maya e degli Incas, valorosi combattenti ad oltranza contro il fanatismo dell’assassina Spagna cattolica. La sua devozione tra musica e religiosità a Mamma Schiavona, la Madonna di Motervegine, fu colta raramente dai prelati. Eccezione è stato don Peppino Gambardella, il prete scomodo e ribelle della diocesi all’ombra del Vesuvio, che di Colasurdo non ha mai smesso di elogiare sincerità, passione, autenticità.

MARCELLO, MARCELLO, MARCELLO

Scendo dalla scaletta dell’aereo. Piango. Tra un singhiozzo e un altro sento una voce chiamare: “Marcello, Marcello, Marcello.” Non è la voce felliniana della Ekberg che chiama Mastroianni ma quella soave della Madonna di Montevergine che accoglie tra le braccia il suo Marcello.
Oscar Wilde amava ripetere: “Siamo tutti in una fogna, ma alcuni di noi guardano le stelle.”
Marcello Colasurdo non ha mai smesso di guardarle e da “buddha del folk” ritornerà, prima o poi, sul suo Monte Somma.

Tina Turner, locandina film

Tina Turner e la stretta di mano che conservo nel cuore

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Tina Turner non c’è più. Non mi sembra vero perché la sua musica è stata la colonna sonora dei miei lunghi viaggi negli USA verso il mondo afroamericano. A lei mi lega un bellissimo ricordo, al Lido di Venezia, nella cornice della Mostra del Cinema di Venezia.
L’emozionante film Tina – What’s Love Got to Do with It di Brian Gibson, presentato in anteprima al Festival del Cinema di Venezia del 1993, mi illuminò sulle enormi sofferenze di questa donna afroamericana. Quanti di voi sapevano che dietro la voce da leonessa nascondeva i lividi e le ferite dei maltrattamenti dell’ex marito e partner musicale Ike Turner?

TINA – WHAT’S LOVE GOT TO DO WITH IT

Allora Tina Turner non è stata protagonista di un biopic costruito a tavolino, come accade in alcune effimere operazioni di marketing cinematografico dei giorni nostri. Tina – What’s Love Got to Do with It è stato un bel film tra musica e privato, tra palco e casa, che ha saputo raccontare una delle voci più graffianti del rock e della black music.
Nel dicembre 2005 un bus americano della Greyhound mi condusse da Nashiville a Memphis. Attraversando il suo amato Tennessee scorsi i paesaggi dell’infanzia e della giovinezza di Anne Mae Bullock, in arte Tina Turner, per chi l’ha amata spassionatamente semplicemente Tina. Il cinema stimola riflessioni acute e la musica diventa pane per i denti dei viaggiatori ammalati come me degli on the road.

TINA, TESTIMONE CONTRO LA VIOLENZA SULLA DONNE

Sono passati trent’anni esatti dalla proiezione in anteprima in Sala Grande del film dedicato a Tina Turner e su un punto voglio essere chiaro. Ai tempi non si parlava di femminicidio o si denunciava la violenza sulle donne con la disinvoltura dei giorni nostri. Tina – What’s Love Got to Do with It resta un titolo manifesto. Lo avevo guardato già in mattinata alla proiezione riservata a noi della stampa ma bissai la sera stessa, ritrovandomi con un gran regalo tra le mani.
A mezzanotte Tina Turner arrivò a sorpresa in sala e tutto il pubblico della Mostra del Cinema di Venezia le tributò un’interminabile valanga di applausi e standing ovation. I suoi bodygard non le davano un attimo di respiro.

QUELLA CAREZZA DELLA SERA

Le urlai: “Grazie, Tina. Che il tuo coraggio sia un esempio per tutte le donne che hanno paura di denunciare la violenza degli uomini farabutti e vigliacchi.” Lei si voltò, incrociò il mio sguardo da ventenne, fece cenno alle guardie del corpo e si avvicinò. Mi diede una carezza e mi strinse forte la mano.
Dal 1993 conservo ancora nel cuore quegli istanti. Ad accompagnare tanta vita dell’uomo cinquantenne che sono oggi, c’è stata anche la musica di Tina Turner, tra graffi e ferite, sofferenza e tanto coraggio. Il coraggio di continuare ad amare, nonostante tutto, sempre.

Pino Daniele, scudetto napoli

Napoli nel pallone tra canzoni di ieri e di oggi

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La febbre scudetto sta a Napoli come Napoli alle canzoni. La musica popolare accompagna da sempre la squadra partenopea e ci sono diversi brani che vanno ricantati da soli o in buona compagnia. Torniamo ad essere canterini sul balcone come nei mesi grigi del lockdown? Ho scelto quattro canzoni di ieri e di oggi per accompagnare il sogno azzurro.

OJE VITA, OJE VITA MIA

Oje vita, oje vita mia oje core ‘e chistu core
si’ stata ‘o primmo ammore e ‘o primmo e ll’urdemo sarraje pe’ me!

è il ritornello della famosa canzone napoletana ‘O surdato ‘nnamurato. Quante volte l’avete sentita cantare in coro senza aspettare la febbre scudetto del Napoli?
Scritta nel 1915 da Aniello Califano sulle musiche di Enrico Cannio, è un testo triste di cui il ritornello, cantato a squarciagola sugli spalti dell’ex San Paolo di Napoli, ne stravolge il significato. In realtà questa poesia musicata, che ha avuto interpreti d’eccezione come Anna Magnani e Massimo Ranieri, racconta della sofferenza di un soldato al fronte, durante la Prima Guerra Mondiale, per la lontananza dalla sua donna.

FORZA NAPOLI

Nino D’Angelo ha dedicato alla squadra azzurra la canzone Napoli, colonna sonora del film Quel ragazzo della curva B, uscito al cinema nel 1987 e ambientato nell’annata del primo scudetto. Versi come

Viecchie e giovani cercano rint’a nu pallone Nu poco ‘e pace nu juorno nuovo Ca se chiamma libertà

esprimono bene come i trofei siano un grande riscatto per tutta la comunità partenopea. Il brano è inserito nella discografia ufficiale di D’Angelo, comparendo all’interno dell’album Fotografando l’amore del 1986.

DA PINO A DIEGO

Tango della Buena Suerte di Pino Daniele, uscito nel 2004 all’interno del disco Passi d’autore, è un omaggio sottovoce all’ex capitano del Napoli Diego Maradona. Sotto le vesti di un tango e con venature malinconiche la canzone di Daniele fotografa bene la persona nascosta dietro al personaggio. In un certo senso è anche profetica rispetto alla morte prematura del campione argentino:

E a luci spente suona il tango
per magia resterà qui per sempre come un fermo immagine.

IL DIO DEL PALLONE IN UN RAP

Maradona è il titolo di una canzone di Geolier, contenuta nell’ultimo album Il coraggio dei bambini e pubblicata lo scorso gennaio. Il rapper di Secondigliano ha dedicato al Pibe de Oro un brano intenso in cui si sente forte la voglia di rinascita e di riscatto. Il dio del pallone in terra diventa così per Emanuele Palumbo l’interlocutore privilegiato nel nostro tempo complicato e pieno di contraddizioni:

Vogl duij rilog Dieg Armand Maradona
Tie vir bro vir che or song
Fat nu mlion rop lag mis aggir
E bast cu sti sold so volgare e so imbattibil
.

Copertina, The Dark side of the Moon, pink floyd

The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd in 50 anni di batticuore

Occhiali

Il 1 marzo 1973 The Dark Side of the Moon, uno dei dischi capolavoro dei Pink Floyd veniva alla luce mentre io sgomitavo ancora nel pancione di mamma per entrare in questa vita. Possibile che quest’album, che sembra arrivato da chissà quale galassia, abbia già 50 anni? Sì, perché il tempo ci passa sotto il naso ma l’arte può ricompensarci, cristallizzando il divenire e farci sentire immortali anche per il minuscolo tempo di una canzone.

DAL COSMO VERSO IL FUTURO

The Dark Side of The Moon, ovvero il Lato Oscuro della Luna, ha raccontato in musica attraverso il formulario del concept album il lato oscuro che si nasconde dentro di noi. La copertina geometrica di Thorgherson e Hardie, la rifrazione della luce attraverso un prisma, a cui si aggiungono le composizioni musicali in cui le tenebre scazzottano con la luce che è in noi. Resta uno dei pochi dischi dei Pink Floyd composti a otto mani da David Gilmour, Rogers Waters, Nick Mason e Richard Wright, è quasi un percorso metafisico grazie anche al tocco del “fisico del suono” Alan Parsons. La voce spettacolare di Clare Torry, ninfa del quartetto londinese, ha trasformato il brano The Great Gig in the Sky in un vero e proprio manifesto vocale.

CELEBRATION E PULSAZIONI DAL VIVO

Ero in prima fila a Venezia, accreditato stampa, nella notte magica del concerto del 12 agosto 2006 con una parte dei Pink Floyd. David Gilmour tirò fuori dal cilindro alcuni gioielli di The Dark Side insieme al compianto Wright, John Carin e al sax storico Dick Parry. Tremavo quando appuntavo sul taccuino il pezzo da pubblicare l’indomani.
Approfitatte delle celebrazioni per portavi a casa un bootleg ufficiale in vinile, pubblicato in occasione del cinquantesimo: The Dark side of the Moon – Live at Wembley registrato a Londra nel 1974. Non aspetterai tanto fossi in voi. A causa delle scazzottate continue tra Gilmour e Waters, i dischi del catalogo dei Pink Floyd sono ristampati a singhiozzo.

Eurovision 2022: Mammoni nell’Ucraina in guerra dei Kalush

I venti di guerra hanno cavalcato l’onda emotiva dell’Eurovision 2022 e hanno dato il podio alla Kalusha Orchestra, che ha consegnato all’Ucraina di Zelensky il palco della prossima edizione.
Chi fantastica già sulla ricostruzione postbellica e sogna di mettere le mani nella marmellata degli affari edili d’oltreconfine, ha ascoltato Stefania dei Kalush pensando fosse l’ennesimo inno anti-Putin. Abbindolati dallo stile folk, che per certi versi somministra slanci musicali che la mia generazione associava a Bregović e alle bombe del conflitto serbo-bosniaco, in tanti non si sono accorti che la Stefania vincitrice dell’Eurovision Song Contest è un omaggio alle mamme ucraine.

TUTTI MAMMONI

Così torniamo ad essere “tutti mammoni” senza riserva ma con uno sguardo che non cede sentimentalismi alle nostre madri emancipate, occidentalizzate e supersoniche, manager dietro la scrivania con l’agenda impegnata, con il tempo tiranno che le perseguita in affanno.
La musica in stile hip hop e il folk dei Kalush sputa parole che raccontano madri ucraine, soldatesse o no, somiglianti più a quelle della generazione delle nostre nonne, dove anche quando tornavano massacrate dai lavori dei campi erano padrone del tempo che disegnava le stagioni della vita.

Stefania mamma mamma Stefania
Il campo fiorisce, ma lei sta diventando grigia
Cantami una ninna nanna mamma
Voglio sentire la tua parola nativa


MANIFESTO MUSICALE TRA PACIFISMO E MATERNITA’

Se anche dietro Stefania si nascondesse la madre Ucraina e un velato orgoglio nazionalista rinvigorito, ai Kalush resta il merito di aver stampato un manifesto musicale tra pacifismo e maternità.
I rintocchi di queste maledette bombe ci hanno fatto venire improvvisamente una gran voglia di ringraziare le nostre mamme, che ci hanno dato la vita senza richiesta di ricompensa, così come il Paese in cui siamo nati e cresciuti. Speriamo che questo inno dei Kalush ci apra col tempo a ulteriori riflessioni, anche sulle contraddizioni di questa guerra da entrambe le parti. Se non fosse così di Stefania resterebbe il ricordo di un’ondata emotiva collettiva e di una vittoria a tavolino.